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 2015  maggio 04 Lunedì calendario

TANA PER TATTI SANGUINETI! – “L’ULTIMO SORDI ERA UN QUESTUANTE” – “MIA MADRE” DI MORETTI E’ IL SUO FILM PIU’ BRUTTO IN ASSOLUTO – FAZIO - FAZIO È TRA LE PERSONE PIÙ CATTIVE CHE CONOSCA. AI TEMPI IN CUI MI SENTIVO IL CERVELLO DI CHIAMBRETTI, FAZIO ERA UNA SEMPLICE COMPARSA”

In libreria trovate un libro che, con il pretesto di raccontare il rapporto tra Sordi e il suo sceneggiatore Sonego, scodella una storia d’Italia avventurosa e mozzafiato, pettegola e tragica – Nell’intervista golosa di Malcom Pagani Tatti si leva qualche sassolino verso il clan dei liguri…


“Abbasso le film commission, viva le troie!” Sotto la volta di una pensione post realista con più piani che stelle, sdraiato su un letto tra borse, libri, giornali, appunti e medicine, Tatti Sanguineti cerca la propria costellazione. A 68 anni che sembrano di più, continua ad accumulare ricordi, aforismi e modeste proposte per il cinema.

“Ho avuto qualche incidente, ho creduto di morire, ho covato angosce che mi hanno fatto venire voglia di rientrare nella vasca degli squali a dare qualche morso anch’io”. Così tra un sospiro e un graffio, questo maniacale topo da cineteca col fiuto rabdomantico per il reperto, ha scritto un libro in cui si racconta un’irripetibile stagione di cialtroni e maestri osservandola dal punto di vista di un uomo che partecipò alla festa senza essere invitato: Rodolfo Sonego, bellunese, ex partigiano sbarcato a Roma nel dopoguerra “con la miseria che produceva fame e idee”, per sceneggiare 80 film, di cui la metà con Alberto Sordi come protagonista, spalla o regista.

Come il volume dichiara fino dal titolo, Il cervello di Alberto Sordi (Adelphi), Sonego di Albertone fu il motore. La mente. Il suggeritore occulto. L’artefice dell’identificazione di un Paese intero che lasciava a Sordi “la gloria delle copertine o la noia delle serate mondane in casa Busiri Vici” ritagliando per sé il graffio biografico nascosto in alcuni capolavori (Il conte Max, il Vedovo, Lo scopone scientifico) e nelle commedie venate di nero e orrori, perché tra il seduttore e il mostro il passo non fu mai così breve.


Campione di un’esistenza avventurosa affollata di partigiani, umiliazioni, trionfi passeggeri, mignotte, produttori e trattorie, dove tra copioni e vita è impossibile tracciare un confine sicuro, il Sonego di Sanguineti è l’italiano di un’Italia che non c’è più, “il rappresentante di un universo estinto per cui è impossibile non provare nostalgia”.

Come lei, Sonego veniva dalla provincia.

Tra il cinema e la provincia italiana del dopoguerra c’è un patto di ferro. A Savona noi adolescenti non avevamo molte alternative. Se volevamo diventare grandi, scappare dall’impiego nel negozio di stoffe dei I Vitelloni, avevamo solo due alternative. O farci preti -e infatti Carlo Freccero frequentò il seminario- oppure fuggire al cinema. Poi si sa, uno tira l’altro e si diventa una banda. A quell’età nessuno va al cinema da solo, a parte forse Nanni Moretti.

La sua banda è quella del mitico Cineclub di Savona.

Con Carlo Freccero e Aldo Grasso frequentavamo assiduamente il Circolo del cinema della UICC, di ispirazione socialdemocratica, notevole strumento di potere in una città dominata dai comunisti e dai picchetti dei camalli. Dei tre l’unico borghese, il figlio dell’avvocato, ero io. Carlo era nato da un ferroviere, Aldo da un mediatore di carni. Entrambi con pochi soldi in tasca, si industriavano. Freccero si era iscritto al magistero, Grasso si pagava gli studi in una succursale della Cattolica lavorando come telefonista. Il direttore del circolo, manager di un’azienda siderurgica, aveva assoldato un operaio come proiezionista e in coincidenza con l’inizio, si volatilizzava. Solo molto tempo dopo scoprimmo che fuggiva con l’amante all’Hotel Astoria, a due passi dalla sede del circolo. Noi discutevamo animatamente su Bergman, lui tornava poco dopo le 23: “Stringete, dobbiamo chiudere”.

Continuavate a discutere per le strade deserte come nei Vitelloni?

A volte sì. Ci sentivamo un piccolo gruppo di eletti in anticipo sui tempi. Capaci di parlare un linguaggio nuovo. Gente che avrebbe trovato occupazione grazie alla passione o al colpo di culo, ma a spasso non sarebbe rimasta. Erano anni, quelli, in cui le occasioni esistevano veramente. Oggi sgomitano tutti e si rubano l’aria. Allora era più facile e comunque, sentendoci investiti dalla missione, ci impegnavamo. Quando dovetti presentare The Knack-Non tutti ce l’hanno di Richard Lester, Palma d’Oro a Cannes nel ’65, non dormii per tre giorni. “Questa è una grana” pensavo “una iattura”. E giù caffè, albe e pagine fitte di appunti.

Il cervello di Alberto Sordi conta 528 pagine. E’ tornato a nutrirsi di appunti?

Prima di parlare per la prima volta con Sonego, a Ferragosto del ’99, quando non sapevo neanche se fosse vivo o morto, il progetto di un libro sul suo rapporto con Sordi rasentava la fantascienza. Come molti intellettuali di sinistra della mia generazione, detestavo Albertone e gli ero programmaticamente ostile. Stavo dalla parte di Walter Chiari. Un modello di vita chiassosa, dissipata, generosa e casinara che era il contrario della proposta sordiana, avara e accumulatrice. Tanto uno era sfasciatore allegro di amori, possibilità e vantaggi, tanto l’altro era calcolatore, prudente, amministrativo e trattenuto. Il pregiudizio, per qualche strana eredità, l’ho in parte conservato, non avrei mai chiesto a Sonego di presentarmi Sordi. Allegra, la moglie di Rodolfo, ogni tanto ci provava: “Facciamo un regalo a Tatti, invitiamo a cena Alberto”. Io la dissuadevo e avevo ragione. Sordi non sarebbe stato contento. Che Sonego non apparisse e stesse per i cazzi suoi gli stava benissimo. E d’altro canto, Rodolfo rispettava il patto.

Quale patto?

Un patto che durava da cinquant’ anni, con ruoli precisi e definiti. Sordi in primo piano e Sonego fuori fuoco sullo sfondo formavano una coppia perfetta in cui non c’era spazio per nessun altro. Il gaglioffo e l’eroe partigiano. Il cialtrone e il pittore mancato. L’istinto e la riflessione. Il democristiano e il comunista. L’alleanza viveva di alti e bassi. Di ascese e cadute. Il libro prova a raccontare tutto questo, fino alle ultime, infelici collaborazioni.

Perché infelici? Il sodalizio si incrinò?

Era troppo tardi per metterlo in discussione. Sul ring esistevano solo loro due. Come diceva Sonego: “Quando a firmare una sceneggiatura sono più di due persone, la sceneggiatura puzza”. Qualcosa però era cambiato e non in meglio. Sordi, in vecchiaia, era tornato a essere il querulo questuante della giovinezza. E delle prevaricazioni della sua creatura, Sonego parlava con fastidio.

Come lo descriveva?

Come quello che chiedeva sempre -e non di rado disperatamente- una parte in commedia. Un posto al desco. Una partecipazione a qualsiasi costo. Quello del “fammelo fà a me, ce penso io”. Lo scocciatore. La piattola. Il prepotente che sgomita dei primi anni. Se il compromesso storico tra loro aveva funzionato al cinema, il tempo aveva via via usurato la complicità.

Che qualità deve avere un cervello che si mette al servizio di qualcuno?

Al negro di turno o al cervello che spende i propri guizzi autoriali dietro le quinte, come Cyrano con Cristiano, si deve chiedere di mangiare la sbobba, di non apparire mai, di essere diligente. Per questo nel titolo ho usato la parola cervello e non mente. La mente e il braccio lavorano alla pari; ma il cervello deve accettare di essere il negro del corpo.

Ci ha detto di aver incontrato per la prima volta Sonego nell’estate del ‘99.

Mi diedero un numero. Telefonai. Passammo ore al telefono, al primo colpo. Poi ci vedemmo a Venezia, lui non frequentava il Festival da anni. Era un po’ stordito dall’atmosfera, ma di straripante simpatia. Una sera, una sola sera, andammo a cena. E vidi, finalmente liberato dalle sue diete, dal controllo di sua moglie e dei suoi gendarmi travestiti da medici, il Sonego delle osterie del dopoguerra. Godeva e al tempo stesso, con la sola forza del rimpianto, faceva paura: “Cazzo, tutte le cose buone fanno male, che peccato non poter mangiare sempre i fagioli con le cotiche”. Mangiava e raccontava, con la sua faccia da povero e intorno il mondo si fermava. Sembrava un fotogramma di C’eravamo tanto amati, quando a cena dal “re della mezza porzione”, disgraziati e nobili decaduti in trattoria fanno a gara ad addentare la vita riempiendo l’aria di storie.

La porzione era mezza, ma la fame era doppia.

Era un’Italia in cui la gente aveva troppo bisogno del cinema perché venissero prodotti film privi di interesse. Era un’Italia ventrale, animalesca, fatta di gente che azzanna la vita e non si vergogna di niente. Né delle metafore, né delle pezze al culo, né della saggezza popolare. Se non avessi avuto cura eccessiva del terrore di Fazio, l’avrei detto anche in TV.

Cosa avrebbe detto a Che tempo che fa?

Che l’alto e il basso esistono e si compensano. Che uno non elimina l’altro. Che l‘equilibrio assoluto è una chimera e sicurezza fa rima con pregiudizio. Come insegna il cervello di Sordi, ma anche il proverbio ligure Ommu piccin, tuto belìn. Mai fidarsi troppo di quello che si vede.

Avrebbe voluto spiegarlo a Fazio, ma non l’ha fatto. Perché?

Perché sono stato al gioco e mi sono affidato al mantra dell’ufficio stampa dell’Adelphi. Una macchina da guerra. “Vai e vendi” mi hanno detto: “non ci tormentare con le tue ubbie, i tuoi sospetti, i tuoi piccoli maldipancia. Fai la tua marchetta, non rompere i coglioni, esegui e stai al gioco. Ricordati che Carrère, con il passaggio da Fazio, ha venduto 23.000 copie”.

Se l’è ricordato?

Fazio mi odia, ma mordendomi la lingua, sono stato ligio alle consegne. A dispiacermi è stato altro. La totale mancanza di preparazione. Di domande vere, nell’intervista di Fazio, non ce n’era neanche una. E io il suo mestiere l’ho fatto.

Lei è stato a lungo il cervello di Chiambretti.

Per Il portalettere, all’inizio degli anni ’90, scrivevo le interviste in prima persona. Su quella da fare a Cossiga lavorai settimane allenando Piero come un boxeur. “Chiedigli se teme di essere avvelenato; e se ti risponde di no, digli che a noi risulta che abbia un assaggiatore anche per l’acqua”.

Provocavamo senza la pretesa del messaggio educativo. In quell’intervista al Presidente della Repubblica domandavamo cose assurde: “Ci risulta che abbia mandato un giardiniere del Quirinale a sistemare le piante del terrazzo di Federica Sciarelli, è vero?”. Cossiga scherzava, concedeva, accelerava, rallentava, inventava. Vi pare che Fazio abbia la stessa ironia?

Ma perché Fazio la odierebbe?

È una vecchia storia. Ai tempi in cui mi sentivo il cervello di Chiambretti, militavamo in campo avverso. Piero era il cocco di Guglielmi, il direttore di Raitre. Fazio il protetto di Voglino, il capostruttura. Chiambretti era al vertice e Fazio una semplice comparsa.

E Fazio, buonista per antonomasia, sarebbe capace di portare rancore?

Fazio è l’uomo meno buono del mondo. È la caricatura del buono. È tra le persone più cattive che conosca. Ma per fortuna ha un cervello che lavora per lui. Un negro di fatica, un compagno di banco, una brava persona di nome Pietro Galeotti. Lui il libro su Sonego e Sordi l’aveva letto tutto. Altri, anche tra i recensori, si sono fermati prima.

Chi si è fermato prima?

Non volevo finire nella palude del pigro rimpallo tra i cronisti culturali de La Repubblica, nella mattanza redazionale che brucia anni di ricerche in uno sbadiglio da riunione mattutina: “Ma chi è ’sto Sonego?” e così, quando il giornale si è generosamente occupato del libro, ho giocato di anticipo e ho pregato che se ne occupasse Gnoli, Antonio, quello bravo che la domenica intervista i grandi vecchi.

L’addetto stampa di Adelphi dubitava della riuscita dell’operazione. “Non sei abbastanza vecchio”. L’ho calmato: “Lui mi chiederà quanti anni ho e tu gli dici i miei, più quelli di Sonego divisi per due”. Gnoli ha faticato. Non capiva l’oggetto. La storia. I riferimenti. Il senso generale. Si è fermato a pagina 30, però è stato gentile. Mi ha chiesto se Sonego avesse a che fare con Basaglia, gli ho risposto che era fuori strada, ma ha avuto la gentilezza di ascoltarmi e alla fine ha scritto un articolo decoroso. Fazio proprio non sapeva di cosa stessimo parlando.

Che differenze ballano tra il cinema di Sonego e quello contemporaneo?

Il cinema italiano di allora, piaccia o non piaccia, figlio di un’italietta ultrademocristiana o fascista, il cinema di Mussolini o di Andreotti dalla prima pietra posta a Cinecittà nel ’36 fino a Un borghese piccolo piccolo, è stato il secondo al mondo. Anche con la commedia, anzi soprattutto con la commedia, provava a raccontare l’Italia e ci riusciva. Quello di oggi è globalizzato e ci prova molto meno.

Oggi tutti pensano improvvidamente di poter scrivere sceneggiature senza aver visto un cazzo della realtà, ma neanche del cinema del passato. Vanno a imparare direttamente alla scuola di Baricco. A 9mila euro all’anno. Osservo il trailer Racconto dei racconti di Garrone scelto da Cannes e intuisco un’estetica da Trono di spade. Cosa c’è di italiano in Jeremy Thomas? Nulla di nulla, si parla del mondo globalizzato attraverso un testo scritto nel seicento in dialetto. Neanche Sorrentino, che pure ha un collaboratore sublime come Bigazzi, riesce o vuole raccontare il presente. Forse l’unico che in questi anni ha continuato a raccontare l’Italia è stato Nanni Moretti.

Mia madre l’ha convinta?

Penso che sia il suo più brutto film in assoluto. Lotta con La stanza del figlio, ma alla fine vince per distacco. Una regista stupida come il personaggio interpretato da Margherita Buy non esiste. Se sei così stupido, un altro film non te lo fanno fare. Neanche se ti sostengono Craxi, il Caf e i servizi segreti.

Però qualche film memorabile Moretti lo ha girato.

A casa di Nanni ho vissuto, gli voglio molto bene ed è vero, ha girato anche film grandissimi. L’ultimo ha un problema. Non voglio parlarne male, non mi sembra giusto, ma penso che Mia madre abbia proprio qualcosa di sbagliato. Un racconto che indugia sulla parmigiana di melanzane al primo minuto, non può omettere di dire per i restanti cento che cosa si produca nella fabbrica in cui Margherita Buy ambienta il suo film. Non lo accetto. È un’allegoria? Una posizione ideologica? Produce utile indistinto perché ogni fabbrica è destinata a farlo? È la rotativa di un giornale e dietro si nasconde l’Unità o nello stabilimento si licenziano ogni giorno centinaia di scatole di preservativi? Ho il diritto di saperlo.

Fabbrica a parte?

Sul Vaticano puoi scherzare. Puoi dare al Papa uno psicanalista e ai prelati un campo di pallavolo in cui giocare. In fabbrica meno. Ma non puoi fare di Turturro un demente che non sa pronunciare tre parole. È smarrito. Si vede. E non sembra voluto. Secondo me Nanni ha avvertito nitidamente lo spaesamento e la deriva del film ed ha lasciato che le cose andassero avanti senza intervenire. Il tutto, lasciatemi dire, è un po’ triste. Agata Apicella, professoressa di Liceo e madre premurosa di quelle angeliche che prima che il figlio andasse in piazza fissavano il casco sulla testa per attutire i colpi della Celere, l’ho conosciuta. L’interno di famiglia di Nanni l’ho visto da vicino e sulla scena in cui la macchina da presa indugia sui veri libri della madre, mi sono anche commosso. Per questo mi dispiace, rimane un’occasione persa.

Lei per Moretti, nel Caimano, ha anche recitato.

Gli sono affezionato, davvero. Tra attore e regista si stabilisce un rapporto profondo e non si scende mai al di sotto di una certa soglia di solidarietà. Certo, Nanni è imprevedibile. Umorale. Scostante. Non sai mai se lo troverai Dr. Jekill o Mr. Hyde, se voglia ascoltare il ballo irlandese o la discomusic della sciampista. I pranzi a casa sua, un sacrario, nell’appartamento di Via San Tommaso D’Aquino, me li ricordo ancora. C’erano silenzio, educazione, gesti lenti. Nanni era protetto, viziato e coccolato da una famiglia che lo ha aiutato a convivere con i suoi tanti tormenti, con le sue faticose elaborazioni, con le sue sofferenze. Ha sempre saputo cosa fare, però. Dove andare. Anni fa, in un cineclub di Milano, lo invitai a presentare Io sono un autarchico. Si presentò portandosi a mano la pizza della pellicola e a fine proiezione mi descrisse per filo e per segno Palombella rossa. All’epoca giocava ancora a pallanuoto ed era un atleta, ma nei suoi progetti era già lucidissimo: “Quando non potrò più stare in vasca”, disse, “farò un film sulla vasca e sul mio sport”.

A lei che film piacerebbe interpretare?

Quello di un uomo che realizza i suoi desideri minimi. Ho ritrovato le vignette di Furio Scarpelli per Rinascita. Per un De Gasperi con il naso aguzzo come il becco di un rapace, venne scomunicato e dovette rinunciare al sogno di sua moglie, il matrimonio in chiesa. Un libro sull’Italia rivista con le vignette di Scarpelli sarebbe un libro straordinario, ma temo non ce ne sarà il tempo.

Per cosa ci sarà il tempo allora?

Per rubare i dettagli. L’occupazione preferita da Sonego. Quella delle persone libere, senza fissa dimora. E poi, a fine giornata, per un bel piatto di fagioli con le cotiche.

Ma quelli fanno male, come tutte le cose buone.

E’ vero, ma sapete cosa rispondeva Sonego a chi lo metteva in guardia dal bere, mangiare e fumare troppo? “Tutti quelli che me lo consigliavano adesso sono morti”.