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 2015  maggio 04 Lunedì calendario

«IL MIGLIORE DEI MONDI È QUELLO DI OGGI»

[Intervista a Domenico De Masi]
Niente a che vedere con Candido o Leibniz. Eppure il sociologo Domenico De Masi non ha paura di definire quello in cui viviamo «il migliore dei mondi esistiti finora». Lo fa nel suo ultimo libro, Tag-Le parole del tempo (Rizzoli), un volumone di oltre 700 pagine in cui parla - appunto - della nostra realtà.
Ma è sicuro che viviamo nel migliore dei mondi?
«E qual è il migliore se no? Non intendo il migliore dei mondi possibile, anche io lo vorrei più giusto, più felice, più solidale; ma è il migliore di quelli esistiti fino a oggi: mai la vita media è stata così lunga, mai abbiamo avuto tante opportunità di vincere il dolore e di interagire, mai c’è stata tanta intelligenza sul pianeta».
Addirittura.
«Senta, anche se fossi nato all’epoca dei Medici o di Augusto, nessuno mi garantisce che sarei stato l’Imperatore. E comunque un mal di denti sarebbe stato una tragedia, un’appendicite mi avrebbe spedito all’altro mondo tra sofferenze indicibili. Oggi siamo sette miliardi, non solo bocche da sfamare ma anche cervelli pensanti, molti scolarizzati e moltissimi interconnessi».
E chi dice che in passato si stava meglio?
«Sono dei cretini. Ma quale passato? Ancora nel 1919 un’epidemia di spagnola uccise sette milioni di persone in Europa. Amo la storia greca e l’epoca illuminista, sono curioso di come si viveva in altre società, ma non ho dubbi: ci è andata bene».
Però tutti si lamentano...
«Sì, tutto il mondo si lamenta, è scontento, anche in quei Paesi dove il Pil cresce. Perfino in Brasile, dove vado molto spesso, ormai sono depressi. Ma la scontentezza deriva dal fatto che siamo disorientati».
Non capiamo più il nostro mondo?
«Ci mancano i paletti per capire che cosa sia bene e male, giusto e ingiusto, destra e sinistra, perfino maschio e femmina o vivo e morto... Ci manca un modello di vita, e questo ci rende depressi».
E di chi è la colpa?
«Se la prendono coi politici, ma la colpa è degli intellettuali che non hanno creato modelli. La società post industriale è la prima che sia nata senza un modello precedente, come era successo invece, per esempio, per il Sacro romano impero, o la società moderna, o l’Unione sovietica».
Che cosa avrebbero dovuto fare gli intellettuali?
«A partire dall’inizio del Novecento sono stati molto bravi a distruggere lo status quo; poi hanno tentato delle innovazioni, ma non ci sono riusciti. Non c’è riuscito Freud con la psicologia, Picasso con la pittura, Stravinskij con la musica, Joyce con la letteratura. Noi siamo venuti dopo, e non abbiamo fatto molto».
Nessuno ci ha provato?
«Sono stati architetti e tecnologi a fare gli sforzi maggiori, ma filosofi, sociologi ed economisti non si sono impegnati molto per creare un nuovo paradigma».
E lei ci sta provando?
«Col mio libro, Tag, volevo dare un minimo contributo per la creazione di un modello: sono ventisei parole-argomento, tante quante l’alfabeto, per esplorare la nostra società e capire le basi di questo disorientamento. È un tentativo, ma finché non ci poniamo il problema non si comincia mai».
Parla anche di felicità: un altro tabù?
«Certo è un concetto astratto, un orizzonte. Non la si raggiunge mai, è una sfida perenne, però oggi è un obiettivo molto più possibile che nel Medioevo o nel Settecento».
Parla anche di «ozio creativo», che detto da un sociologo del lavoro...
«Eh. Quando si dice “lavoro”, il pensiero va all’operaio metalmeccanico, mia madre che era di Benevento pensava a un contadino nei campi. Ora, in questi casi è impossibile fare altro che il lavoro, alla catena di montaggio. Però oggi la composizione del lavoro è completamente diversa dal passato: in Italia solo il 33 per cento sono operai; un altro terzo sono impiegati e l’ultimo terzo sono i lavoratori “creativi”, che sono destinati a diventare il cinquanta per cento nei prossimi anni».
Che cosa cambia?
«Cambia tutta la sostanza del loro lavoro, perché il lavoratore creativo fa tre cose contemporaneamente: lavoro, studio e piacere, quello che chiamo il “gioco”, perché ricava soddisfazione da quello che fa».
È questo l’ozio creativo?
«Sì, è quello che chiamiamo lavoro, ma lavoro non è: attori, giornalisti, professori, scienziati, liberi professionisti, artisti».
È un bene che sia sempre più diffuso?
«Senz’altro. Per fortuna impariamo a delegare tanti lavori “brutti” alle macchine».
Ma non è un discorso elitario?
«No, lo era a metà Ottocento. Ma ormai riguarda il 33 per cento della popolazione: è di massa. E poi spesso un artista se la cava peggio di un idraulico dal punto di vista economico».
Però alla fine anche i creativi sono nevrotici...
«Certo, ma vedesse le nevrosi del minatore... Sono di tipo diverso però: quella del minatore è alienazione per sottrazione di intelligenza e di imprevisto; quella del poeta e dello scienziato è per eccesso di imprevedibilità e di novità. E di per sé questa è di gran lunga preferibile alla prima, perché è “umana”».
Ma come è diventato sociologo del lavoro? Non studiava giurisprudenza?
«Sì, e non mi piaceva affatto. Però avevo una borsa di studio all’università di Perugia come orfano di medico e all’epoca c’erano solo medicina, veterinaria e giurisprudenza. Poi all’ultimo anno scoprii un prof che teneva una lezione interessante».
Che cos’era?
«Antropologia giuridica. Lo ascoltai e finalmente parlava di cose vive: i giovani, la moda, i movimenti. E gli chiesi: dove si insegnano queste cose? E lui: a sociologia. E io: e dov’è la facoltà più vicina? Risposta: a Parigi».
Andò a Parigi?
«Feci delle lezioni private e misi da parte 75mila lire, che nel ’59 erano l’equivalente di mille euro. E poi partii con la Vespa per Parigi, per un corso estivo all’École pratique. C’erano Barthes, Sartre, Alain Touraine che insegnava sociologia del lavoro».
E dopo l’estate?
«Mi laureai in giurisprudenza, poi feci il dottorato in sociologia del lavoro a Parigi. E quando tornai fu facile fare la carriera universitaria, perché all’epoca i posti di sociologia disponibili erano più dei sociologi».
Ha un’altra passione, l’architettura.
«Uno dei miei prof a Parigi fu Chombart de Lauwe, che ha scritto Des hommes et des villes. Era il sociologo di Le Corbusier: l’architetto lo spediva a fare le ricerche prima di un progetto. Univa l’estetica e la sociologia».
Anche lei ci ha provato?
«In Italia ho avuto la fortuna di lavorare alla costruzione del villaggio Matteotti a Terni, progettato da Gianluca De Carlo. Lavorammo insieme, io facevo le interviste con gli operai e le famiglie e lui disegnava. Poi sono diventato direttore del Festival di Ravello, dove andavo sempre in vacanza in estate».
E che è successo a Ravello?
«Beh, a Ravello mancava un Auditorium per l’inverno. Così una volta che ero a Rio, col mio amico fraterno Oscar Niemeyer, l’architetto che ha costruito Brasilia e il palazzo Mondadori, mi feci regalare un progetto».
E lo fece costruire?
«Sì, dopo avere ottenuto i finanziamenti dall’Unione europea e dopo dieci anni di battaglie con le associazioni sono riuscito a realizzare quest’opera, che consente a Ravello di fare attività artistiche e turismo anche in inverno».
Ma che cosa la attira tanto dell’architettura?
«Per me è un’arte profetica, che condiziona la vita dei secoli futuri. E perciò ha una forte carica sociologica».
Da sociologo, come vede la paura?
«È direttamente commisurata al benessere: più si sta bene, più si ha paura. Per esempio i milanesi hanno molte più paure dei napoletani. E poi, più siamo colti, più conosciamo la complessità del mondo, più abbiamo paura».
Se ne può uscire?
«Sì, perché ogni paura ha il suo antidoto. E comunque l’unica cosa di cui dobbiamo avere davvero paura è l’imbecillità umana».
Ma lei è ottimista?
«Non lo so, però quando penso ai pessimisti penso a dei cretini. I pessimisti dicono balle, per esempio fanno sempre paragoni con altri Paesi: ma la realtà è che inventano, sono disinformati. E ovviamente gli italiani in questo sono dei campioni».
Il pessimismo allora si può sconfiggere?
«Sì, con la sociologia, con i dati».