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 2015  aprile 29 Mercoledì calendario

MI METTO A NUDO


[Giorgio Armani]

MILANO – APRILE
Tutto nel mondo della moda è veloce ed effimero. Gli stilisti si considerano fortunati se riescono a restare sulle passerelle per una decina d’anni. Sono pochi quelli che resistono una vita e che, alla fine, lasciano un’impronta profonda nel mondo della moda. Si possono contare sulle dita di una mano: Coco Chanel, Yves Saint Laurent, Karl Lagerfeld e Giorgio Armani. Chanel e Saint Laurent sono morti. Lagerfeld lavora per le maison Chanel e Fendi. È rimasto solo Giorgio Armani a firmare le proprie collezioni, a quarant’anni dall’esordio. È lo stilista più ricco e famoso di oggi, e probabilmente, dopo la morte di Luciano Pavarotti, è anche l’italiano più conosciuto all’estero. «È una bella sfida tra me e Berlusconi», dice lui, «però Berlusconi non lo sopporto, trovo volgare tutto quello che fa. Il modo in cui parla e le donne!».
Questo è tipico di Armani. Chi lavora nella moda di solito è una persona divertente e accattivante in pubblico, ma poi dopo il lavoro diventa noiosa. Hanno paura che dire una parola fuori posto possa causare un boicottaggio nei loro confronti. Armani, invece, è fatto al contrario: le sue sfilate sono così sobrie che vengono spesso etichettate come “noiose”. Alcuni critici lo chiamano addirittura “il signor Beige”. Poi, invece, a quattr’occhi, davanti al camino del suo palazzo milanese, è fin troppo sincero. «Mi chieda quel che vuole», dice. «Ho le idee molto chiare». Sissignore.
Partiamo dalla sua mania di controllo e dalla sua irascibilità. Molti sanno che Armani vuole gestire nei minimi dettagli ogni aspetto del suo team di stilisti, che si attribuisce il merito di tutto, che esige di essere chiamato “signor Armani” e che, addirittura, lui stesso si chiama “signor Armani”. Forse quello che non tutti conoscono è il carattere infiammabile, che si nasconde dietro la sua abbronzatura color mogano, e il suo atteggiamento composto, misurato, che sembra dire: «Sono sempre in vacanza». È vero, chiedo, che dal giardino del suo studio si sente spesso tuonare il suo insulto preferito: “Tira fuori le palle! Fammi vedere che hai coraggio!”? «È verissimo», sorride. «A volte posso risultare un po’ aggressivo. Il mio staff ha una gran paura che li becchi a lavorare in un modo che non mi piace».
Un inizio promettente per un’intervista, ma c’è dell’altro. Di solito gli stilisti preferiscono non parlare pubblicamente della concorrenza. Invece, Armani vuole parlare di Miuccia Prada, diventata celebre per la sua “moda concettuale”. «È una tipologia di moda di nicchia, non ti rende più bello», dice. «È destinata a un pubblico che non ama la moda, per un’élite, per gli snob». Ma quindi Prada è da snob? Armani annuisce. E cosa mi dice di Gianni Versace, che negli Anni 80 inventò uno stile vistoso ed esibizionista, proprio mentre Armani cercava di smorzare i toni? Si dice in giro che in privato re Giorgio abbia accusato Versace di «vestire sgualdrine», mentre lui vestiva delle signore. «È vero, ma è successo proprio il contrario, non l’ho criticato io», specifica. «Ci siamo incontrati a un evento in piazza di Spagna, a Roma. Mi stava parlando e, mentre osservavamo le modelle, mi ha detto: «Io faccio vestiti da sgualdrine, tu da suore».
Parlare con lui è divertente e allo stesso tempo porta a galla un sacco di verità. Dopo quarant’anni ai vertici, un record che festeggerà all’apertura dell’Expo inaugurando Armani Silos, un museo di oltre 4 mila 500 metri quadri dedicato alle sue creazioni, lo stilista sente di non avere nient’altro da dimostrare. Non gli importa di sembrare arrogante: è convinto di essere il migliore stilista in attività. Chiedetegli di fare il nome di uno stilista che ammira, emergente o affermato, e come risposta riceverete solo un lungo silenzio. Alla fine, però, tira fuori due nomi, ma sono entrambi trapassati, e quindi non sul suo stesso piano: «Coco Chanel ha rivoluzionato il mondo della moda. Ha immaginato una donna più pratica, che vive davvero e non sta tutto il tempo in una torre d’avorio», dice. «Yves Saint Laurent, invece, ha adattato la moda maschile alle donne. Ambedue non hanno solo fatto moda, hanno trasformato la società». E qual è il suo contributo? «Io uso la creatività per aiutare a rendere la vita più elegante e più facile».
Adesso re Giorgio ha 80 anni e sono passati quarant’anni da quando decise di licenziarsi dal suo primo lavoro, prima allestitore di vetrine e poi responsabile acquisti del reparto uomo alla Rinascente, e trovò Sergio Galeotti, al tempo suo compagno di vita e socio in affari. Avrebbe mai pensato che, a distanza di tanto tempo da quei giorni, si sarebbe trovato ancora a disegnare (e ad arrabbiarsi!)? «Ogni tanto ho pensato di non farcela», confida. «Ogni anno ti mette alla prova e si corre il rischio di commettere un errore. Non sai mai se avrai successo. Ma bisogna evitare di farsi condizionare e andare avanti». Sembra un tipo di vita estremamente stancante, specialmente per un uomo che a settant’anni ha avuto una malattia rara al fegato (dalla quale è riuscito a guarire). Gli chiedo quanto si senta felice, in una scala da uno a dieci. Risponde: «Solo tre». E allora perché non si prende una pausa e si gode un po’ le sue nove case in giro per il mondo e il suo yacht ultramoderno? Anche vivendo altri vent’anni, non riuscirebbe comunque a spendere tutto il suo patrimonio (8 miliardi di dollari). «La mia vita è strettamente connessa con il mio lavoro. Non ho una gran vita al di fuori». Ma questo non lo rattrista, anzi, gli piace molto. A volte usa la moda perfino come terapia. «Quando sono in crisi, compro scarpe!». Ma la verità è che per lui essere il capo è la cosa più importante di tutte. «La mia azienda è il mio impero, nessuno può prendere il mio posto». Suona molto narcisista, ma non ha tutti i torti. Negli ultimi vent’anni gran parte dei suoi concorrenti ha venduto alle due corporation francesi: Lvmh, che controlla Fendi, Pucci e Bulgari, e Kering, che ha comprato Gucci. Bottega Veneta e Brioni. Lui, invece, è solo al comando – fondatore, amministratore delegato, stilista e unico proprietario del suo marchio, che, secondo gli esperti, potrebbe valere intorno ai 3,2 miliardi di dollari. I suoi 2 mila 500 tra negozi e punti vendita incassano 2,2 miliardi di euro all’anno, generando un profitto netto di 401 milioni di euro. Come è riuscito a costruire questo impero? Uno dei più grandi successi di Armani è stata la creazione di una moda per tutti, libera dalla paura. Negli Anni 70 è stato il primo a destrutturare i vestiti, creando capi dalla vestibilità un po’ più facile, ma comunque in grado di esaltare la figura di chi li indossa. Il suo stile “elegante ma non eccessivamente formale, fine e alla moda, ma non all’ultimo grido” è stato la colonna portante del guardaroba di una generazione di donne. Poi, per lanciare sul mercato i suoi prodotti, è stato lui a inventare i red carpet come li conosciamo oggi. All’inizio degli Anni 80 fu il primo stilista a trasferirsi a Los Angeles per gli Oscar e a vestire celebrità come Robert De Niro, Samuel L. Jackson e Michelle Pfeiffer. Poco dopo, quasi tutte le star cominciarono a voler indossare i suoi capi, così è riuscito anche a sbarcare nel mondo del cinema disegnando gli abiti indossati dai protagonisti di pellicole come American Gigolò, Gli intoccabili, Quei bravi ragazzi, Pulp Fiction e The Wolf of Wall Street.
La scelta di Armani di concentrasi su uno stile classico («Cerco di essere coerente e il più democratico possibile», dice), non è condivisa dagli altri stilisti che hanno un’idea della moda più commerciale. Quindi snobbano il suo stile, talmente ripetitivo, piatto e banale da essere come la Gap dei ricchi. Quando gli ricordo questa critica fa una pausa, poi ammette: «Noioso? Sì, qualcuno dice che lo sono e forse ha ragione. A volte, quando osservo alcune collezioni, lo riconosco pure io. Ma la vera partita non la gioco con i critici, bensì con i clienti. Loro vogliono proprio questo Armani. Io disegno per il pubblico, non per l’industria della moda».
Alla sua età ha visto di tutto, è stato un po’ dappertutto e ha disegnato di tutto. Ha visto cambiare il suo settore e il mondo. Anche nelle cose più semplici: dice che persino la corporatura degli uomini e delle donne è cambiata moltissimo e non in meglio. Gli uomini hanno cominciato a essere troppo robusti. «Non mi piacciono gli uomini muscolosi», spiega. «Mi piace vedere una persona in forma, in salute, che si prende cura del proprio corpo, ma che non è ossessionata dai muscoli». Ma questa regola è il primo a non rispettarla. Si allena in palestra tutte le mattine, all’ultimo piano di casa sua e ha un debole per mostrare i suoi pettorali. Però, non si tinge i capelli e non ha mai usato il botox. Della chirurgia estetica dice che «È un’idiozia, a meno che non ci si ricorra per una qualche deformità». Ci ride su dicendo che non riesce a modificare gli abiti da sera come richiesto da alcune star di Beverly Hills perche’ non ha abbastanza tessuto per il loro seno rifatto. «Preferisco guardare una donna autentica. Una donna dovrebbe essere coraggiosa e affrontare gli anni che passano, non cercare a tutti i costi di sembrare più giovane di quello che è. Con il tempo il corpo di una donna migliora: lavora, ha figli, diventa forte, ha carattere. Un esempio? Cate Blanchett».
Negli ultimi decenni il cambiamento maggiore nel mondo della moda è la pressione crescente che mette sugli stilisti per produrre nuove collezioni. Quando Armani cominciò la sua carriera, esistevano collezioni autunno-inverno e primavera-estate, per uomini e donne. Oggi ci sono anche collezioni di metà stagione, pre-autunnali e da vacanza, e dozzine di linee per cui disegnare. «C’è troppa moda», sospira Armani, apparentemente ignaro del fatto che la colpa sia sua. È stato lui il pioniere della creazione di marchi paralleli. Fu lui il primo a suddividere la sua firma in quasi una dozzina di piccole linee, da A/X Armani Exchange e AJ Armani Jeans, più a buon mercato, passando per Emporio Armani e Collezioni, fino ad arrivare alla costosissima Black Label Giorgio Armani e a Privé, la collezione di alta moda. Ma non tutti i suoi colleghi reggono la pressione. Per esempio, quattro anni fa John Galliano fu licenziato da Dior per aver gridato insulti antisemiti in un bar di Parigi. Poi si scoprì che era caduto in depressione e che beveva parecchio. Gli dispiace per Galliano? «Galliano è un genio, ma è anche una vittima. I suoi boss volevano che fosse eccessivo, che giornali e riviste ne parlassero, e gli lasciavano fare qualunque cosa». Quindi la sua crisi è colpa di Dior? «Sì. È ovvio».
Per quanto strano possa sembrare. Armani ha vissuto tutta la vita in Italia. Ha visto il Paese trasformarsi. «Io ricordo come l’Italia ha lottato nel dopoguerra, era stupendo vedere tutta quella energia. L’abbiamo persa per un po’, come la Dolce vita. Spero che potremo recuperare». Come? «La classe politica deve pensare meno a se stessa e più a cosa può fare per il Paese. L’Italia ha bisogno di una Margaret Thatcher, di un leader che sappia osare. Di una donna con due palle. No anzi, con quattro palle!».
Ed eccolo di nuovo con la sua energia. Quindi gli chiedo che cosa pensa dei vip con cui va alle feste, perché non sembra mai divertirsi molto. Semplicemente, si fa vedere, fa un paio di foto con loro e poi toma a casa a dormire. Non gli piace questa gente? Scopro che, in realtà, non gli piace essere oscurato da qualcun altro. Il suo andarsene è un modo di ricordare a tutti che è lui il capo e, in fin dei conti, la ragione per cui tutti sono alla festa. «È il mio modo di mettere in chiaro le cose, come una vendetta. In quel momento, andandomene, mostro di essere più forte di tutti quelli che mi circondano».
Armani è sincero, sì, ma solo fino a un certo punto. E parla di tutto tranne che della sua vita privata. Nessuno nega sia gay – in una cornice d’argento vicino a dove è seduto c’è una foto del suo partner – e tuttavia non parla né di lui né di altri compagni. Invece, a volte, dice cose che sembrano critiche rivolte ad altri omosessuali. «Un uomo omosessuale è un uomo al 100 per cento, non ha bisogno di vestirsi da omosessuale. Non ho nulla da spartire con l’omosessualità troppo ostentata, un po’ come dire “Ah, sai che sono gay?”. Un uomo deve rimanere uomo».
Perché è così schivo della sua sessualità? «Semplicemente non ne voglio parlare. È una cosa personale e privata». E aggiunge: «In più, voglio proteggere tutte le persone che hanno fatto parte della mia vita». Le sue opinioni sono classiche e tradizionali, esattamente come il suo stile nei vestiti. Recentemente, gli ricordo, ha detto: «Non c’è nulla senza l’amore. Quando ti svegli la mattina, hai bisogno di sapere che anche qualcun altro si sta svegliando pensando a te». E chi è questa persona? Ride: «Tantissimi!».
Non è solo un tentativo di preservare la sua privacy e quella del suo compagno, è anche un discorso di affari. E per quanto possa sembrare strano al suo pubblico occidentale, a cui non importa molto che lui sia gay, altri clienti nei mercati emergenti credono che lui sia eterosessuale, per esempio in Cina. «Pensano anche che Roberta, sua nipote (che si occupa dei clienti vip di Armani, ndr), sia sua figlia», rivela uno dei suoi ex dipendenti. Anche se in un certo senso per un uomo gay la moda è l’industria più facile in cui lavorare, Armani teme comunque che se lasciasse cadere la “maschera” le vendite in Asia potrebbero diminuire.
Quando un amministratore delegato compie 70 anni, o 80, di solito i suoi dirigenti sono già a conoscenza di un piano per la successione. Ma nel caso di Armani piani per il “dopo” non ce ne sono. In più, non avendo figli, non ha eredi. Qualche anno fa fu vicino alla cessione di una quota dell’azienda a Lvmh e si tirò indietro perché, dice: «Avrei perso la mia personalità, non sarei più stato Armani». Più avanti, respinse un’offerta del gruppo Gucci e da allora si è rifiutato anche solo di prendere in considerazione qualunque offerta, e pure di nominare un successore. Ma lui sa di avviarsi verso l’ultimo capitolo. «Ieri sera ci pensavo e ho pianto» dice. Gli occhi gli si inumidiscono. «Pensavo a certi progetti che non posso portare avanti perché non ne ho il tempo. Come faccio a essere felice quando so che tutto questo, anche quest’azienda, finirà?». Ultimamente ha dovuto ridimensionale le sue ambizioni. Qualche anno fa annunciò l’apertura di una dozzina di hotel griffati Armani in una joint venture con Emaar, azienda leader a Dubai. Ne sono stati aperti solo due, uno a Dubai e uno a Milano. «La collaborazione per i nuovi hotel con Emaar probabilmente cesserà», dice Armani. Essere sempre impegnato lo aiuta a tenere a bada la tristezza, rivela. Anziché rallentare i ritmi di lavoro e andare in pensione vuole continuare all’infinito, insiste, o perlomeno finché ce la farà. «Non voglio diventare ridicolo e uscire sulle passerelle sorretto da un bastone. Però voglio andare avanti finché non capirò più che cosa succede intorno a me». Vuol dire che lavorerà fino alla fine? «Sì». Ma non succederà presto, crede, nonostante le ultime malattie. È in forma smagliante, considerata la sua età. «La mia vita assomiglia un po’ a quella dei monaci, mi do delle regole ferree: sto attento a quello che mangio, mi alleno spesso, mi sento in forma. Sono anche appena tornato da una vacanza», dice stringendo i pugni. Avrò l’occasione di intervistarlo tra dieci anni, quando la sua azienda ne avrà 50 e lui 90? Si avvicina e mi sussurra: «Anche a 95».