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 2015  aprile 30 Giovedì calendario

NAZIONALE - 01

maggio 2015
CERCA
4/5 di 64
ECONOMIA
Risalgono i disoccupati tasso al 13%, tra i giovani 43% calano autonomi e irregolari
Apparente contraddizione tra i dati di ieri e quelli sui contratti in aumento: bene i dipendenti, male gli altri. Istat ottimista sul Pil. Primo ok alla riforma PA
ELENA POLIDORI
ROMA .
Doccia fredda dell’Istat alla vigilia della Festa del lavoro: a marzo, col jobs act all’avvio, il tasso di disoccupazione risale al 13%, il livello più alto da novembre, il dato peggiore della Ue dopo Grecia, Spagna, Ungheria, Cipro e Portogallo, ben oltre la media europea (11,3). Non solo: continua a scendere per il secondo mese consecutivo il numero degli occupati (—59 mila unità) e schizza al 43,1% il tasso disoccupazione giovanile, la quarta percentuale più alta nella Ue dopo Grecia, Spagna e Croazia. Il tutto mentre da più osservatori — lo stesso Istat, ma anche la Bce, la Banca d’Italia e la Confidustria — si continuano a vedere segni incoraggianti di ripresa dell’economia. Allarme del ministro Padoan: «Questa finestra di opportunità non durerà in eterno. Va sfruttata. Ci sono già segnali che si va chiudendo ». E ancora: per la prima volta da quando c’è il quantitative easing della Bce, si registra uno stop alla deflazione con l’inflazione che ad aprile risale a quota zero (—0,1% a marzo). E, non ultimo, il Senato dice sì alla riforma della pubblica amministrazione che ora passa alla Camera e decide la decadenza automatica dei manager della sanità in caso di malagestione. Twitter del ministro Madia: «E’ un altro passo verso un’Italia più semplice».
I disoccupati aumentano, gli occupati scendono: divampa la polemica, inevitabilmente. Le opposizioni tuonano contro il governo, parlano di falsa partenza del jobs act. La Cgil con Camusso ricorda che i senza lavoro sono «la vera emergenza»; la Cisl con Furlan avverte che «purtroppo la crisi non è finita»; la Uil con Barbagallo reclama «un cambio di rotta». Cauto, il ministro Poletti invita a leggere i dati in un quadro complessivo, dove «segnali positivi s’incrociano con elementi di criticità». C’è anche un’apparente contraddizione nel confronto tra questi numeri e i 92 mila contratti in più segnalati pochi giorni fa dal ministero del Lavoro: secondo il presidente dell’Inps, Tito Boeri, il calo degli occupati si spiega con una diminuzione degli irregolari e degli autonomi. Secondo altre letture c’entra anche il fatto che i dati Istat sono campionari, quelli del ministero si basano sulle comunicazioni delle imprese. Sia come sia, la stessa Bce riconosce che la disoccupazione «resta elevata» nonostante la ripresa sia destinata a continuare e a rafforzarsi. La Banca d’Italia esprime «fiducia» su una crescita positiva del Pil; Confindustria pronostica uno 0,5% in più della produzione industriale a marzo su febbraio, che diventa più 1% nel confronto con lo stesso mese dell’anno precedente.
Difficoltà e incertezze sul domani spuntano in tutte le analisi macro. Problemi emergono anche nel confronto internazionale: a marzo in Germania la disoccupazione s’è attestata al 4,7%, in Gran Bretagna al 5,5%, in Austria al 5,6; i tassi più elevati sono in Grecia (25,7% a gennaio 2015) e Spagna (23%). Ma la mina più pericolosa è costituita dalla disoccupazione giovanile: i giovani a spasso sono quasi uno su due. Troppi, avverte Papa Francesco: «La cultura dello scarto ci scarta tutti».
© RIPRODUZIONE RISERVATA

maggio 2015
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ECONOMIA
Risalgono i disoccupati tasso al 13%, tra i giovani 43% calano autonomi e irregolari
Apparente contraddizione tra i dati di ieri e quelli sui contratti in aumento: bene i dipendenti, male gli altri. Istat ottimista sul Pil. Primo ok alla riforma PA
ELENA POLIDORI
ROMA .
Doccia fredda dell’Istat alla vigilia della Festa del lavoro: a marzo, col jobs act all’avvio, il tasso di disoccupazione risale al 13%, il livello più alto da novembre, il dato peggiore della Ue dopo Grecia, Spagna, Ungheria, Cipro e Portogallo, ben oltre la media europea (11,3). Non solo: continua a scendere per il secondo mese consecutivo il numero degli occupati (—59 mila unità) e schizza al 43,1% il tasso disoccupazione giovanile, la quarta percentuale più alta nella Ue dopo Grecia, Spagna e Croazia. Il tutto mentre da più osservatori — lo stesso Istat, ma anche la Bce, la Banca d’Italia e la Confidustria — si continuano a vedere segni incoraggianti di ripresa dell’economia. Allarme del ministro Padoan: «Questa finestra di opportunità non durerà in eterno. Va sfruttata. Ci sono già segnali che si va chiudendo ». E ancora: per la prima volta da quando c’è il quantitative easing della Bce, si registra uno stop alla deflazione con l’inflazione che ad aprile risale a quota zero (—0,1% a marzo). E, non ultimo, il Senato dice sì alla riforma della pubblica amministrazione che ora passa alla Camera e decide la decadenza automatica dei manager della sanità in caso di malagestione. Twitter del ministro Madia: «E’ un altro passo verso un’Italia più semplice».
I disoccupati aumentano, gli occupati scendono: divampa la polemica, inevitabilmente. Le opposizioni tuonano contro il governo, parlano di falsa partenza del jobs act. La Cgil con Camusso ricorda che i senza lavoro sono «la vera emergenza»; la Cisl con Furlan avverte che «purtroppo la crisi non è finita»; la Uil con Barbagallo reclama «un cambio di rotta». Cauto, il ministro Poletti invita a leggere i dati in un quadro complessivo, dove «segnali positivi s’incrociano con elementi di criticità». C’è anche un’apparente contraddizione nel confronto tra questi numeri e i 92 mila contratti in più segnalati pochi giorni fa dal ministero del Lavoro: secondo il presidente dell’Inps, Tito Boeri, il calo degli occupati si spiega con una diminuzione degli irregolari e degli autonomi. Secondo altre letture c’entra anche il fatto che i dati Istat sono campionari, quelli del ministero si basano sulle comunicazioni delle imprese. Sia come sia, la stessa Bce riconosce che la disoccupazione «resta elevata» nonostante la ripresa sia destinata a continuare e a rafforzarsi. La Banca d’Italia esprime «fiducia» su una crescita positiva del Pil; Confindustria pronostica uno 0,5% in più della produzione industriale a marzo su febbraio, che diventa più 1% nel confronto con lo stesso mese dell’anno precedente.
Difficoltà e incertezze sul domani spuntano in tutte le analisi macro. Problemi emergono anche nel confronto internazionale: a marzo in Germania la disoccupazione s’è attestata al 4,7%, in Gran Bretagna al 5,5%, in Austria al 5,6; i tassi più elevati sono in Grecia (25,7% a gennaio 2015) e Spagna (23%). Ma la mina più pericolosa è costituita dalla disoccupazione giovanile: i giovani a spasso sono quasi uno su due. Troppi, avverte Papa Francesco: «La cultura dello scarto ci scarta tutti».
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ILVO DIAMANTI

maggio 2015
CERCA
20/21 di 64
LA QUESTIONE LAVORO
L’analisi
La ricorrenza del Primo Maggio segnata dall’inquietudine per il diritto all’occupazione negato. E dalla diffidenza verso i sindacati Il primo scudo anti-crisi resta la famiglia
Con l’emergenza lavoro 6 su 10 ora sono precari I disoccupati bocciano la ricetta del Jobs Act
Per metà del campione la riforma chiave di Renzi non avrà effetti. Cresce la quota dei senza-impiego
ILVO DIAMANTI
OGGI , Primo Maggio, è la Festa del Lavoro e dei lavoratori. Un rito di passaggio, con un mese d’anticipo, verso la Festa della “nostra” Repubblica. Fondata sul lavoro — come recita l’articolo 1 della Costituzione. Per questo è difficile vivere questo giorno di festa senza inquietudine. Secondo le stime dell’Istat, infatti, in Italia il tasso di disoccupazione è risalito oltre il 13%. In valori assoluti: 3 milioni e 300mila persone senza lavoro. Ma fra i giovani, la disoccupazione è del 43%. Coinvolge, cioè, quasi un giovane su due. Se il lavoro rende liberi, dunque, in Italia il senso di libertà (dal bisogno, ma non solo) appare molto relativo. Nonostante le riforme approvate dal Governo. Infatti, secondo il sondaggio realizzato nei giorni scorsi dall’Osservatorio Demos-Coop, sia il Jobs Act, sia la revisione dell’art. 18 sono guardati con diffidenza dai cittadini. Non tanto perché vengano ritenuti negativi, ma perché, semplicemente, sono considerati inutili e improduttivi. Metà della popolazione pensa, cioè, che questi provvedimenti non produrranno “nessun effetto”. E che, di conseguenza, non cambierà praticamente nulla. I più convinti, al proposito, appaiono proprio i “senza lavoro”. I disoccupati. Quelli che più degli altri sono interessati da iniziative che favoriscano la crescita e il dinamismo del mercato del lavoro.
Peraltro, gli italiani non sembrano avere ancora percepito la ripresa, annunciata da tempo. Comunque, non sembrano crederci davvero. Con qualche ragionevole ragione, se — come emerge dal sondaggio — in metà delle famiglie c’è qualcuno che, nell’ultimo anno, ha perso il lavoro oppure l’ha cercato inutilmente o, ancora, è stato messo in cassa integrazione. Poco più di quanto avevamo rilevato nell’indagine di due anni fa. Ma, appunto, poco-più, non poco- meno. Nello stesso periodo, inoltre, è cresciuta di 4 punti la quota di persone (intervistate da Demos-Coop) che affermano di non aver mai lavorato, nell’ultimo anno. Ora sono il 47%. Quasi metà del campione. Anche se occorre tener conto che nella popolazione intervistata sono compresi i pensionati e gli anziani, non considerati dalle statistiche ufficiali. Ma il distacco dal lavoro — come attività e come pratica “regolare” — risulta, comunque, largo. E crescente.
Così, non sorprende che quasi 6 italiani su 10 non mostrino alcuna fiducia nel futuro. E che questo atteggiamento divenga particolarmente esteso — e quasi “doloroso” — tra coloro che hanno familiari “senza lavoro”.
Il lavoro degli italiani, comunque, appare a tutti, anche agli occupati, “spezzato”. Una condizione tradotta e narrata con termini diversi. Il 18% degli intervistati definisce il proprio lavoro: “flessibile”. Il 12%: “temporaneo”. Il 27%: “precario”. Di conseguenza, solo il 41% si sente (al) “sicuro”. E, tra i più giovani (15-34 anni), questa componente è ancor più ristretta. Si riduce a meno di un terzo (32%). Non si tratta di una grande scoperta, mi rendo conto. Da tempo sappiamo bene di vivere in una società “insicura”. Dove il primo elemento di in-sicurezza è il “fondamento della nostra Repubblica”. Il lavoro. Lo sappiamo bene e lo sanno bene, soprattutto, i più giovani. Eppure non ne sembrano particolarmente contenti. Semmai: rassegnati. Come la maggioranza degli italiani.
Non per caso, si assiste a una rivalutazione delle professioni “stabili”, alle dipendenze di grandi imprese oppure nell’impiego pubblico. Insieme, oggi raccolgono la preferenza di metà degli italiani (con un incremento di 10 punti, rispetto al 2009). Mentre, nello stesso arco di tempo, hanno perduto appeal il lavoro autonomo e le professioni libere. A differenza di pochi anni fa, dunque, l’Italia, dunque, non sembra più un Paese dove tutti, per sé e i propri figli, ambiscono a un futuro da imprenditori, artigiani o da liberi professionisti. Cercano, piuttosto, un lavoro, toutcourt. Un lavoro che duri.
Parallelamente, sono cambiati, in modo profondo, i requisiti del lavoro “desiderato”. Poco più di dieci anni fa, prima della crisi, la maggioranza degli italiani cercava nel lavoro la “soddisfazione” e un buon clima di relazioni. Considerava, cioè, il lavoro come fonte di auto-realizzazione e di affermazione. Oggi, invece, contano soprattutto la “sicurezza”, la “continuità”. E poi il reddito, lo stipendio. Il lavoro è, anzitutto, necessità e stabilità.
D’altronde, l’ho già detto e non certo per primo, viviamo nell’età dell’incertezza. E nei tempi incerti, di fronte alle difficoltà economiche e del lavoro, di fronte ai problemi e all’inquietudine che annebbiano il futuro, le persone limitano e accorciano il loro orizzonte. Non solo nel tempo. Anche nel contesto — sociale e territoriale. Così, oggi gli italiani cercano ancore e appigli intorno a sé. E per sopportare i rischi del “lavoro spezzato”, per tutelare i lavoratori, non si affidano né allo Stato né agli enti locali. Neppure ai partiti — di destra, centro, sinistra: non fa differenza. Qualcuno, semmai, guarda ai sindacati. Ma sono pochi: meno di 2 su 10. Il primo guscio, il primo rifugio, per oltre un terzo degli italiani, resta — non occorre neppure dirlo — la famiglia.
Per questo oggi, Primo Maggio, si celebra il valore del Lavoro e dei Lavoratori. Ma, nel nostro Paese, anche della Famiglia. Per un legame stretto e, quasi, meccanico. Perché l’Italia è una Repubblica fondata sul Lavoro. E sulla Famiglia.
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LA NOTA METODOLOGICA
L’Osservatorio sul Capitale Sociale è realizzato da Demos&Pi in collaborazione con Coop. Sondaggio condotto da Demetra dal 20 al 24 aprile.
Campione (N=1312, rifiuti/sostituzioni: 11.183) rappresentativo della popolazione.
Documento completo su www.agcom.it

REPUBBLICA

maggio 2015
CERCA
20/21 di 64
LA QUESTIONE LAVORO
Priorità al posto sicuro così la crisi oscura la ricerca di soddisfazioni
LUIGI CECCARINI
COME cambia l’immagine del lavoro preferito nelle opinioni degli italiani, segnati ormai da una lunga crisi economica esplosa nel 2008? L’Osservatorio Demos-Coop, svolto in occasione della festa del 1° Maggio, offre alcuni indizi su questo punto. Il rischio, ma anche l’esperienza diffusa, di perdere il lavoro mantiene alto il valore di un’occupazione sicura. Oggi 4 cittadini su 10 indicano quest’aspetto come la caratteristica principale del lavoro preferito. Ma erano meno di 3 su 10 prima della crisi. Appaiono, invece, in calo progressivo quanti cercano nel lavoro soddisfazioni (dal 44 al 29%). In altri termini: nel 2004 la realizzazione era un tratto anteposto alla sicurezza. Oggi, gli orientamenti si sono invertiti: la sicurezza è considerata l’elemento fondamentale del lavoro.
La geografia di questi atteggiamenti disegna un paese diviso, non solo sulle opportunità concrete, ma anche sulle rappresentazioni sociali. Così un «buon stipendio» viene indicato con più frequenza dagli abitanti delle regioni meridionali (dove sono più diffuse situazioni di povertà). Il carattere del lavoro «sicuro» accomuna invece i cittadini del Centro e del Sud. Gli aspetti «espressivi» e «relazionali», infine, vengono maggiormente valorizzati nel Nord. Dove, nonostante le difficoltà, la situazione era e rimane sicuramente meno difficile e la crisi ha prodotto effetti meno pesanti. Inoltre, gli uomini si distinguono per apprezzare maggiormente la retribuzione economica. Mentre le donne mirano ad un lavoro sicuro. Ma è interessante considerare gli orientamenti dei giovani. Distinguendo gli studenti dai giovani lavoratori emergono opinioni diverse. L’esperienza lavorativa si accompagna alla valorizzazione di aspetti legati alla sicurezza, sul piano della retribuzione economica (24% vs 15%) o della stabilità del posto stesso (41% vs 32%). Gli studenti invece danno ancora maggiore importanza ai tratti espressivi. Pensano, cioè, ad un lavoro che dia loro soddisfazioni (44% vs 28%). Il Jobs act, al momento, non pare convincerli. La metà degli studenti (48% vs 32% dei giovani lavoratori) ritiene che non cambierà le opportunità di lavoro. Il 29% dei giovani lavoratori (vs 19% degli studenti) pensa invece che produrrà effetti negativi. Il lavoro, dunque, è sempre al centro dei sogni e delle preoccupazioni degli italiani. Ma suscita sentimenti, e risentimenti, diversi dal passato recente.
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LA STAMPA
Disoccupazione, crescita continua
Gli esperti dell’Istat spiegano che l’effetto Jobs Act non si è ancora fatto sentire I giovani senza lavoro saliti a quota 43,1%. In Europa si allontana il rischio deflazione

Paolo Russo

Starà anche spirando con più forza il vento della ripresa, come sostiene la Bce, ma intanto in Italia si rafforzano le schiere dell’esercito dei disoccupati. I numeri del bollettino Istat diffuso ieri dicono che l’effetto Jobs Act non si è fatto ancora sentire. Nonostante la stabilizzazione di un buon numero di contratti da precari a stabili il numero dei senza lavoro è infatti salito a marzo di un nuovo 0,2%, arrivando così a quota 13%, il picco più alto da novembre scorso. E, come al solito, a fare più impressione è il dato della disoccupazione giovanile, che con un più 1,2% tocca la quota monstre del 43,1%. Il risultato peggiore degli ultimi otto mesi, che si traduce in altri 8mila giovani disoccupati. E si parla di chi un posto lo cerca realmente, perché i dati dell’Istituto escludono i giovani inattivi, ossia coloro che studiano o che non sono alla ricerca di un lavoro. Ancora in calo anche il numero complessivo degli occupati: 59mila in meno rispetto a febbraio. Così alla fine dopo il primo trimestre dell’anno sono diventati tre milioni e 300 mila gli italiani alla ricerca di un lavoro, l’1,5% in più rispetto a due mesi fa.
«I dati Istat sulla disoccupazione confermano ancora una volta che cancellare i diritti non crea lavoro», non perde l’occasione di sottolineare la leader della Cgil, Susanna Camusso. E di «illusione Jobs Act» , parla anche il segretario generale della Uil, Carmelo Barbagallo, ricordando che «mentre in Europa la disoccupazione è stabile da noi torna a salire». I tecnici dell’Istituto di statistica fanno però da pompieri, precisando che è ancora presto per poter vedere gli effetti del Jobs Act. Stessa lettura prudenziale la fa il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti. «I dati vanno letti in un quadro complessivo, dove segnali positivi si incrociano con elementi di criticità, tipici di una situazione economica non stabilizzata», puntualizza. Per poi mettere in mostra il rovescio lucente della medaglia: «nei primi tre mesi di quest’anno c’è stata la forte diminuzione delle ore autorizzate di cassa integrazione e una crescita dei contratti a tempo indeterminato di quasi il 40%».
In attesa di capire se la riforma del lavoro, in vigore solo dal 7 marzo, riuscirà far abbassare la testa alla disoccupazione è la Banca centrale europea a diffondere un po’ di ottimismo. Nel suo bollettino mensile comunica infatti che le stime dei prezzi in salita allontanano lo spettro della deflazione dall’Europa e che, «nonostante la bassa inflazione, non ci sono segnali che i consumatori stiano rinviando gli acquisti». Un segnale importante per l’occupazione, visto che la spirale deflattiva spinge di solito a rinviare gli acquisti in attesa di nuovi ribassi e le aziende a ridurre ulteriormente prezzi e costi. Compreso quello del lavoro.
E che la deflazione si stia allontanando anche dal nostro Paese lo conferma lo stesso Istat, comunicando che, secondo stime preliminari, l’indice dei prezzi al consumo sarebbe finalmente tornato al segno più, con uno 0,3% su base mensile, realizzato soprattutto dai costi di beni energetici, servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona.
A far intravedere l’uscita dal tunnel, assicura la Bce, è poi l’effetto quantitative easing, la massiccia operazione di acquisto titoli e relativa immissione di denaro fresco “che dovrebbe sostenere consumi e investimenti” e che, insieme al petrolio debole e alla svalutazione dell’euro, contribuirà “ad ampliare e rafforzare gradualmente la ripresa”. Magari anche dell’occupazione.

LA STAMPA

“La ripresa è lenta, ma è partita
Tra sei mesi posti in aumento”
Taddei: grazie alla riforma nuovi contratti più stabili

Roberto Giovannini

Filippo Taddei, responsabile Economia del Partito democratico: brutta botta questi dati sull’occupazione e la disoccupazione...
«È un dato, specie quello sull’andamento dell’occupazione, che non fa piacere, c’è poco da dire. È evidente che c’è una tendenza altalenante. D’altra parte però non si può usare questo dato per dare alcuna valutazione sull’efficacia della riforma del mercato del lavoro nel creare nuovi posti di lavoro. Non si può mettere in discussione l’impianto della riforma sulla base dell’andamento mensile dell’occupazione».
Sì, ma i numeri parlano chiaro: rispetto al febbraio 2015 sono stati bruciati 59 mila posti di lavoro, rispetto al marzo 2014 ben 70 mila... la tendenza non è rassicurante.
«Va riconosciuto che l’andamento è altalenante, che i numeri non sono soddisfacenti come speravamo, e che come sapevamo l’incertezza rimane un aspetto prevalente nell’economia italiana».
Forse questi numeri non ci dicono nulla sul «Jobs Act». Però ci parlano di un anno e passa di politica economica del governo Renzi. Politica economica che non è affatto riuscita, come era stato da voi annunciato, a mettere in moto la crescita o i consumi.
«La reazione dell’economia italiana è meno forte di quanto potrebbe essere, ma il primo trimestre del 2015 dopo 11 trimestri consecutivi negativi sarà il primo con il segno più. Siamo solo parzialmente soddisfatti, è poco, ma è il punto di svolta, anche se il rimbalzo sul Pil e il lavoro non è forte come speravamo. Ma l’economia italiana su dodici mesi fa ha una tendenza al miglioramento. Se i trionfalismi sono certamente fuori luogo, l’economia italiana ha smesso di scivolare. Ma non è in effetti ripartita alla velocità sperata. Diamogli un po’ di tempo e poi vedremo».
Quanto tempo?
«La produzione industriale in aprile è in crescita, e anche questo è un buon segnale. Io penso che servano un paio di mesi per avere il riverbero di questo dato sul prodotto interno lordo. E poi serviranno sei mesi, un paio di trimestri , perché la crescita dell’economia - che speriamo più forte possibile - si scarichi sull’occupazione, generando nuovi posti».
Taddei, non crede che sia anche un po’ colpa del governo se i dati negativi usciti questi giorni sul lavoro finiscono per diventare una bocciatura anticipata della riforma? Non si è esagerato con la propaganda?
«Io per adesso vorrei far notare che per quanto i numeri sull’occupazione siano parziali, è in corso un reale cambiamento della tipologia delle assunzioni, con più contratti a tempo indeterminato e meno assunzioni a termine. Prima era a tempo indeterminato uno su sette, ora uno su quattro dei nuovi contratti. È un’inversione di tendenza. Non è tutto, ma è qualcosa».
Che ne pensa della sentenza della Consulta sulle pensioni, che rischia di creare sconquassi nei conti pubblici?
«Aspettiamo che il governo faccia le valutazioni economiche precise del costo della sentenza della Corte Costituzionale. Poi capiremo anche quali misure concrete bisogna attuare. Ma a mio avviso è importantissimo sottolineare un punto: non si può e non si deve cancellare la memoria storica di come era messa l’Italia nel 2011. Non possiamo dimenticare, in una sorta di folle operazione di amnesia collettiva, quanto grave fu la crisi, quanto costoso e pesante fu lo sforzo, quanto pesanti furono i sacrifici sopportati per far restare in piedi il Paese. Ci hanno lasciato tanti problemi da risolvere, risolveremo anche questo».

CORRIERE DELLA SERA
MARIO SENSINI
ROMA L’onda lunga della crisi, che tutti vedono ormai quasi superata, continua a farsi sentire sul mercato del lavoro. A marzo, secondo i dati dell’Istat, la disoccupazione è tornata a salire di due decimali, toccando il 13%, livello record dopo il 13,2% del novembre scorso. Il nuovo contratto a tutele crescenti e la decontribuzione, a parte lo spostamento verso i contratti a tempo indeterminato, per il momento non determinano la creazione di nuova occupazione. Per avere più posti di lavoro, sostiene il governo, bisognerà attendere il consolidamento della ripresa. Le prospettive in questo senso sono buone, dice la Banca centrale europea mentre l’Istat conferma le attese per una crescita del prodotto interno lordo nel primo trimestre e l’uscita dalla deflazione, ma non così rosee come solo poche settimane fa.
Il quadro dell’occupazione resta molto pesante. Nel mese di marzo l’Istat ha registrato 52 mila disoccupati in più rispetto a febbraio. Rispetto al marzo 2014 la disoccupazione è salita di mezzo punto, l’occupazione scesa di 0,1 punti. Tra i giovani tra i 15 e i 24 anni, i senza lavoro sono il 43,1%, ancora in aumento. I dati Istat non contrastano con quelli del governo, che pochi giorni fa parlava di 92 mila contratti in più, 31 mila dei quali a tempo indeterminato. Dal lavoro autonomo a quello part-time , il travaso c’è stato e il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, lo sottolineava anche ieri con soddisfazione. Secondo il presidente dell’Inps, Tito Boeri, il calo degli occupati riflette anche una flessione del lavoro irregolare.
Sarà solo la ripresa dell’economia a smuovere il mercato del lavoro. «La sua evoluzione segue con ritardo quella dell’attività economica. Se questa prende a crescere, per prime aumentano le ore di lavoro di chi è già in azienda, con la riduzione della Cig e del part-time , e in effetti un aumento delle ore lavorate è in atto da mesi» spiega Sergio De Nardis, economista di Nomisma. «La crescita dell’occupazione si verifica, con ritardo, solo se la produzione di riprende in modo tale da giustificare nuove assunzioni».
L’Istat, intanto, certifica la fine della deflazione, con i prezzi a marzo saliti dello 0,3%, anche se fermi su base annua e conferma le attese per una crescita del prodotto interno lordo. L’indicatore «anticipatore» è stato positivo per il quarto mese consecutivo, «confermando le indicazioni a supporto di un miglioramento dell’attività economica nel corso della prima metà dell’anno» dice l’Istituto. Secondo Bankitalia il Pil potrebbe risultare positivo già in questo primo trimestre dell’anno. Anche la Banca centrale europea è convinta che, grazie soprattutto alle sue operazioni di acquisto di titoli, ma anche al deprezzamento dell’euro e al calo del prezzo del petrolio, il quadro sia più positivo, «anche se la disoccupazione resta elevata». Curiosamente, sono le prospettive di un’occupazione in crescita, a determinare il miglioramento del clima di fiducia dei consumatori che, nota, la Bce, è stato particolarmente sensibile in Italia e in Spagna.
Mario Sensini



Venerdì 1 Maggio, 2015
CORRIERE DELLA SERA
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«I numeri? Serve una centrale unica per evitare confusione sul lavoro»
Alleva (Istat): la situazione migliorerà nei prossimi mesi, dopo la ripresa
ROMA Presidente, perché dopo il lieve miglioramento a gennaio, i dati di febbraio e marzo sono stati negativi?
«Siamo ancora in una fase di incertezza – risponde il presidente dell’Istat, Giorgio Alleva – con oscillazioni minime in un senso e nell’altro degli indicatori del mercato del lavoro. Dobbiamo prendere atto che siamo in una fase di sostanziale stabilità e di difficoltà del mercato del lavoro a recepire i segnali di ripresa dell’economia che, comunque, potranno essere più vigorosi nei prossimi mesi. Prevediamo un aumento del prodotto interno lordo di 0,1% nel primo trimestre e più forte nel secondo».
Come spiega il ritardo del mercato del lavoro a seguire i primi segnali di ripresa?
«Le imprese stanno innanzitutto richiamando al lavoro le persone in cassa integrazione. Tuttavia abbiamo segnali concreti di aumento dell’occupazione nelle grandi imprese, quelle con più di 500 addetti (1.200 aziende con circa 4,5 milioni di persone), dove i posti di lavoro sono cresciuti a febbraio dello 0,1% rispetto a gennaio. Il dato, come succede spesso, riguarda più l’industria, in particolare trainata dall’export. Insomma i segnali sono frammentati, a volte contraddittori, secondo i settori e i territori».
Lo sgravio dei contributi sulle assunzioni a tempo indeterminato non basta?
«È importante. Crea condizioni favorevoli alle assunzioni, ma per un aumento stabile dell’occupazione servono anche altri fattori: dalle aspettative alla riduzione degli oneri burocratici e fiscali. Comunque, su un piano più strutturale, per consolidare la ripresa bisogna puntare su produttività e capitale umano. Ognuno deve fare la sua parte. Gli individui investire sulla formazione, le imprese sulla qualità di prodotti, management e personale, le istituzioni sul sistema dell’istruzione. E poi, bisognerebbe rimettere al centro dell’agenda politica il Sud».
Presidente, come si conciliano i dati dell’Istat sul calo dell’occupazione (-59mila occupati a marzo rispetto a febbraio) con quelli del ministero del lavoro che segnalano 92mila rapporti di lavoro attivati in più di quelli cessati?
«Non c’è contraddizione tra Istat e ministero. Noi rileviamo attraverso un’indagine con un campione molto ampio lo stato delle persone nel mercato del lavoro: occupato, in cerca di occupazione, inattivo. E ci riferiamo sia ai lavoratori dipendenti, sia indipendenti, regolari e irregolari. E questa è la rilevazione che tutti i Paesi conducono, rispettando i livelli di qualità richiesti da Eurostat, e che consente la stima del livello dell’occupazione e disoccupazione. Il ministero del Lavoro, invece, guarda alle attivazioni e cessazioni dei contratti di lavoro dipendente e parasubordinato, esclusa la pubblica amministrazione, i lavoratori domestici e i contratti in somministrazione. Ma fare il saldo tra queste grandezze non ha molto senso, anche il ministero non lo calcola. Di sicuro, possiamo dire che ci sono molte trasformazioni in contratti a tempo indeterminato. Ma per capire la dinamica dell’occupazione nelle diverse tipologie di contratto, bisognerà aspettare i dati del primo trimestre che l’Istat diffonderà il 3 giugno».
Ma ha senso avere diversi sistemi di rilevazione su un tema così delicato?
«Comunicare in giorni diversi informazioni differenti può alimentare la confusione. Per questo ho proposto al ministro Poletti, di costruire un sistema informativo integrato tra noi, il ministero e l’Inps, per fornire una comunicazione più ricca e integrata appunto. In questo progetto vorrei coinvolgere anche il ministero dell’Istruzione perché ritengo sia importante misurare anche il passaggio dal sistema educativo a quello del lavoro».
Quanto ci vuole per costruire questo sistema?
«L’Istat ha già tutte le competenze e gli strumenti per farlo. Con la collaborazione di tutti ci riusciamo in nove mesi, massimo un anno. Basta uscire dalla logica proprietaria dei dati. Un punto sul quale il ministro Poletti concorda».
Torniamo all’Istat. La disoccupazione sale al 13% e quella giovanile supera il 43%: un problema sociale.
«Sono dati importanti, ma servono alcune precisazioni. La disoccupazione è il rapporto tra quanti cercano lavoro e quanti lavorano o cercano un lavoro. Attenzione quindi, il 43,1% di disoccupazione giovanile corrisponde in realtà a circa l’11% del totale dei giovani di 15 -24 anni perché, ovviamente, molti di loro ancora studiano e quindi non cercano un lavoro. Quanto al dato generale, c’è la disoccupazione “buona” e quella “cattiva”. La prima si manifesta quando aumentano coloro che iniziano a cercare un lavoro per via della crescita economica. La seconda quando non diminuiscono gli inattivi. Ma il dato più importante è il rapporto tra quanti lavorano o cercano lavoro rispetto alla popolazione in età lavorativa. L’Italia è molto indietro rispetto alla media europea. Poco superiore al 50% tra le donne. C’è molta strada da fare».
Enrico Marro

Venerdì 1 Maggio, 2015
CORRIERE DELLA SERA
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Garanzia giovani, 530 mila iscritti Ma solo due su dieci hanno un’offerta Gli incentivi per 1,5 miliardi Il sito del governo operativo da 1 anno Il coinvolgimento delle agenzie private Le proposte per 80 mila ragazzi
Per ora dalla Ue sono arrivati 11 milioni di euro. Poletti ammette: necessari correttivi
ROMA Sarà un «grande successo» aveva detto l’allora presidente della commissione europea, José Barroso, quando il programma stava per partire. Oggi «Garanzia giovani», il piano per favorire l’occupazione dei ragazzi tra i 18 e i 29 anni che non studiano e non lavorano, compie un anno. E i numeri non sembrano dargli ragione.
In Italia sono 530 mila i ragazzi che si sono registrati sul portale con le offerte di lavoro. Tanti o pochi? Tanti se si considera il numero massimo di persone (560 mila) raggiungibile con i soldi a disposizione: 1,5 miliardi di euro di cui per ora da Bruxelles sono arrivati solo 11 milioni. Pochi se si alza lo sguardo sul numero totale dei Neet, i giovani che non studiano e lavorano, che in quella fascia d’età sono oltre 2 milioni. Cosa è successo a chi ha deciso di partecipare? A 80 mila ragazzi è stata fatta un’offerta di lavoro, il 17% degli iscritti al netto di chi poi si è cancellato. Non sappiamo, però, che tipo di offerta hanno ricevuto: uno stage, un contratto a termine oppure altro. Nel rapporto pubblicato ogni settimana dal ministero del Lavoro questa voce non c’è. Possibile, dopo un anno? I dati - dicono al ministero - arrivano dalle singole regioni solo una volta che le spese sono rendicontate. Per ora, dunque, bisogna accontentarsi dei numeri «macro». «Sono parzialmente soddisfatto», dice il ministro del Lavoro Giuliano Poletti. «Il giudizio è positivo considerando il punto dal quale partivamo, cioè la mancanza di fatto di politiche attive che aiutino i giovani». Ma c’è anche il bicchiere mezzo vuoto: «Non abbiamo ancora raggiunto i risultati che volevamo. Ma credo sia normale quando parte un progetto nuovo. C’è bisogno di rodaggio».
Che cosa non ha funzionato? In questi giorni Adapt, l’associazione fondata dal giuslavorista Marco Biagi, ha fatto notare come gli annunci finiti sul portale non fossero sempre, diciamo, rigorosi. Dalla «coppia di governanti esperti» senza stipendio, allo stage per un capo cantiere con 10 anni di esperienza, anche se lo stage serve proprio a chi esperienza non ne ha. «Gli annunci impropri - dice Poletti - non ci dovrebbero essere ma bisogna ricordare lo spirito di Garanzia giovani: moltiplicare le opportunità. Poi sta ai ragazzi valutare liberamente cosa fare». Il punto vero, però, è proprio il tipo di lavoro che passa tra gli ingranaggi del programma. «Penso che la maggior parte delle offerte concretizzate - dice Michele Tiraboschi, coordinatore di Adapt - siano proprio tirocini. E allora il gioco non vale la candela. Meglio usare quei soldi in altro modo».
Resta da vedere cosa ne pensano i diretti interessati. Secondo un sondaggio di Adapt e Repubblica degli stagisti, testata on line dedicata proprio al mondo dello stage, il voto medio dei partecipanti è 4. Uno studio dell’Isfol, ente di ricerca sotto la vigilanza del ministero del Lavoro, dice invece che sono soddisfatti 8 su 10. Forse la verità sta nel mezzo. Forse - come dice Gianfranco Simoncini, assessore al Lavoro per la Toscana - il «programma era stato caricato di troppe aspettative». Quando i lavori preparatori erano in corso Garanzia giovani era stata considerata come la risposta del governo Letta al Jobs Act , già annunciato dall’allora segretario del Pd Matteo Renzi. Poletti è arrivato al ministero quando la machina era già in moto. Sarebbe stato più utile usare quei soldi in altro modo, magari per potenziare lo sconto sui contributi per i contratti stabili? «No, avrei fatto la stessa scelta perché la disoccupazione giovanile è l’emergenza numero uno. Il programma va reso stabile ma con alcuni correttivi. Ad esempio coinvolgendo, oltre ai centri pubblici per l’impiego, anche le agenzie private, le organizzazioni sindacali, sociali e imprenditoriali».
Lorenzo Salvia
@lorenzosalvia

DARIO DI VICO CORRIERE DELLA SERA
Per evitare di alimentare la confusione, la comunicazione dei dati statistici sul lavoro ha bisogno di compiere un salto di qualità e integrare le varie banche dati. Ed è importante che a proporlo nell’intervista di oggi rilasciata ad Enrico Marro sia lo stesso presidente dell’Istat, Giorgio Alleva.
La richiesta di un miglioramento della comunicazione non va letta in chiave strettamente politica e quindi non va inserita nel tritacarne delle polemiche tra filogovernativi e antigovernativi. Stiamo parlando di trasparenza e correttezza nei confronti dell’opinione pubblica, per allontanare le contraddizioni e le incomprensioni a cui stiamo assistendo da troppo tempo. I dati dell’Istat si aggiungono a quelli del ministero del Lavoro e a quelli dell’Inps e tutti assieme a loro volta si sommano a quelli delle organizzazioni internazionali: il risultato è una marmellata mediatica, a sviluppo pressoché quotidiano, che finisce per confondere le idee e serve solo ad aumentare i decibel delle risse da talk show .
Il caso di ieri è solo l’ultimo: mentre l’Istat rendeva noto come nel marzo 2015 il tasso di occupazione fosse calato rispetto al mese precedente dello 0,1%, nel bollettino mensile della Bce si sottolineava che «il miglioramento, in Italia e Spagna, del clima di fiducia dei consumatori ha coinciso con un calo del tasso di disoccupazione».
È evidente che la querelle sui numeri è figlia innanzitutto di una fase di estrema incertezza, dove la recessione è finita ma la ripresa non è cominciata, ed è la dimostrazione che non bastano decontribuzione e Jobs act per determinare un’impennata delle assunzioni. Ci vuole una vera ripartenza dell’economia reale. Il clima di scetticismo sull’occupazione fatica a diradarsi anche perché l’operazione Garanzia Giovani — interamente finanziata dalla Ue, non va dimenticato — è stata condotta finora in maniera mediocre. Avrebbe dovuto essere una grande occasione per spiegare ai ragazzi che bisogna imparare a gestire il proprio capitale umano e ci si deve muovere nell’ottica di aumentare l’occupabilità e invece nella migliore delle ipotesi sta diventando un test sui ritardi delle politiche attive del lavoro e delle differenti velocità tra amministrazione centrale e Regioni. Basta seguire l’impietoso monitoraggio assicurato da Adapt, l’associazione fondata da Marco Biagi, per averne contezza.
Il Primo maggio del 2015 cade quindi in questa congiuntura. Avremmo tutti voluto che fosse una «festa del lavoro ritrovato», chiaramente non lo è. L’addensarsi, proprio negli ultimi giorni, di (cattive) notizie circa tutta una serie di crisi aziendali può far pensare che, oltre alla difficoltà di produrre nuova occupazione, la coda delle drastiche ristrutturazioni industriali degli anni della Grande Crisi si stia rivelando più ampia e più lunga del previsto. Guardando con maggiore attenzione ai dettagli delle vertenze aperte emerge come sia difficile ricondurre a un’unica interpretazione o tendenza ciò che sta avvenendo nel sistema produttivo.
Due comunque sono le situazioni da seguire con maggiore attenzione, se non altro per il peso che hanno sul capitolo occupazione. La prima riguarda di nuovo l’industria degli elettrodomestici: racconta di una difficile fusione tra due realtà assai simili come Whirlpool Italia e Indesit e di un Sud che rischia di pagare il prezzo più salato. Gli esuberi di personale da Auchan, uniti alla crisi del Mercatone, fanno suonare poi un ulteriore campanello d’allarme: la grande distribuzione, che finora aveva assorbito occupazione — e altra prometteva di assorbirne —, dovrà sottostare, almeno per ciò che riguarda alcune significative realtà, anch’essa a un doloroso processo di riorganizzazione. Non l’avevamo messo in conto.

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