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 2015  aprile 30 Giovedì calendario

I NEURONI DELLA LETTURA


Scrivere in maniera comprensibile: sembra facile, ma è più complicato di quanto si pensi. Ogni tanto anche chi usa la lingua per professione commette qualche errore. Lo dimostra la seguente frase, scritta da un germanista: «Tutte le forme di comprensibilità voluta che abbiamo citato, orientate sull’idea di interpretante, hanno un vantaggio decisivo nei confronti degli approcci miranti all’ottimizzazione testuale: non vi è in alcun caso pura sostituzione per cancellazione dell’elemento sostituito». E la citazione viene da un libro intitolato Farsi capire! Non cogliete subito il senso di queste affermazioni? Nemmeno io. Ma perché? Che cosa rende alcuni testi facilmente accessibili al nostro cervello e altri no? E come coltivare una scrittura comprensibile?
I libri che cercano di insegnare a scrivere in modo chiaro sono innumerevoli. Per esempio Wolf Schneider, ex direttore della Scuola per giornalisti «Henri Nannen» di Amburgo, ne ha scritti diversi, in cui consiglia, tra l’altro, di scegliere parole con poche sillabe, eliminare due aggettivi su tre, preferire i verbi ai sostantivi (per esempio «considerare» anziché «prendere in considerazione»). Inoltre bisogna evitare frasi contorte e fare attenzione alle metafore.
Illuminante. Ma questi consigli hanno anche un fondamento scientifico?
Quel che accade nel cervello quando comprendiamo un testo è stato ancora poco studiato. È possibile trarre qualche deduzione dagli studi che analizzano il modo in cui il nostro organo pensante elabora il linguaggio in generale. Già nel 1994 Michael Posner e Marcus Raichle, neuroscienziati dell’Università di Washington, scoprirono che l’informazione scritta percorre, all’interno del cervello, particolari vie: quando i soggetti osservano un motivo di linee privo di significato, nel lobo temporale del loro cervello si attivano poche aree. Quando invece si tratta di lettere, l’attività neuronale è tre volte maggiore. Si attiva inoltre il giro angolare, un centro di associazione superiore situato in una sorta di triangolo che comprende i lobi parietale, temporale e occipitale. In altre parole, cominciamo a pensare a che cosa potrebbero significare quei simboli. Molti leggono a velocità sorprendenti. Un lettore allenato, sotto sforzo, è in grado di elaborare fino a 900 parole al minuto. Il triplo della normale velocità di lettura, pari a più o meno 250-300 parole al minuto.

Un collo di bottiglia
Un team coordinato da Stanislas Dehaene, del Collège de France di Parigi, ha studiato ciò che avviene nel cervello quando non riusciamo più a cogliere i contenuti di un testo a causa di un’eccessiva velocità nella lettura. Gli studiosi hanno mostrato a volontari di madrelingua francese sottoposti a risonanza magnetica alcune frasi a velocità differenti: ogni testo veniva visualizzato solo per un preciso lasso di tempo. Dall’esperimento è emerso che le aree sensoriali primarie del cervello, tra cui la corteccia visiva, erano in grado di incrementare senza problemi la propria velocità di elaborazione.
Al contrario, varie regioni dell’emisfero sinistro, situate nel cervello frontale, nel lobo temporale e nel giro angolare, determinanti per la comprensione di ciò che leggiamo, non adeguavano la propria attività alla maggiore velocità di lettura. A partire da un certo ritmo (a partire dal momento esatto in cui i partecipanti al test cominciavano a non capire più il testo), l’attività di quelle aree crollava. Nello studio, pubblicato nel 2012, Dehaene descrive questi processi di elaborazione superiori come «Collo di bottiglia della comprensione linguistica».
Nascono quindi molti dubbi sulla possibilità di aumentare l’efficacia della lettura utilizzando metodi di «lettura veloce». C’è da dire che alcuni studi hanno dimostrato che leggere più velocemente può giovare alla comprensione impedendo che, a ritmi più lenti, ci si distragga con i propri pensieri. Tali strategie, però, funzionano fino a un certo limite, superato il quale l’aumento della velocità va a discapito della comprensione. Come sintetizzava ironicamente Woody Allen, «Ho fatto un corso di lettura veloce e sono riuscito a leggere Guerra e pace in venti minuti. Parlava della Russia».
Quando leggiamo, i nostri occhi avanzano a piccoli passi, detti «saccadi», da un frammento di parola al successivo. Ogni «sosta» dura circa 300 millisecondi e prende il nome di «fissazione». A ogni saccade elaboriamo più o meno tre o quattro lettere a sinistra del punto di fissazione e sette o otto a destra. Bastano 50 millisecondi per mettere in moto il processo della comprensione, che si protrae poi per oltre mezzo secondo.
In questa situazione, secondo la tesi predominante, il cervello ricorre a un «vocabolario mentale» in cui è archiviato e organizzato il nostro lessico. Una parola frequente, e quindi familiare, sarà riconosciuta dopo un lasso di tempo compreso tra i 300 e i 400 millisecondi. Maggiore è il numero di parole familiari contenute nel testo, più semplice sarà comprenderlo.
La neurolinguista Cynthia M. Connine, della Binghamton University, ha cercato di individuare, insieme ad alcuni colleghi, quali fattori contribuiscono più degli altri alla rapidità di comprensione: la frequenza con cui una parola ricorre nel lessico generale o la familiarità che il singolo lettore ha nei suoi confronti (magari perché si tratta di un termine tecnico che rientra nella sua sfera di interessi)?
Nel 1990 la studiosa e i suoi colleghi chiesero ad alcuni studenti di valutare, in base alla familiarità, alcune parole di raro impiego. Poi presentarono ai volontari vari termini, tra cui alcuni privi di senso, in alcuni casi per iscritto, altri da registrazioni audio. L’esperimento dimostrò che quando si ascolta una parola, sulla rapidità di riconoscimento influisce solo la familiarità, mentre nella lettura conta anche la frequenza. Lo stesso servizio ascoltato alla radio o letto in un giornale può quindi essere compreso in misura diversa.
Del resto è possibile allenare l’abilità di distinguere le parole dalle pseudoparole. In un esperimento pubblicato nel 2012, Ian Hargreaves, dell’Università di Calgary, e colleghi sono riusciti a dimostrare che chi gioca regolarmente a Scarabeo identifica con maggiore velocità i termini astratti rispetto a chi non pratica giochi di questo tipo. Aree specializzate
I consigli per una scrittura comprensibile non suggeriscono solo di utilizzare parole frequenti e familiari: mettono anche in guardia dal ricorrere a troppi sostantivi. È infatti noto da tempo che sostantivi e verbi vengono elaborati in aree cerebrali diverse e attivano reti differenti. Inoltre i verbi che descrivono azioni (come «avvitare») mettono in moto anche le aree cerebrali che controllano i movimenti.
Esiste però anche una chiara differenza anche tra sostantivi concreti e sostantivi astratti. Se leggiamo la parola «mucca», in entrambi gli emisferi si attivano aree che elaborano le sensazioni legate alla parola. Naturalmente dipenderà dalle esperienze del singolo soggetto se «mucca» sarà legata alla puzza di letame, al muggito o al sapore del latte. Un termine più astratto come «capo di bestiame» sarà invece rielaborato soprattutto dalle aree dell’emisfero sinistro cui compete il linguaggio.
Determinate espressioni possono sconcertare molti lettori: un esempio è quello delle parole tabù. Il fenomeno è stato dimostrato da Michael Siegrist, del Politecnico di Zurigo, nel 1995. Ha presentato ai soggetti su uno schermo parole neutre e parole tabù. A variare era anche il colore in cui erano scritte. I partecipanti al test dovevano riferire nel minor tempo possibile il colore della parola (leggendo la parola «merda» a lettere rosse dovevano dire subito «rosso», vedendo «telefono» scritta in verde, la risposta era «verde»). Il risultato? Davanti alle parole tabù i partecipanti impiegavano molto più tempo per indicare il colore esatto. Lo studioso ipotizza che un testo pieno di termini di questo tipo potrebbe rallentare anche la lettura di testi scritti a lettere nere su sfondo bianco.
Purtroppo però i testi non sono composti solo da parole, ma anche da frasi. Pur essendo in grado di leggere una frase come questa, siamo costretti ad archiviare le sue singole unità nella memoria di lavoro e tenerle in considerazione per comprendere il contesto generale. È uno dei motivi per cui abbiamo qualche problema a comprendere la citazione riportata all’inizio dell’articolo: in presenza di un numero troppo elevato di parole per frase, la memoria di lavoro raggiunge il limite. I consigli di scrittura raccomandano di non superare mai le 14-16 parole per frase.
Già nel 1992 la gerontologa Susan Kemper, dell’Università del Kansas, ha confrontato le competenze linguistiche di studenti di college e di persone più anziane, di età tra i 60 e i 90 anni. È emerso che la comprensione di frasi complesse dipende molto dalla capacità individuale della memoria di lavoro. In media, e indipendentemente dalla loro istruzione, gli anziani hanno maggiori problemi con le frasi dalla costruzione complessa.
Un risultato interessante è stato ottenuto nel 2007 da alcuni studiosi coordinati da Rossana de Beni, dell’Università di Padova. I ricercatori hanno rilevato che i più giovani capivano meglio testi espositivi rispetto ai più anziani. Le cose erano diverse, però, con i testi narrativi (sebbene fossero della stessa difficoltà dal punto di vista della costruzione delle frasi e del lessico usato): in questo caso, a riportare risultati peggiori erano solo i soggetti over 75. A quanto pare, quindi, almeno nella «prima terza età» siamo in grado di compensare eventuali carenze (tra cui quella relativa alla memoria di lavoro) a prescindere dal genere di testo.Tutto è relativo
L’esempio modello di struttura ipercomplicata delle frasi è quello delle proposizioni relative incassate all’interno della principale. Molto però dipende dal tipo di frase relativa, come ha spiegato il neuroscienziato Edward Gibson del Massachusetts Institute of Technology nel 2005. Lo studioso ha misurato la velocità con cui i soggetti leggevano affermazioni costruite in vario modo.
Per esempio: «L’insegnante che indica lo scolaro solleva un problema serio». Qui il soggetto della proposizione principale è allo stesso tempo anche il soggetto della proposizione relativa. In questo caso la velocità di lettura diminuisce di poco, e le persone non sembrano avere problemi di comprensione. Le cose vanno diversamente nella seguente costruzione: «Lo scolaro che l’insegnante indica solleva un problema serio». Qui la frase relativa, all’improvviso, trasforma il soggetto della frase in un complemento oggetto: in questo caso i soggetti rallentano la lettura. Allo stesso modo, le proposizioni subordinate incastonate al centro della principale rappresentano un problema più serio di quelle poste alla fine della frase, come illustrano i seguenti esempi: «Lo studente che è stato seguito dal professore che ha collaborato con lo scienziato ha fotocopiato l’articolo». Comprendiamo meglio la variante: «Lo scienziato ha collaborato con il professore che ha seguito lo studente che ha fotocopiato l’articolo». C’è da dire che anche la seconda versione non è particolarmente comprensibile.
Wolf Schneider sostiene che nella comprensione di un testo c’è sempre uno che deve tribolare: può essere l’autore, oppure il lettore. Ci si chiede allora: la fatica nel comprendere è colpa di chi scrive?
Nel 2010 la linguista Ginny Redish e i suoi collaboratori si sono impegnati per rispondere a questa domanda: gli studiosi hanno invitato 45 persone a simulare elezioni ispirate al macchinosissimo sistema statunitense. Alcuni hanno ricevuto indicazioni scritte in un linguaggio semplice, altri nell’usuale inglese burocratico.
Negli Stati Uniti, a partire dal 1998, il governo è tenuto a comunicare con i cittadini in plain English, quindi in una lingua chiara. È emerso che soprattutto le persone meno istruite tendevano a produrre meno voti nulli grazie alle indicazioni più comprensibili. Inoltre, dopo aver fatto leggere a tutti i partecipanti entrambe le versioni delle istruzioni, l’87 per cento preferiva la versione in plain English. La conclusione è semplice, almeno per quanto riguarda i testi esplicativi: più sono semplici, meglio è.