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 2015  aprile 03 Venerdì calendario

«SE VINCO LO STREGA SONO NEI GUAI»

Zerocalcare, al secolo Michele Rech, ha gli occhi limpidi di un bambino e la timidezza scontrosa di un adolescente. Si sottopone a questa intervista con evidente fatica, appena ingentilita dal senso del dovere. È un autore di successo, anche se lo ammette a malincuore, e sta imparando adesso a convivere con la notorietà che gli è arrivata addosso. Cinque libri in tre anni che hanno venduto quasi cinquecento mila copie, un tratto grafico accattivante, un umorismo tagliente e malinconico che rinnova il cinismo sentimentale dei romani, una fedeltà assoluta al suo mondo volutamente marginale hanno fatto di lui il testimone di una generazione inchiodata al disincanto. Ma il suo ultimo libro, "Dimentica il mio nome", grafic novel che affronta il tema dell’identità e delle radici famigliari, e che stupisce anche i lettori più smaliziati per sapienza inventiva e capacità di introspezione, lo ha catapultato tra i candidati al premio Strega. A suo parere un’assurdità, anzi quasi un dispetto.
Lo Strega è il premio che fu di Flaiano, di Moravia. Come fa a non sentirsene onorato?
«Perché sembra uno scherzo. Persone a cui è piaciuto il mio libro lo hanno voluto segnalare, però vedrà che non supererò neanche la prima selezione».
Davvero non le piacerebbe vincere?
«Non ci voglio neanche pensare. Persino Gipi, che l’anno scorso era tra i primi dodici, non è arrivato alla cinquina. E lui è un maestro, disegna roba che ti trafigge il cuore. Senza contare che ne avrei più guai che vantaggi».
Addirittura. E perché?
«Io appartengo a una tribù di talebani, che guarda con diffidenza ogni rapporto con i media, figuriamoci un premio letterario. Finora sono riuscito a tranquillizzarli. Mi contestano, ma hanno capito che resto un loro ostaggio volontario. Però non sopporterebbero uno sconfinamento così esagerato».
Zero, lei ormai è un uomo adulto, ha trovato la sua strada creativa, ha assaporato il successo, gira il mondo per ritirare premi. Che ci fa ancora nel recinto dei centri sociali?
«Guardi, se qualcuno mi dicesse di scegliere tra tutto questo e la mia comunità, non avrei dubbi. Più vedo il mondo esterno, più mi rendo conto che le uniche cose che contano stanno dentro la mia riserva indiana. Le mete esterne che mi interessano sono soltanto quelle che posso raggiungere insieme a qualcuno del mio gruppo».
Sta parlando di Kobane, dove ha fatto il suo celebre reportage a fumetti?
«Sì, ma non ci sono mica andato per fare il grafic journalism! In quel momento la mia vita virava verso Kobane perché si era messa in moto una campagna di solidarietà. Così ho pensato di ambientarci una storia. Una volta lì, ho anche scoperto che è l’unico luogo, dopo il mio quartiere di Rebibbia, dove potrei vivere tranquillo».
Vivere al confine tra Siria e Turchia, in una città assediata dallo Stato islamico le appare tranquillizzante?
«Se i curdi riuscissero a realizzare pienamente quello che stanno mettendo in piedi a Kobane, non esiterei un attimo a stabilirmici. Lì c’è una rivoluzione che mette al centro la donna, la redistribuzione del reddito, l’ecologia. Non dovremmo soltanto aiutarli, ma copiarli! E poi a Kobane ho finalmente dormito otto ore di seguito, per terra, in un sacco a pelo, con il rumore ravvicinato delle bombe. Io, che sono un insonne cronico capace di stare sveglio tre notti di seguito, fino alle allucinazioni».
Non ha provato ad aiutarsi con qualche farmaco?
«Non se ne parla. Faccio parte di quella branca dei punk, gli straight edge, che non assume sostanze che creano dipendenza. Niente alcool, niente fumo, niente droga, niente sesso occasionale. Su questo siamo dei veri combattenti».
Lei proviene da una famiglia medio borghese, ha studiato alla Chateaubriand, l’esclusiva scuola francese di Roma. Quando è stato che ha cominciato a combattere?
«Intanto allo Chateaubriand ci sono andato perché sono di nazionalità francese, come mia madre, e quindi senza pagare niente. E mi sono sempre tenuto alla larga dagli studenti italiani che vengono messi lì da famiglie un po’ stronze, solo perché fa chic. Poi, se vuol sapere quand’è che ho perso l’innocenza, è stato al G8 di Genova del 2001».
È un’esperienza che ha segnato molti ragazzi della sua generazione. A lei come è andata?
«Mi sono saltati tutti gli schemi. Non che prima non sapessi che in piazza si pigliano schiaffi, ma c’erano dei criteri e seguivo il consiglio di mia madre: "Se finisci nei guai, fatti arrestare, almeno in galera sei tutelato". Per fortuna ho fiutato l’aria, ho dormito in un giardino e mi sono risparmiato i massacri notturni. Però ho preso botte dalla Guardia Forestale, a cui ci eravamo avvicinato per sentirci protetti. Ha capito? Siamo andati da quelli buoni e loro ci hanno pestato al grido di "Voi qua ci dovete morire!"».
Ha disegnato questa storia?
«Sì, ma anni dopo. All’inizio facevo copertine di dischi e locandine per i nostri concerti. Mi sono avvicinato al fumetto non come lavoro, ma come contributo alla scena che frequento, e l’ho sempre vista come una cosa pochissimo retribuita».
E invece sta guadagnando molti soldi con i diritti d’autore. Come li spende?
«Li metto al pizzo per quando finirà tutto».
Perché dovrebbe finire? Ha appena cominciato e non è ancora all’apice del successo.
«Perché è evidente che il mio è un fenomeno destinato a sgonfiarsi. Ho trovato un linguaggio e so usare solo quello, prima o poi la gente si stuferà. E poi non mi abituo a questa storia del successo. A un certo punto farò qualcosa di incompatibile, nessuno mi inviterà più, e tornerò ad essere uno dei reietti».
Intanto però disegna storie che potrebbero renderlo ancora più famoso. Lei sa parlare con ironia discreta di fragilità umane, di sensi di colpa, di morte.
«La morte spesso mi fa da stimolo. Il mio primo libro l’ho scritto dopo il suicidio di un’amica. Ero stato distratto con lei, non avevo neanche risposto alla sua ultima mail in cui mi chiedeva ospitalità. Nella mia comunità ci sono riti per tramandare la memoria di chi muore: facciamo manifesti, scritte sui muri, ogni anno un concerto in quella data. Ma lei era di un altro ambiente. Così l’ho messa su carta perché rimanesse con noi. L’ho fatto anche con "Dimentica il mio nome" dopo la morte di mia nonna, donna affascinante che era stata moglie di un uomo vicino ai nazisti, forse collaborazionista, forse abile truffatore. Un mistero che ha pesato sulla mia famiglia».
E ha fatto un boom di vendite. Ora non piace più soltanto alla sua generazione. Ne è compiaciuto?
«Non sempre. Ho visto alcune "sentinelle in piedi" con i miei libri in mano, proprio durante una delle loro lugubri veglie. Mi è preso un colpo. Che ci possono trovare nel mio lavoro questi fondamentalisti dell’etica religiosa? Poi mi sono detto che la contraddizione è loro, mica devo accollarmela io!».
A proposito di fondamentalismi, che pensa dell’eccidio di Charlie Hebdo? Come francese e come disegnatore ne dovrebbe essere stato doppiamente colpito.
«Ovviamente è stato un orrore ingiustificabile, però conosco bene la frattura sociale che c’è in Francia. Una parte della popolazione si percepisce come di serie B e fa della religione musulmana il proprio elemento identitario. Se un giornale mainstream di bianchi borghesi fa satira su questa religione, la cittadinanza di serie B non può che viverla come una prepotenza. Tu hai il diritto di fare satira e di non essere ammazzato, ma hai anche il dovere di tener conto che stai offendendo quei reietti».
Un’ultima curiosità. Viste le sue idee, come mai non ha ancora ambientato un fumetto nel mondo della politica?
«Perché penso che la politica non la fanno gli individui, ma i gruppi, le collettività, le assemblee, le comunità. Non voglio essere una primadonna che si sveglia la mattina e dice la sua. La mia politica è quella che si fa dal basso, tutti insieme».