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 2015  aprile 29 Mercoledì calendario

I 45 ANNI DI ARMANI

[Intervista a Giorgio Armani] –
Signor Armani, quanti anni ha, dentro?
«Quarantacinque».
Il resto sono opinioni, anagrafe, tempo. C’è un cuore nel cuore che si ferma molto prima e resta com’è. Lo ammette, e sorride. Chi lo conosce bene dice che si tratta di un evento raro. Eppure accade spesso nel corso di questa chiacchierata.
È la seconda volta che incontro Giorgio Armani e si rafforza l’impressione di avere davanti un uomo che avrebbe voglia di lasciarsi andare, sentirsi libero, persino scherzare. E che qualcosa lo trattenga: il ruolo, la strategia, ma più di tutto la delusione che potrebbe provare se la sua fiducia fosse tradita.
A un certo punto esprimerà il bisogno, e la richiesta, di «rispettare la sua timidezza». È una barriera davanti a cui fermarsi, non in nome della potenza conferita dalla classifica di Forbes, ma della fragilità umana. La stessa che gli fa oscurare la stanza appena entra: «C’è una luce bellissima, ma i miei occhi non la sopportano, sono troppo sensibili. Colpa della ferita, di quella lontana esplosione alla fine della guerra che mi spedì per quaranta giorni all’ospedale, la pelle bruciata e il rischio di perdere la vista. E del fatto che sono azzurri».

Li cambierebbe con due occhi di altro colore, ma meno sensibili?
«Sì. Ma non sarebbe possibile averli un po’ meno azzurri e meno sensibili?».
Gli occhi sono la sua sineddoche, la parte che racconta il tutto: la cosa più bella che tocca proteggere e a volte nascondere per evitare spiacevoli conseguenze. Altro, di lui, può affrontare il confronto.

Lei ha compiuto ottant’anni, la sua azienda quaranta. La sente come una figlia o una compagna di vita?
«È una compagna di vita. In un certo senso la vedo come qualcosa di vivo, con la sua identità. Con lei ho realizzato idee e progetti che, una volta al termine, mi accorgo essere qualcosa di sottilmente diverso da quello che avevo pensato. Non volevo che la moda fosse un elemento discriminatorio. L’haute couture parlava a pochi e faceva sognare molti. Io invece avevo il nuovo desiderio di vestire il maggior numero possibile di persone che si potessero riconoscere in un’estetica autorevole ma non autoritaria, grazie alla quale sentirsi a proprio agio e sicuri di sé».
Lei è autorevole o autoritario?
«L’autorevolezza è conferita dall’esterno, l’autoritarietà uno se la dà da solo. Che sia autorevole me lo dicono, da me si aspetta il verbo, mi si chiede di tutto e fin troppo: non sono un opinionista, posso dire anche fesserie. Autoritario? Di me dicono pure questo: che sono un despota. Chi lo dice sbaglia. Ascolto tutti, sempre. Valuto. Poi decido io, ma quello mi tocca».
Che cosa succede se una persona autorevole ne incontra una autoritaria?
«Nel mio caso, la guerra. Accetto l’autorità che ha una legittimazione, non quella ingiustificata».
C’è quel che gli altri pensano di lei e c’è quel che lei pensa di se stesso. C’è un marchio e dietro una figura che si affaccia a fine sfilata. Disse a una giornalista del Guardian: mi nascondo dietro me stesso. Un gioco di scatole cinesi: che cosa c’è dentro l’ultima?
«C’è l’uomo Giorgio Armani. Con le sue debolezze, i ricordi, le gioie personali, i dolori profondi. Tutto quello che negli anni mi ha formato e al quale nemmeno io a volte desidero pensare. È una scatola che voglio rimanga chiusa e soltanto per me. Ho un tipo di vita pubblica che mi impegna moltissimo e desidero conservare momenti di silenzio e autonomia. Rispettare la mia timidezza».
Ha detto anche che la sua iconografia le è stata «cucita addosso». Dica la verità: il disegno però era suo. O no?
«Naturalmente, ma le interpretazioni sono venute dopo, secondo punti di vista e opinioni altrui. Ho sempre pensato che avesse ragione Andy Warhol quando diceva che i giornalisti vogliono solo delle risposte che vadano bene con quelle domande che vanno bene con la storia che vogliono scrivere».
Qui non c’è una storia preconfezionata. Vuole riscriversela da sé?
«Magari. Vede, io sono diverso da come mi immaginano. Sono disponibile con tutti, tranne quelli della moda. La gente se ne accorge quando mi incontra. Poi dice: non me lo sarei mai aspettato che fosse così. Sorrido nei selfie degli sconosciuti, dò loro consigli per l’abbigliamento...».
Che cos’è allora ad aver determinato l’altra immagine?
«Il mio stesso aspetto, per cominciare: ho una fisionomia che dà soggezione, un’aria austroungarica...».
E da quando abbiamo cominciato tiene uno sguardo severo...
«Ho uno sguardo severo?».
A occhio, sì...
«Severità, onestà, senso dell’efficienza... vorrei imparare a manifestare anche altre emozioni: ironia e allegria. Non mi è mai piaciuto essere considerato una specie di principe triste, uno che non ride mai, non si diverte mai, che evita di parlare perché non ha voglia di abbandonarsi alle gioie della vita. Vorrei che non mi costasse tanta fatica esprimere queste emozioni».
Credo che il problema non sia l’aggettivo, ma il sostantivo: come può il «principe» concedersi?
«Posso essere diverso a seconda delle persone che ho davanti, far cadere le barriere con chi cerca di capire e non se la tira».
Resta l’aggettivo «triste». Resta?
«Felice non sono. Qualcosa me lo impedisce e mi spiace. È un fatto caratteriale: era così mia madre, isolata, chiusa. Ma per aprirsi occorre tempo e io non ne ho. Devo dedicarlo al mio lavoro».
Woody Allen mi disse che faceva un film all’anno per non avere più di un istante da dedicare a riflessioni sulla vita in cui si sarebbe smarrito. È così anche per lei, una collezione dopo l’altra?
«Penso che per un uomo il lavoro sia fondamentale. Le donne hanno altre risorse. Ma per gli uomini il lavoro è l’antidoto all’infelicità».
Una statistica sostiene che in una vita media passiamo quattro anni a mangiare e abbiamo quarantasei ore di felicità: le ha avute?
«Di meno, credo. Ma non mi sono chiesto tante cose. Mi sono impegnato per altri. Dovevo essere Armani. Dire sì o no al volo, senza manifestare dubbi, tenerli per me, dovevo far finta di essere sicuro».
Be’, ci sono cascati tutti.
«Ho fatto sbagli, soprattutto quando non ero convinto, eppure ho ascoltato chi mi diceva che andava bene così. Però ho avuto la consolazione di aver intuito la verità».
«Ha visto abbastanza? Ha vissuto abbastanza?».
«Ho visto molto e vissuto molto. Ma c’è sempre qualcosa che vorrei vedere, esperienze che vorrei vivere, persone che vorrei incontrare e battaglie da combattere. C’è una tale ricchezza nella vita che mai potrei pensare di averla esaurita».
Preferirebbe realizzare un desiderio nel futuro o cambiare una cosa del passato?
«Non ho rimpianti, quindi non c’è niente, che nel passato dipenda da me, che vorrei cambiare. Preferirei invece realizzare un desiderio del futuro, ma per scaramanzia preferisco non rivelarlo».
Ho visto preparare le stanze per il suo arrivo, sistemare la mobilia come la vuol vedere, sprigionare le essenze che ama: come volesse camminare in un mondo predefinito, senza sorprese. Che rapporto ha con l’imprevisto?
«Non mi piace. Cerco di dominarlo e di imbrigliarlo perché non mi crei problemi. Soprattutto non gli permetto di sconvolgermi con l’ansia».
Crede nel destino o nella provvidenza?
«Credo nel destino ma mi piace pensare all’esistenza dell’angelo custode come qualcosa che dia speranza, perché la speranza è la medicina dell’anima. Per quanti meriti ciascuno di noi possa avere dal talento alla buona salute, dalla volontà alla disciplina, dalla correttezza nei comportamenti al rispetto dei valori, sono tanti i momenti pericolosi sia nella vita privata sia in quella professionale e altrettante le volte in cui proprio miracolosamente si compie la scelta giusta salvando la situazione. Come non pensare che esista qualcuno che ci protegge più da vicino, o meglio come non sperarlo?».
Lei ha in qualche modo protetto le donne, per anni. Con le sue linee voleva rassicurarle, farle sentire sempre a loro agio. Ne hanno ancora bisogno?
«Non lo chiedono, lo danno per sottinteso».
Che differenza c’è tra donna in carriera e donna di potere? Hanno stili diversi?
«Dipende da qual è la carriera. Se si vuole dirigere una banca o Google, penso che il look debba essere sobrio, ragionevole, ispirare un senso di eleganza indiscutibile. Se la carriera è nello spettacolo o nell’arte, i presupposti cambiano. Possono essere più eccentrici, spavaldi, sensuali».
Una donna, Hillary Rodham Clinton, può essere un buon presidente degli Stati Uniti?
«Penso di sì: per l’intelligenza come l’esperienza, se non sembrerà di voler concentrare troppo potere nelle sue mani e se reggerà una campagna elettorale che potrebbe essere devastante per allusioni, battute e commenti misogini».
Il suo «primo film» è stato American Gigolo, l’ultimo (se non sbaglio) The Wolf Of Wall Street: gli uomini sono cambiati quanto questi due personaggi?
«Dal potere del corpo al potere del denaro e della finanza. Dall’energia incontenibile degli anni Ottanta ai disastri finanziari e alla depressione del Duemila. Ma vedo anche una potente reazione a livello mondiale e molti cambiamenti in corso. Parliamone al prossimo film».
E Milano, quanto è cambiata?
«È cambiata moltissimo ed è già ripartita. Perché ha individuato nella cultura e nel saper fare il suo futuro. L’importante è che la città ritrovi fiducia e senso del collettivo, non mugugni a ogni progetto e si convinca di essere attraente. Ogni cosa, diceva il grande scrittore Chesterton, deve essere amata prima di essere amabile».
Due anni fa mi disse che vedeva «troppi giovani impreparati». Ho l’impressione che abbiano fatto strada. Nel frattempo hanno studiato e sono diventati all’altezza o abbiamo un problema?
«Una cosa non esclude l’altra, ma tutto sommato penso che stiano maturando. Anche se con una certa difficoltà. Ogni generazione ha i suoi problemi e cerca a suo modo di risolverli».
E ogni generazione reclama il proprio spazio, però a volte lo trova ancora occupato dalla precedente. Eppure si dimettono anche i papi. L’ho presa larga per arrivare alla domanda che so vorrebbe evitare. Mancano quattro anni e tre mesi. Ovvero: disse che fare lo stilista a ottantacinque anni sarebbe stato assurdo. Conferma?
«Ho la stessa opinione, ma la penso in modo diverso».
Una risposta politica, avrebbe fatto invidia ad Andreotti.
«Quando dissi quella frase avevo meno anni».

Sorride. Ci salutiamo. Mi allontano. Ho fatto due passi e già, nella stanza in penombra, Giorgio Armani inforca gli occhiali scuri e scompare dietro se stesso.