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 2015  maggio 03 Domenica calendario

«Questa è la mia prigione. Sul serio. Sono io che prendo l’ultima decisione su ogni cosa, in questo posto

«Questa è la mia prigione. Sul serio. Sono io che prendo l’ultima decisione su ogni cosa, in questo posto. Tutti si rivolgono a me. Prima che un qualsiasi stronzo prenda a pugni in faccia un altro negro, indovina cosa fanno: vengono da me. Sono io che dico se mi va bene o se devono trattenersi. Prima che un qualsiasi stronzo ficchi un coltello dentro qualcuno, viene da me. Sono arrivato a un punto in cui non c’è nessuno più in alto di me. [...] Sono io la legge. [...] Quindi se io dico a qualche stronzo che deve fare una cosa – picchiare un poliziotto, fare una cosa, uccidere un altro stronzo, farne un’altra – questa viene fatta. Punto.» Quando dice queste cose per telefono a un suo amico, Tavon White ha 36 anni ed è in carcere, da cui entra ed esce da quando aveva 19 anni. Nel 2009, in seguito a una nuova accusa di tentato omicidio, fu trasferito alla Baltimore City Detention Center (BCDC), una prigione nel centro di Baltimora, la capitale del Maryland, per detenuti in attesa di processo oppure condannati a scontare pochi mesi (negli Stati Uniti questi posti vengono definiti jail, e sono differenti dalle prison, dove vivono i detenuti che devono scontare condanne piuttosto lunghe). Dal 2000 White fa parte della Black Guerrilla Family, un’organizzazione criminale composta perlopiù da detenuti neri e fondata nel 1966. Fra il 2010 e il 2011 White diventò il capo della Black Guerrilla Family nella prigione di Baltimora: fino al 2013 arrivò a controllare gran parte del carcere attraverso la gestione di una rete di contrabbando. Aveva creato un sistema per far entrare all’interno del carcere qualsiasi cosa – anche tv e Playstation, per fare un esempio – ma soprattutto cellulari e droga, che rivendeva a prezzo maggiorato ai detenuti. Fin qui niente che non si sia visto in tv, ma la vicenda ha un sacco di storie laterali notevoli e piuttosto insolite, raccontate in un lungo articolo del giornalista americano Jeffrey Toobin sul New Yorker. Una su tutte: la maggior parte della merce di contrabbando venduta in carcere dalla Black Guerrilla Family era trasportata dalle guardie carcerarie, principalmente donne. Quattro di queste negli anni hanno avuto una relazione con White, che da loro ha avuto complessivamente cinque figli (l’ultima di loro, la 27enne Tiffany Linder, lo ha accompagnato l’anno scorso in alcuni suoi processi). Una di queste donne ha il nome “Tavon” tatuato sul polso; un’altra sul collo. Durante la detenzione White si comprò un’auto BMW e una Mercedes. Inoltre, la Black Guerrilla Family era stata creata in un momento piuttosto particolare, nel pieno dei movimenti per l’emancipazione degli afroamericani: il suo fondatore, George Jackson, fu un noto intellettuale e attivista di estrema sinistra che si occupava dei diritti dei neri, ancora oggi piuttosto rispettato. Alcune sue lettere furono messe insieme in un libro di buon successo intitolato Soledad Brother; Bob Dylan nel 1971 gli dedicò una canzone; nel 2007 è uscito un film ispirato alla sua vita, Black August. Dall’inizio George Jackson era nato a Chicago il 23 settembre 1941. A vent’anni, nel 1961, a causa di una condanna per rapina a mano armata passò dieci anni (di cui sette in isolamento) nella prigione federale Soledad, nel nulla totale a sud di San Jose. Cominciò a leggere molti libri, principalmente saggi di economia e politica: raccontava di essere stato «redento» da Marx, Lenin, Trotsky, Engels e Mao. Entrò nelle Black Panthers, un’associazione politica per l’emancipazione dei neri divenuta celebre nel 1968 dopo la premiazione di due suoi membri alle Olimpiadi: Tommy Smith e John Carlos, quelli della famosissima foto sul podio col pugno alzato. Scriveva anche parecchio: la suo avvocata, Fay Stender, fu incuriosita dai suoi scritti e nel 1970 riuscì a far pubblicare alcune sue lettere e una sua breve autobiografia con una prefazione dello scrittore francese Jean Genet. Il libro ebbe un buon successo. Un articolo della New York Review Books dell’8 ottobre 1970 descrive Jackson come una sorta di leader dei prigionieri della Soledad, e scrive che la pena gli fu prolungata più volte senza alcun motivo poiché fu definito dalle autorità del carcere «un pericoloso capetto dei prigionieri che deve essere isolato a causa del suo impatto sulla popolazione carceraria». Huey P. Newton, il cofondatore delle Black Panthers, lo definì «una leggenda delle prigioni californiane». In Soledad Brother, un libro piuttosto complesso e sofferto, Jackson se la prende spesso con il capitalismo in quanto forma di schiavitù e invoca una rivoluzione che porti all’autodeterminazione della popolazione nera; in un passaggio, in particolare, scrive: «sono un estremista. Sento il bisogno di misure estreme, per risolvere problemi di estrema gravità. Quando si tratta di orgoglio e libertà, non utilizzo né consiglio mezze misure. Per me la vita senza il controllo sui fattori determinanti non è degna dello sforzo di respirare. Senza auto-determinazione io mi sento estremamente penalizzato». In prigione Jackson fondò la Black Guerrilla Family, una gang interna alla prigione concepita come una sorta di «blocco armato» della rivoluzione che Jackson invocava in Soledad Brother. Jackson morì il 21 agosto 1971 nella prigione di San Quentin, in California. Quella mattina, aveva tentato di produrre una specie di rivolta all’interno del carcere prendendo come ostaggio alcuni secondini. Secondo la leggenda fu ucciso con un colpo di pistola alla testa mentre tentava di fuggire dalla prigione. Poco più di due mesi dopo, Bob Dylan pubblicò George Jackson, una specie di disco singolo che conteneva due versioni della stessa canzone dedicata alla morte di Jackson. «Mi sono alzato questa mattina, c’erano delle lacrime nel mio letto. Hanno ucciso un uomo a cui volevo un sacco di bene Gli hanno sparato in testa Dio, dio Hanno fatto fuori George Jackson Dio, dio»