Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  maggio 04 Lunedì calendario

Notizie tratte da: Giani Stuparich, Guerra del ’15, Quodlibet 2015, 200 pp., 17,

Notizie tratte da: Giani Stuparich, Guerra del ’15, Quodlibet 2015, pp. 200, 17 euro.

Vedi Libro in gocce in scheda: 2325725
Vedi Biblioteca in scheda: 2312214

• «Al principio c’è un taccuino “tutto sporco di rosso terriccio del Carso”, che accompagna per settanta giorni, nella tasca della giubba, la vita di un soldato del 1° Reggimento Granatieri sul fronte di Monfalcone, nelle prime sanguinose battaglie della Grande Guerra. Sono “annotazioni scheletriche”, un supporto alla memoria, una testimonianza dell’esserci ancora, nel quotidiano confronto con la morte. Nascono dalla matita di un giovane di ventiquattro anni, triestino, che si è laureato in Lettere a Firenze prima di arruolarsi volontario sotto la bandiera italiana, disertando dall’esercito dell’Impero austro-ungarico di cui è suddito. Guerra del ’15 di Giani Stuparich (1891-1961) è innanzitutto questo, il “documento psicologico e personale” di “un semplice gregario” coinvolto in una vasta tragedia, come avverte la breve nota in apertura. Ma l’uomo che nel 1930 si convince a trasformare in libro il taccuino che aveva “sepolto in un cassetto” è molto diverso dal soldato di allora. È diventato uno scrittore, “il più discreto, il meno in vista dei letterati italiani”, secondo le parole di Montale» (dalla postfazione di Giuseppe Sandrini).

• «Non l’aveva affrontata da solo, la terribile prova del ’15. Al suo fianco, nelle trincee del Carso, c’era il fratello Carlo, di tre anni più giovane. Entrambi facevano parte del gruppo de “La Voce” di Prezzolini, la rivista che aveva tentato, negli anni prebellici, di “elaborare una coscienza nazionale-popolare moderna”, come dirà Gramsci. Il loro interventismo, la loro scelta di andare al fronte, erano maturati in quel crogiuolo fiorentino da cui già era emersa la figura di Scipio Slataper, l’altro triestino, quasi un fratello maggiore, che incontriamo insieme ai due Stuparich nella prima pagina del libro, sul treno che parte dalla stazione di Roma. Sembra quasi una scena del Risorgimento: confusi tra una folla di militari di leva, tre letterati che inseguono il sogno di Trieste italiana. A dire addio a Slataper ci sono due donne: Gigetta Carniel, la moglie, ed Elody Oblath, che un giorno sposerà Giani Stuparich, l’unico dei tre compagni al quale sarà dato di ritornare. Scipio morirà sul Podgora il 3 dicembre 1915; Carlo sul monte Cengio il 30 maggio 1916. Giani sarà il custode delle loro memorie, l’editore delle loro opere, il pellegrino sulle loro tombe» (dalla postfazione di Giuseppe Sandrini).

• «Avverto il lettore che ho voluto mantenere a questo mio diario di guerra, ripreso in mano dopo quindici anni, tutto intero il suo carattere: d’annotazioni fatte sul momento, di giorno in giorno, anzi d’ora in ora, da un semplice gregario, che riproduceva soggettivamente, sotto la prima impressione, tutto ciò che udiva o vedeva o sentiva dal suo umile posto, senza controllo, senza possibilità d’appurare la verità storica di certi fatti o la giustezza di certi apprezzamenti; e che quindi questo diario non può né vuol essere un documento storico, ma semplicemente un documento psicologico e personale di quei primi mesi di guerra» (premessa dell’autore al libro).

• «2 giugno 1915, pomeriggio. Roma. A Portonaccio! Si parte dalla stazione di Portonaccio. Il nome non sembra di buon augurio, ma noi non pensiamo ai nomi. Il buon augurio ce l’hanno dato certe popolane, subito fuori della caserma. Portiamo con noi le rose ch’esse ci hanno regalato. Siamo nuovi, dalle scarpe al berretto. Gli alamari
candidi, orlati di rosso carminio, riderebbero se vi battesse il sole, ma il cielo è grigio: ha piovuto e pioverà. Non fa
niente; sotto la pelle sudata noi siamo freschi; la testa è china nello sforzo di equilibrare lo zaino (noi per di più l’abbiamo rimpinzato di libri) e gronda, ma il pensiero è in alto».

• «4 giugno. Cervignano. (…) Fuori della stazione, il viale è affollato e rumoroso; tra due file di truppa passano carri come montagne, scuri: sono i pontoni. “I granatieri hanno passato stamane l’Isonzo”, si ode mormorare: è la voce anonima della guerra che parla da sé. Rasentiamo i carri e i petti delle guardie di finanza e degli altri soldati schierati. Il cannone romba ora con rabbia soffocata. In alto, tra i filari degli alberi scuri, si sprofonda un cielo blu freddo. Fra pelle e carne mi serpeggia un brivido improvviso: “mamma”: pensiero, sentimento indefinibile, come un’essenza che riempie tutto. Mi perdo e mi tremano le gambe. È un momento. Ritorno padrone di me e marco il passo. Sfiliamo muti fra le case mute, da cui penzolano qua e là stracci tricolori sporchi e sbiaditi. Da una finestra alta un acuto gridino di bimba: – Viva l’Italia! – scende improvvisamente a rompere la desolazione di quelle vie, desolazione che spira dal selciato e dai muri e che stagna come un polverio opprimente nell’aria. Quel grido mi è penetrato nel cuore».

• «5 giugno, mattina. Villa Vicentina. Batte il cuore nello sforzo di liberar la schiena dallo zaino, su cui si cade sfiniti. L’acqua di fontana, fresca, sotto il verde! A me basta sentire il suo alito vicino, nel primo momento, mentre gli altri vi si gettano sopra avidi e ne ingorgano la bocca e vi stendono le mani e se ne inzuppano il viso. Poi mi trascino sul fosso e immergo i polsi febbricitanti nella gelida corrente. Risollevarsi dall’ombra e ricacciarsi nel sole e nella polvere, dopo pochi minuti in cui il cuore non ha ripreso ancora il battito regolare, con le braccia formicolanti e il petto e la schiena come oppressi dalla stretta d’una morsa, è pena che si crede di non poter sopportare. Il corpo è una macchina al comando della volontà; la sola volontà è viva e tesa, il cervello una spugna pietrificata, gli occhi sono infuocati. Non si va a combattere: si cammina; non si sente il cannone: si cammina; la campagna non ha più nessuna fisionomia, tutto si esaurisce nella strada bianca su cui si cammina».

• «6 giugno. Papariano. Pieris. (…) La stanchezza di due giorni accumulata, i piedi gonfi e maceri, il peso estenuante sulle spalle e la prospettiva di camminare ancora chi sa quanto: eppure il corpo è come volatilizzato, una vibrazione indefinibile ne tiene in equilibrio le molecole, esso respira in un’armonia ossigenata. I guerrieri e i martiri della croce procedettero forse così sorridenti e illuminati, come noi sul tappeto bruno e verde dei campi, sfiorati dai tralci, nella luce diafana del crepuscolo. Silenzio immenso, ritmo soffice dei piedi nell’arato, represso ansare di petti, e il soffregamento del tascapane sull’anca del mio compagno davanti».

• «8 giugno. San Canciano, Staranzano. (…) Mentre cammino, il cuore mi fa sentire la sua commozione; corro con la fantasia a Trieste. Passiamo, noi granatieri, per la via delle Poste, per il Ponte Rosso e ci fermiamo in Piazza Grande, bianchi di polvere, col fucile a pied’arm e col sottogola calato; un grido di donna erompe a un tratto di mezzo all’entusiasmo della folla e ne esce Bianca [la sorella dell’autore – ndr]: – Giani, Carlo [il fratello, e commilitone – ndr]! – Chiediamo il permesso al colonnello d’andar a casa nostra, in via Carradori; e Bianca ci trascina tutta raggiante; i tre piani di scale son fatti in un baleno e nostra madre ci sta singhiozzante tra le braccia, stupita, palpandoci: – Giani, Carlo, soldati italiani, fra i primi entrati a Trieste! – Verrebbe poi nel frattempo la nostra nomina a ufficiali e noi dormiremmo a casa, perché certamente i granatieri non andranno così presto via da Trieste. Mi volto verso Carlo e lo vedo trasfigurato, forse dalla medesima speranza».

• «9 giugno. Monfalcone. (…) Un rombo terribile s’abbatte e schianta più in là, alla nostra destra, seguito come da un ronzio; poi un silenzio tetro. (…) Nell’argine c’è una enorme buca, come un bacino, e dentro zaini e fucili e brandelli di stoffa; confusi con questi ci sono anche dei granatieri: uno è disteso bocconi con lo zaino sulla schiena, le braccia allargate, la testa abbandonata sulla terra; un altro giace sul fianco con le mani rattrappite intorno alle ginocchia e la testa rovesciata: sotto la sua faccia terrea spiccano gli alamari candidi orlati di rosso. Come un velo mi si dirada davanti gli occhi: la grande pianura verdeggiante che abbiamo attraversato baldanzosi, in un’aureola di gloria, si restringe in quella buca terrosa piena di cadaveri; lo sguardo abituato alla vaghezza di un’atmosfera di sogno, si fissa acuto in quello strappo livido del terreno. In una sosta verso la fine dell’argine – le notizie arrivano stranamente a circolar prestissimo – sento dire che il primo plotone della seconda compagnia che occupava quel posto è stato quasi distrutto da una granata, e che tutta la compagnia s’è sbandata ed è fuggita pel terrore. Primo plotone della seconda compagnia! Ci saremmo rimasti anche noi in quella buca, se non ci avessero cambiato di compagnia. Nostra madre ci protegge».

• «10 giugno. Dobbia. (…) Ho voglia di piangere, vorrei trovare un cantone dove poter piangere senza esser veduto. Trieste tanto vicina prima, che pareva di poterci arrivate in un balzo gioioso: fossi morto pure per la strada, sarei morto felice, gli altri, Carlo, sarebbero arrivati! E ora invece, tanto lontana! Ora sì la guerra comincia a pesare, ora sì che si pensa, con angustia, a tutte le fatiche che dovremo sopportare. Ma la speranza, no, non deve morire; guai se la speranza muore. Allontano presto il pensiero di mia madre, perché la sua immagine mi ha fatto salire le lagrime fino agli occhi e me li ha inumiditi. Nel mangiare il rancio della sera non posso reprimere un singhiozzo, di quelli secchi che fan male al petto; a Carlo che m’interroga con lo sguardo profondo, rivolgo un viso forzatamente sorridente; restiamo tutti e due per qualche tempo col cucchiaio sollevato sulla gavetta, senza poter mangiare. La sera usciamo dal cortile e c’inoltriamo un poco nella campagna. Un bel tramonto, sereno, sulla pianura; alcuni pioppi solitari si levano nella luce. È come un miracoloso conforto, che scende sui nostri animi abbattuti».

• «11 giugno. Dobbia. Siamo usciti dalla fattoria. Dobbiamo costruire dei ricoveri dietro una siepe. Vita di stenti, senza orizzonti; tutto duole dentro di noi e tutto, fuori di noi, ci affligge. S’aggiunge il malessere della sporcizia e, più umiliante ancora, un senso disperato d’inerzia. La coscienza s’oscura nel dubbio, se abbiamo fatto bene a voler la guerra. Questo è il tormento più grave di tutti. Ma non può durare. L’animo si ribella a questa debolezza. No, nessun’altra via era possibile, se non questa che abbiamo scelto. C’irrigidiamo in una volontà senza presa, in un desiderio vano di agire. Ci sentiamo isolati tra i compagni. L’egoismo che si sviluppa per necessità bestiale nella grande fatica ci ripugna. Ognuno pensa duramente a sé, e noi che credevamo a una fraterna collaborazione, tanto più grande nel pericolo, ce ne sentiamo offesi e umiliati. Ci stringiamo più fortemente fra di noi, ringraziando Dio d’esser stati assegnati alla medesima compagnia, nella stessa squadra. Eppure è commovente osservare come i nostri compagni, per la maggior parte contadini, s’affatichino a prepararsi il posto comodo, presi soltanto dal pensiero del presente, senza dubitare neppure un attimo che fra pochi minuti potrebbe venir la morte o l’ordine di partire. È giusto così».

• «12 giugno. Dobbia. Nel sole. Bombardano il villaggio e la campagna vicina. (…) Mamma, se ritorno, rinuncio a tutto, pur di tenerti le mani nelle mie mani e d’averti sempre vicina! “Forse lassù, lontano lontano, la tua mamma pensa a te”: ho il cuore gonfio quest’oggi e questa reminiscenza di parole e di canto, con l’immagine della camerata, a Roma, dove cantavamo quella canzone prima di partire per il fronte, me lo fa traboccare. E dire che, prima, in certi momenti il pensiero di prendere parte alla guerra mi si accompagnava con l’idea d’avventure, di vagabondaggio, con l’idea di sganciarmi dalla mia famiglia!».

• «13 giugno. Dobbia. Una buona lavata a torso nudo con l’acqua del ruscello, prima che spunti il sole. Ci si sente rinfrancati anche di spirito. (…) È domenica. La messa in mezzo ai campi, per i caduti, ha qualche cosa di primitivo e di solenne. Ci fa riverenti e commossi, anche se non sappiamo pregare come i nostri compagni che attorniano l’altare. Quali facce dolorosamente assorte! Qual fervore di dedizione trema sulle loro labbra! Il prete in stola si volge con le braccia sollevate e le palme delle mani aperte: Orate, fratres. Chino il capo e sento dentro di me come un richiamo di voci lontane, della mia fanciullezza, al quale non so rispondere. Il campanello, all’elevazione, sgrana una filza di suoni che si spandono, attenuandosi, per la campagna».

• «18 giugno. Monfalcone. All’alba si ritorna a Monfalcone. Seduti sugli zaini, in piazza, si discute coi nostri compagni sull’Italia e sulla guerra. È grossolano il loro modo d’esprimersi, ma sotto c’è molto buon senso. Considerano l’Italia, forse, più concretamente di noi. E, tranne quelli che ripetono frasi di giornali, dicono cose assennate che fanno pensare. È un po’ puerile la loro fantasia d’immedesimarsi con l’Italia: “se fossi io l’Italia, farei…”, ma quale amore alla propria terra brilla negli occhi di certi contadini toscani e come fa piacere sentir un piemontese o un lombardo andar d’accordo con un toscano. Nessuno ha l’aria di dire: “la guerra la facciamo noi”; sì, a esser granatieri ci tengono molto, ma i più sono umili e, pur brontolando e trovando da ridire su ogni cosa, s’adattano a far la guerra come vogliono “gli altri”: e questi “altri” sono un termine generico che comprende, dal sottotenente del plotone in su, tutti gli ufficiali fino a Cadorna, e forse include anche il destino».

• «19 giugno. Monfalcone. Caffè “Carducci”. (…) Quanta pena mi fanno questi bambini cenciosi che risbucano, non si sa di dove, a ogni rancio e s’avvicinano timidi, con dei pentolini o dei vecchi vasi di conserva, alle marmitte, nel momento in cui i soldati sfollano con in mano le loro gavette piene di brodo grasso e fumante, su cui affiora il pezzo di carne! Mi fermo a guardarli: non han coraggio di chiedere con la voce, ma pregano con gli occhi. I nostri cucinieri sono buoni, e non ne lasciano andar via nessuno senza aver riempito di brodo i loro recipienti e, qualche volta, senza aver messo nelle loro mani dei rimasugli di carne o delle mezze pagnotte».

• «20 giugno. Monfalcone. Caffè “Carducci”. (…) Ho fatto dei sogni d’una bellezza così ariosa, intessuti di sentimenti tanto dolci, che ne ho il cuore pieno, anche ora che sono sveglio: se la vita fosse come i miei sogni di stanotte, sarebbe il paradiso terrestre. C’erano in essi i momenti più belli della mia adolescenza, c’era l’amore, avverato in un’armonia così perfetta e calda come il pensiero non sa immaginare, e c’era il viso santo e lucente di mia madre, incorniciato da un nimbo di capelli argentei. La mattina è piovigginosa. Il cielo pare cenere umida. Passiamo questa domenica in riposo, facendo un po’ d’ordine fra la nostra roba e una buona pulizia ai fucili. Io conservo nel sangue, per tutta la giornata, la dolcezza dei miei sogni».

• «21 giugno. Rocca di Monfalcone. (…) Il capitano ritorna da un giro d’esplorazione; (…) mi chiama con un cenno della mano e mi dice che a duecento passi c’è un varco nella pineta, da cui si vede benissimo Trieste. Mi sento sussultare il cuore, e il desiderio è tanto grande che mi faccio coraggio: gli domando se mi permette di andarci. Me lo permette e m’indica bene la posizione. Caro capitano! M’affretto, giro, ritorno sui miei passi, temo di non trovarla, ma improvvisamente s’apre ai miei occhi il golfo di Trieste. Duino, Miramare, Trieste. La città si confonde con l’azzurro delle colline, ma ne riconosco ogni segno; vorrei esserle ancora più vicino, solo un attimo, per distinguerne le case e le vie. Nel palpito dell’aria che le sta sopra, immagino il respiro di mia madre. Sento con un senso misterioso che non è la vista e non è il tatto, ma è un complesso dei due, la presenza della nostra casa che ci aspetta. Non mi sazierei mai di guardare. A destra, sotto di me, la pianura friulana violacea nella nebbia. Il mio orologio segna le quattro».

• «24 giugno. Rocca di Monfalcone. Siamo saliti quassù prima dell’aurora, per prepararci all’assalto. È la volta del nostro battaglione, il quale deve tentar la conquista delle trincee nemiche che tutta l’altra notte e tutto ieri hanno resistito ai nostri assalti. Penso, con calma, che bisognerà morire. Con calma, ma non senza commozione. In fondo, subito dopo i primi giorni, ci siamo accorti che in guerra, avanti tutto, si muore; poi si combatte, poi si vince o si perde, e da ultimo appena c’è la speranza di poter sopravvivere, feriti o incolumi; ne abbiamo discorso a lungo e tranquillamente, Carlo ed io. E se si muore, meglio morire nell’assalto. Ma si ha un bel parlarne spesso, un credersi preparati per sempre; no, alla morte bisogna riprepararsi ogni volta. E così, nell’imminenza dell’assalto, ci ripenso, e i sentimenti che provo sono nuovi, come se la morte mi stesse davanti per la prima volta. (…) Due sono le parole che, nel mio pensiero della morte, mi tornano più frequenti alla mente: Dio e mamma. Tutto mi rappresenta questo Dio: la mia storia e il mio destino, i miei errori e il mio compito, la mia realtà. E mamma vuol dire il mio essere migliore, le mie aspirazioni al bene e il mio rimorso. E però esclamo: – Dio, sono nelle tue mani! Mamma, perdonami! – La mia coscienza si placa nella luce di questi due concetti; ma l’anima continua a trepidare, muta e sgomenta. Prima dell’assalto vedrò Carlo e gli darò un bacio».

• «25 giugno. Monfalcone. (…) Nel pomeriggio si ritorna al caffè “Carducci” con grande gioia della nostra compagnia, perché è il miglior alloggio di Monfalcone. (…) Improvvisamente la voce sgangherata d’uno strumento si spande da un angolo per il caffè. Sorpresa, meraviglia, battimani. Un pianoforte? Ma sì, è un pianino, che è stato scoperto. (…) Nairotti e Lanfranco ballano; Brambilla è rimasto cinque minuti come estasiato e poi s’è buttato fra le braccia di Goffanti e si son messi a ballare anche loro. Piemontesi e lombardi che ballano. Questa musica strimpellata tra il fracasso delle corde allentate o spezzate che l’accompagnano, questi contadini, questa gente del popolo, che ha dimenticato la febbre di ieri e di tutti i giorni di guerra passati e che domani potrebbe morire nell’assalto o sotto i ricoveri, tutto il contrasto fra quest’interno, fra questa scena di villaggio in festa, e la paurosa tragedia che continua a svolgersi fuori di queste case; gli stessi abiti dei danzatori, segnati dall’impronta caratteristica della trincea, e le loro facce idilliache e la grazia della loro danza – non so, mi pesano sul cuore e insieme me lo inteneriscono».

• «27 giugno. Monfalcone. Rocca. C’è un insolito, pacifico movimento per le vie di Monfalcone e tranquillità perfetta in tutto il nostro settore. Si guarda in aria meravigliati di non udire né un colpo di cannone né un colpo di fucile. È il primo giorno, ch’io mi ricordi, d’una quiete simile. È domenica e tutto ha veramente un’aria domenicale. Non mi meraviglierei se in questo istante passasse la banda del nostro reggimento per la via. Che ci si sia messi d’accordo, noi e quelli di là, di festeggiar la domenica?».

• «28 giugno. Monfalcone. (…) L’aiutante maggiore del battaglione (…) ha fatto radunare la compagnia. Domanda chi s’annuncia volontario per porre i tubi di gelatina sotto i reticolati nemici; un premio di sei giorni di licenza a chi li avrà fatti brillare. Sospensione muta tra le file. Ho vicino a me Carlo; gli bisbiglio all’orecchio, in tono deciso perché non possa ribattermi: “Tu no, non voglio; mi annuncio io”. Vedo il suo volto arrossarsi d’una fiamma cupa, come se le mie parole gli avessero rimescolato il sangue. Intanto uno s’è già annunciato: Novelli; “se mi dànno sei giorni di licenza…” ha aggiunto, come con l’aria di dire: be’, per sei giorni di licenza si può anche andar incontro alla morte, tanto là ci aspetta a ogni canto lo stesso. Dico il mio nome, con voce che non sa nascondere il tremito interno; e vorrei impedire che Carlo parlasse, ma egli ha già pronunciato, subito dopo il mio, il suo nome, con voce ferma e chiara. Mi si volge con un’espressione timida sulla faccia, quasi a chiedermi di perdonargli. Perché non posso essergli madre e stringerlo al mio petto e proteggerlo? Carlo ha sul viso e nel cuore l’ingenuità d’un bambino, ma è più forte e più nobile di me».

• «4 luglio. Valletta della Rocca. (…) Ricordo il giorno che andammo ad arruolarci volontari a Roma, Scipio [Scipio Slataper (1888-1915): anch’egli, come i fratelli Stuparich, triestino e collaboratore della rivista fiorentina “La Voce” di Prezzolini – ndr], Carlo ed io; Scipio aspettava alla stazione noi due che venivamo da Firenze; usciti dalla stazione andammo direttamente, senza perder un minuto, alla caserma dei granatieri e là nella stessa mattina ci visitarono, ci accettarono, ci vestirono; dovemmo mandar a dire a Gigetta e a Elodì, le quali attendevano alla porta della caserma, che ci saremmo rivisti alla libera uscita, che ormai eravamo granatieri e ci toccava star dentro; e il primo rancio, che Carlo si lasciò portar via la gavetta nuova, e i primi esercizi nel cortile (per fila dest! per fila sinist! quanto eravamo buffi coi calzoni che ci facevan borsa intorno alle scarpe e con la giubba che ci pendeva da ogni parte!), e la prima sera nella camerata a dormir sulla paglia. C’era in noi, in quei giorni, qualche cosa di fanciullesco, d’estremamente serio e ingenuo nello stesso tempo: dovevamo esser commoventi e ridicoli insieme. Quanto sono lontani quei giorni, come ci siamo cambiati, di colore, di spirito, d’età! Sì, anche d’età: se guardo Carlo, ch’era allora proprio un fanciullo, lo vedo diventato un uomo».

• «8 luglio. Staranzano. Tutta la giornata la passiamo nelle buche. Questo corridoio sotterraneo illuminato dal giorno, che vi penetra a fasci dalle aperture e a strisce dagli interstizi e che trasparisce qualche volta dalle stesse zolle del tetto, mi dà l’illusione d’un treno misterioso che attraversi una zona incantata, dentro un’aria diafana. (…) Il fumo dei sigari e delle sigarette vela tutta l’aria e si raccoglie a matasse dorate sotto le aperture. I granatieri in lunga fila chiacchierano, fumano, lustrano le gavette e i fucili, cuciono; molti si son levata la giubba e se la spidocchiano, altri si son cavate le scarpe e godono del contatto del piede nudo con la terra. Alle aperture c’è sempre qualcuno che va e viene per le scalette: le gambe di chi scende sembrano enormi; la luce fa come la risacca, ora aumenta ora decresce. Salgo anch’io, perché chiamato dal capitano; a mettere la testa all’aperto e a girar lo sguardo per la campagna sfolgorante, dopo tante ore di sepoltura, si ha l’impressione d’esser capovolti e di cader nel vuoto, e viene istintivo l’atto d’afferrarsi con la mano all’orlo».

• «14 luglio. Dietro l’argine. (…) Sulla collina aperta soffia la bora. L’aria è serena e fresca. Sono di guardia. Queste ore di guardia, nella serenità della notte, mi dànno sempre un gran senso di calma interna. Mi par che dentro mi si sciolgano i groppi. Sono i momenti in cui la memoria non ha che da scegliere nella mia vita passata. Stanotte, guardando il cielo fitto di stelle, ricordo le molte serate d’agosto, sdraiati sul prato di Punta Sottile: ogni tanto qualcuno di noi segnalava una stella cadente, io allungavo il braccio nell’erba e carezzavo con la mano il viso di Tonina, una giovane contadina di quindici anni, e quando le sfioravo la bocca ella mi mordeva leggerissimamente le dita».

• «19 luglio. Rocca. Lanfranco nel riprendersi il telo da tenda, che copriva la nostra capanna, ha scambiato il suo telo stracciato e bucato col mio, intero; giura ch’è suo; io conosco troppo bene il mio telo da tenda per avere il più piccolo dubbio; sono abituato ormai a codeste frodi e ho imparato anche a difendermi; ma oggi non ho voglia di contrasti. Sono piccole miserie, alle quali purtroppo non so sempre sottrarmi, ma quando posso sollevarmi sopra di esse, mi par di sentirmi più leggero. Domani, mi bagnerò sotto il telo da tenda di Lanfranco, importa poco: mi son bagnato tante volte anche quando avevo il mio; e poi chi sa se domani sarò vivo».

• «20 luglio. Dietro il ponte della ferrovia. (…) Ad aumentare la mia malinconia è venuto a trovarci il sergente, partito con noi da Roma. Dopo Pieris non l’avevamo più rivisto. Nel frattempo trovò il modo di passare una ventina di giorni all’ospedale di Cervignano, per non so che malattia agli intestini. Ci ha riempito la testa di chiacchiere e di malignità; Carlo gli ha voltato le spalle ed io a un dato punto gli ho dovuto dire che la smettesse; se ne è offeso. Una delle poche cose che non posso sopportare e che mi fanno perdere la calma, sono le lamentazioni, maldicenti e corrosive, di certuni che in mezzo a quest’immane tragedia non vedono e non considerano che il proprio comodo. Penso, per contrasto, a quel povero Novelli che, smagrito e cupo, bestemmia e minaccia ogni tanto d’ammazzare qualcheduno, perché ancora non ha avuto la licenza promessa, ma che neppure un giorno s’è dato malato e si farebbe ammazzare per il primo, avanti a tutti, nell’assalto».

• «21 luglio. Cave di Selz. (…) Avanziamo e, dopo breve cammino, sprofondiamo sino alla cintola in un fosso; è la trincea. La trincea è ancora calda dei corpi che l’hanno abbandonata da poco, per scendere all’assalto; è come un letto, dove altre creature umane, fatte come noi, con lo stesso tremito nella carne, hanno riposato, e che ora, anche se forse per brevi istanti, ci accoglie e ci protegge. Non ho provato mai un sentimento cosiffatto di tenerezza, come da vivo a vivo, per questa povera, nuda terra, sassosa e piena di ferite, che ci dà riposo e protezione».

• «22 luglio. Cave di Selz. (…) Odo provenire dal mucchio dei sacchetti dove sto appoggiato [in trincea – ndr] uno strano fruscio. (…) Non capisco. Mi alzo in piedi: strano, ma donde proviene questo sospiro soffocato? Scosto un sacchetto e m’appaiono le lame di due baionette; allargo l’apertura cautamente: dei capelli, due teste accostate. Dei morti qua dentro? Le teste si girano, mi si volgono in su due facce che mi rimescolano il sangue. Sto per afferrare quelle due teste per i ciuffi, scrollarle, tirarle fuori da quel nascondiglio vergognoso. Vigliacchi! I loro occhi mi fissano con uno spavento abissale, caotico, le loro labbra balbettano senza parole. L’espressione di vigliaccheria che disumanizza le loro facce mi fa schifo. Oh, la paura è umana, la conosco: quel ritornar bambini, quel bisogno di rifugio e di protezione, quel grido interno di “aiuto, mamma mia”; ma codesta non è paura: è dissolvimento. Come hanno potuto questi due soldati isolarsi, credere di farsi per sempre un rifugio di vita, in mezzo alla morte, nascondendosi e seppellendosi sotto un mucchio di sacchetti di terra? Ho un sospetto: che siano da poco quassù, venuti forse con gli ultimi complementi: il panno delle loro divise è ancora lucido e nuovo; forse sono stati storditi dal terribile fuoco di ieri. Un sentimento di pietà mi si mescola al primo senso di schifo. Li lascio stare; ma prima di riaccovacciarmi, a bassa voce, in tono di minaccia, dico loro: – Meritereste d’esser denunciati al capitano; ma ricordatevi, appena ci muoveremo noi, voi ci seguirete –. Accennano di sì col capo e mi pare di veder distendersi i loro volti in un’espressione di sollievo».

• «3 agosto. Trincee del Lisert. (…) Qualcuno s’avvicina alle mie spalle per darmi il cambio [come sentinella notturna in trincea – ndr]. II ritorno è come riprender un sentiero dopo aver camminato sulla cresta d’una parete rocciosa. Mi sdraio dietro le mie botti di sardine, ma non dormo. Rilassata la tensione, sentimenti e pensieri, tenuti prima discosti con la volontà, s’impadroniscono di me. Ora capisco il pericolo di cui avevo avvertito la presenza. Rivivo in un modo tutto diverso la mia situazione d’un momento fa: mi ritrovo con l’immaginazione tra i due paletti estremi del reticolato; ma ora le mie sensazioni non sono precise, ora tremo dentro di me al pensiero che un’ombra mi si rizzi davanti, un uomo, nel cui caldo petto io dovrei infiggere la mia dura baionetta: no, per non uccidere e per non essere ucciso, io fuggirò, gettando l’allarme con un grido disperato, verso la mia trincea, mi mescolerò con gli altri, sarò una parte d’un tutto che vibra e agisce sotto un impulso comune; ma solo no, solo è terribile. Devo dominarmi per non tremare fisicamente. Una grande pietà mi prende di questa povera carne, di me stesso, così piccolo e debole. Tanto decisi, tanto pronti a morire e ad uccidere: e, in fondo, come le foglie sbattute dall’uragano. M’addormento, bisognoso d’una consolazione che non posso domandare agli uomini e non so implorare da Dio».

• «6 agosto. Trincee del Lisert. Ancora qua. Il posto ci è diventato odioso. (…) Ma forse la realtà è che i nostri nervi sono sfiniti e noi non siamo più capaci di sopportare con pazienza questa vita; neanche la nostra mente non è più serena come un tempo. Oggi sono due mesi che da Pieris, noi volontari, raggiunto il reggimento, iniziammo l’avanzata; e soltanto dal ricordo di quello ch’eravamo allora, dalla fresca e ardita volontà di quelle giornate, attingiamo la forza per resistere. Sessanta giorni di logorio, senza soste! Io guardo nelle facce dei compagni superstiti e mi vedo riflesso in loro: è doloroso accorgersi che l’anima non brilla più negli occhi di nessuno».

• «7 agosto. Trincee del Lisert. (…) Il capitano vuole i due fratelli triestini. Egli tiene un foglio nelle mani; (…) ci dice d’aver una lieta notizia da comunicarci: sono arrivati al reggimento due telegrammi del Ministero della Guerra con la nostra nomina a ufficiali della territoriale; io devo presentarmi subito al distretto di Vicenza, Carlo a quello di Verona; stasera, al Comando di reggimento, troveremo i nostri due fogli di viaggio. Ci stende la mano: – Mi dispiace di perderli. Si ricordino di me –. Né Carlo né io siamo capaci di pronunciare una parola. Carlo ha il viso congestionato, come nei momenti di grande emozione. (…) Carlo mi dice che avrebbe preferito fossimo andati a riposo tutta la brigata; egli ha provato, evidentemente, dei sentimenti simili ai miei. E se restassimo? Se rinunciassimo alla nomina? Ci è bastato esprimere questa possibilità, che ci turbava profondamente, come un rimorso, finché restava dentro di noi inespressa, per capire che non abbiamo più l’energia per effettuarla. Un respiro ci è necessario, per l’anima forse più ancora che per il corpo. Intuiamo che, se rimanessimo ancora qua, i giorni ci diverrebbero un angoscioso, insopportabile peso, dopo la rinuncia. Immalinconiti dalla coscienza d’esser delle deboli creature umane, ma più tranquilli, risolviamo di accettare la nomina: dopo un breve riposo che ci ristori, faremo domanda di ritornare, come ufficiali, in questa stessa brigata che ci ha accolto semplici gregari».

• «8 agosto. Villa Vicentina. Udine. Il cortile dove ci laviamo è pieno d’artiglieri; delle donne scalze escono dalla stalla con dei lunghi rastrelli di legno bianco; in un angolo, un gruppo di bambini intorno ad alcuni cavalli e ai soldati che li strigliano. Due artiglieri dalle facce gioviali si sono avvicinati a noi e ci domandano notizie del fronte; tutti gli altri a poco a poco si sono appressati, ascoltano e c’interrogano. Io guardo di tanto in tanto, istintivamente, nell’aria e tendo gli orecchi: mi par strano di poter stare così tranquillamente a conversare in crocchio all’aperto. Parlando con questa gente calma, m’accorgo che noi non soltanto avevamo perso ogni contatto con la vita, ma che persino lo scopo per cui eravamo in trincea s’era col tempo dileguato dalle nostre menti. Ho un curioso senso, come di ritrovar l’Italia in questo cortile: nei ragazzi che chiassano, nelle donne che vanno e vengono, sulle facce di questi artiglieri che non sono stati ancora al fronte».

• «Giani, scampato alla bolgia dei primi mesi sul Carso e promosso ufficiale della Milizia Territoriale, aveva fatto domanda di tornare al fronte; inviato col fratello sull’altopiano di Asiago, era stato fatto prigioniero durante una sortita contro le mitragliatrici nemiche; aveva vissuto la detenzione nei campi di prigionia austro-ungarici come una lunga parentesi di dolore, dominata, ancor più che dalla paura di essere riconosciuto e quindi impiccato come disertore, dal lutto per la morte di Carlo, che si era sparato un colpo di pistola proprio per non cadere nelle mani dei nemici che l’avevano circondato» (dalla postfazione di Giuseppe Sandrini).

• «È significativo che quando, dopo la buona accoglienza ricevuta dai Racconti, decide di confrontarsi con la vita di trincea, si limiti alla Guerra del ’15, cioè alla sua esperienza di “semplice gregario”, anziché arrivare fino alla difesa del Cengio, con tanto di decorazione al valore. È una scelta insieme morale e letteraria, da cui dipendono il carattere e la riuscita del libro. Ritagliando uno spazio temporale ristretto (dal 2 giugno all’8 agosto 1915), Giani compone a suo modo una piccola Iliade, in cui però l’unico eroismo è quello silenzioso dei soldati che accettano il destino comune. La stessa presenza dell’io narrante è discreta, e viene in primo piano soltanto quando si apre la dimensione della memoria familiare» (dalla postfazione di Giuseppe Sandrini).

• «La posizione di Stuparich risente di una doppia diversità: quella del letterato, che con fatica si integra nella mentalità media dell’esercito, e quella del triestino, lo “straniero” che ha scelto la guerra e viene guardato dai commilitoni con un certo sospetto. Questo però non incrina la sua esigenza di partecipazione, che nel diario diventa capacità di calarsi nel sentimento di tutti» (dalla postfazione di Giuseppe Sandrini).

• «La guerra, la tragedia che ha lasciato per sempre Stuparich nella solitudine, è anche un richiamo oscuro, un contatto tra la giovinezza e la morte, una prova iniziatica. (…) Lo vediamo bene nella pagina del 30 giugno, a Monfalcone. Giani prova un desiderio “inquietante” di salire nella soffitta della casa, dalla quale si vede la “quota 121”, il centro di quel teatro di battaglia, e scrive: “Aguzzo gli occhi; mi par di scorgere delle piccole macchie grigioverdi sotto un gruppo di pietre bruciacchiate; sono i nostri? Nessun movimento. Cerco la linea, un segno delle trincee nemiche; non vedo nulla. Vampe, coni di fumo nero, nuvolette bianche: ecco la battaglia; e così, misteriosamente, rimanendo invisibili, soffrono e muoiono gli uomini”. La guerra di trincea è uno spettacolo che sfugge all’osservatore, e che si vive soltanto nell’attimo decisivo della propria sorte; è un’attesa snervante, che non si può reggere per più di poche settimane. Stuparich lo ha capito e ha scelto di narrare i suoi due mesi sul Carso, di farne la metafora dell’esperienza di tutta una generazione» (dalla postfazione di Giuseppe Sandrini).