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 2015  aprile 29 Mercoledì calendario

BRIANZA STATE OF MIND


Quando si atterra a Malpensa, con l’aereo prima si sorvola un’ampia zona del Norditalia punteggiata da mille campanili collegati tra loro da strade statali che sembrano sinapsi. Quella è la Brianza. Il posto da cui vengo. Una grande distesa di paesini, rotonde, fabbriche, capannoni (molti dei quali oggi sono vuoti), centri commerciali, vite umane. Li guardo incolonnati a bordo delle loro bare di metallo con le ruote e il cruise control, mentre in tangenziale smandibolano per cambiare corsia in quel fiume di luci degli stop, una coda che parte da Vimercate e arriva più o meno a Cascina Gobba. So che è Vimercate perché dal mio posto, il 12A finestrino, vedo le Torri Bianche, un centro polifunzionale di uffici, multisala, pessimi ristoranti messicani, centri estetici per donne troppo pelose, bar senza personalità. Le due Torri svettano in mezzo alla Brianza come una specie di Gotham City in miniatura, una cattedrale di specchi nel deserto dei campi che tra poco, da agricoli, grazie al nuovo piano regolatore di un pirla qualunque che è diventato sindaco, diventeranno edificabili. E allora giù soldi per il nuovo complesso residenziale di villette con finiture scadenti che nessuno di quelli lì in macchina potrà mai permettersi di comprare. L’impresa edile fallirà e nessuno verrà pagato. Non voglio sembrare troppo severo, ma poi è logico che in Brianza tocca spaccarsi di Montenegro o stare a casa a vedere Sky. C’è un cartello da quando sono nato in tangenziale all’altezza di Burago che dice: «Brianza, le ville patrizie». Tipo cartello turistico, ma io ‘ste ville patrizie non le ho mai viste.
Sono nato nel 1979, ho vissuto a Osnago, detta Osnangeles, negli anni Ottanta e Novanta, ero un ragazzino rachitico e con il taglio di capelli sempre sbagliato, che ha avuto la fortuna di vivere una provincia diversa da quella dei giorni nostri. Tutto era più facile. Mentre i politici che verranno spazzati via da Tangentopoli si rubavano anche i soldi destinati ai bambini in Africa, noi vivevamo nel Mulino Bianco. Io ero sempre in giro in bicicletta, all’oratorio, se stavo a casa fuori dalla mia finestra vedevo i campi. E il santuario in cima alla collina di Montevecchia, da cui si vedeva Milano nelle giornate invernali, quelle fredde con il cielo terso, quelle in cui vedi anche il Monte Rosa. Sembrava che quella collina avesse un aspetto antropomorfo, come di uno che vede le meraviglie che succedono in città e se ne sta lì senza parlare, con la bocca aperta e gli occhi sgranati. E noi ai suoi piedi a dire: «Dai, racconta! Dicci che succede in città!».
Torno al 12 A, al mio posto finestrino. Ho messo la confezione di plastica del mio snack salato nel bicchiere di CocaCola, gentilmente offerto dalla compagnia aerea. Tra parentesi (che potevo mettere tra parentesi e invece l’ho scritto, più colloquiale) il gusto degli snack salati è uguale a quello della confezione stessa, cioè nessuno. Mentre la coca è chiaramente allungata con l’acqua. Allora prendo il bicchiere con la confezione di plastica dentro e faccio quella cosa che non si dovrebbe fare, ovvero lo metto nella tasca sul retro del sedile davanti al mio. Alzo il tavolino e il comandante annuncia le procedure di atterraggio. Guardando fuori penso a tutte le esistenze, tutte le vite di provincia che stanno sotto i tetti di quelle macchine in coda. Magari c’è anche Spacamiliòn.
Spacamiliòn è un industriale di Osnago. O meglio era un industriale. Ha fatto la sua fortuna negli Ottanta e Novanta, partendo con una piccola officina siderurgica nel garage di casa. Aveva dei torni e faceva tondini di metallo. Non chiedetemi come ma questo comincia a lavorare così tanto che diventa miliardario. Erano gli anni Novanta e tutto era possibile, ma questo tipo è il vero miracolo brianzolo. Andava in giro con gli zoccoli e le mani sporche di olio e intanto il conto in banca saliva. E non si spendeva una lira. Spacamiliòn aveva una sorella dal sorriso ebete. Lo aiutava in officina. Spesso andava in giro con delle ciocche di capelli che le mancavano dalla testa perché rimanevano incastrate nei macchinari. Tipo alopecia. E quel sorriso ebete, che non ho mai capito se mi metteva tranquillità o mi faceva incazzare. Se la guardavi negli occhi potevi sentire il vuoto nel suo cervello. Avete presente il rumore della neve quando cade? Certo che fa rumore, è un rumore impercettibile, ma se state davvero in silenzio potete sentirlo, un rumore continuo e dello stesso tono. Quello che si chiama un rumore bianco. White noise. Ecco, il rumore nel cervello della sorella di Spacamiliòn era proprio quello. Per questo motivo io l’avevo soprannominata White noise. Spacamiliòn e White noise fanno così tanto grano che decidono di mandare a cagare la vita di prima che gli puzzava di vecchio, proprio come nella sigla di Willy il principe di Bel Air, e farsi una mega villa con piscina riscaldata al coperto, una roba esorbitante che ne parla tutto il paese. Gli affari vanno a gonfie vele e dalla piccola officina siderurgica nel garage Spacamiliòn passa alla fabbrichetta. Sì lei, la mitica fabbrichetta brianzola. Ricchezza, opulenza, ostentazione, piastrelle del bagno veramente brutte, viaggi a Sharm el-Sheikh, posti di lavoro per ragazzi troppo svogliati per andare alle superiori, vestiti di marca ma abbinati male, votare chi fa pagare meno tasse, miliardari come nei film di Vanzina. Ma a Osnago, tremila abitanti, provincia di Lecco. Margine dell’impero. Oggi Spacamiliòn è povero, la sua azienda è fallita, l’unica cosa che gli rimane è una Toyota 4 ruote sterzanti che si è comprato al posto di una Ferrari. Con cui porta in giro una sorella ebete. White noise. Hello China, hello euro.
Dal 12A sento il mio vicino ciccione che mi russa nell’orecchio con il suo alito di vernice e pasta in bianco. Vi giuro che il suo alito, mentre russa con la bocca aperta, è così forte che mi devo mettere la sciarpa. Ma ho tempo, me ne fotto, e guardo giù. Intravedo la storia di Paolo Maggioni. Anni 36, residente in Brugarolo, frazione di Merate, provincia di Lecco. Paolo dopo la terza media è andato a lavorare alla Plastic-five, una fabbrica che stampa involucri per rossetti. Paolo da 22 anni vede passare un pezzo di plastica grezza sotto i suoi occhi, su un nastro trasportatore, e lo vede uscire fuori dalla macchina di cui schiaccia solo un bottone di colore giallo, con la forma di un porta rossetto. Pensa ogni volta a una donna bellissima che lo userà ma tanto lui non se la potrà mai fare. Paolo guadagna 1.200 euro al mese, si sveglia alle 6, va in fabbrica dopo aver salutato sua moglie con cui sta insieme dalle elementari, Giada, e suo figlio, Kevin Lothar Matthäus, figlio che hanno avuto all’età di 16 anni. A mezzogiorno torna a casa a mangiare, circolino a bere l’amaro, fabbrica fino alle 5, circolino a bere un Negroni, cena a casa con moglie e figlio, di nuovo al circolino per l’amaro, alle dieci e mezzo è a letto a dormire, e si ricomincia. Così da 22 anni. Ha la mia età ma sembra più vecchio di dieci anni. Paolo Maggioni ha un sogno, quello di andare in Jamaica e aprire un centro scommesse, così da unire i suoi due più grandi interessi, le scommesse e la ganja.
Paolo giocava bene a calcio, giocava terzino, uno di quei terzini arcigni, con la camminata con i piedi leggermente inclinati verso l’interno, alla Paolo Maldini per intenderci. Poi è nato Kevin Lothar Matthäus, con i nomi dei suoi più grandi idoli, Kevin Schwantz e Lothar Matthäus, e addio calcio. Da lì solo polvere di estruso di plastica grezza nei polmoni, sui vestiti, nelle mani, nel cuore. Adesso guida verso Busto Arsizio per andare a vedere una BMW serie 3 usata, che ha risparmiato i soldi una vita per farsi la macchina, «che il Giacomo Valagussa ce l’ha anche lui, che fa il piastrellista come ‛l fa? Eeeh, al ciapa i danee in nero quel le’... che una uolta nella uita mi uoglio togliere uno sfissio» pensa con il suo accento marcatamente brianzolo.
Prima di atterrare riguardo quell’immensa terra di mezzo, quella provincia che è il 99 per cento d’Italia, con i suoi paesini, i ragazzi in motorino di notte col freddo, i bar con i vecchi senza denti, le coppie che si tradiscono con i migliori amici, le pizzerie arredate male con le luci al neon, i parcheggi dei centri commerciali con gli scambisti, i negozi chiusi, le chiese vuote, i bambini in casa e il vicino che non sai più chi è.
Mi chiedo, si può essere in provincia e sentirsi comunque al centro del mondo? Si può essere in provincia e sentirsi la propria vita in mano senza che venga trasportata in un fiume di luoghi comuni e far sì che ogni giorno sia eccezionale? Far sì che anche oggi non abbia bisogno di guardare il cielo bianco come un lenzuolo e pensare che devo andare a casa a vedere Studio Aperto? O la provincia è uno stato mentale di cui siamo prigionieri, a volte, tutti quanti. Provincia state of mind come direbbero Jay Z e Beyoncé. La guardo, la mia amata provincia, e mi manca così tanto, quanto me la ricordo bella, quando Milano sembrava lontana come New York e il Milan vinceva le Coppe dei Campioni. Mi manca perché non c’è più, al suo posto solo una connessione wifi. Dio quanto mi manca il Novecento.