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 2015  marzo 30 Lunedì calendario

LA DROGA DEL LAVORO PER MANAGER E PROFESSIONISTI

Sono i nuovi “schiavi” del lavoro. Non più operai cinesi a basso costo ma manager e professionisti in giacca e cravatta. Impenitenti workaholics convinti che la fatica sia una fede. Nel loro credo eterne riunioni, e nottate alla scrivania, fanno schizzare la produttività. Uno studio della National Sleep Foundation dimostra come il 38% di manager e professionisti americani, sottoposti ad una cultura dell’eccesso, sgobbino più di 50 ore la settimana. In Italia l’Area Organizzazione & Personale Bocconi ha indagato sulle abitudine lavorative dei manager con la ricerca “Ri-energizzare le organizzazioni”. «Il quadro emerso è che il 60% dei manager da noi intervistati s’impegna più di 40 ore la settimana (di questi il 75% sono maschi e il 53% donne) — racconta Massimo Magni, che l’Area la dirige — il 52% si porta i “compiti” a casa e circa il 50% è occupato anche nel week-end, l’80% si sente costantemente on-call e più del 70% pensa che la professione interferisca sulla vita privata». Una dittatura senza ribelli. «La situazione economica generale, con una riduzione del personale, ha portato ad una ridistribuzione del carico — aggiunge Magni — ma soprattutto scontiamo una sorta di fedeltà all’organizzazione degenerata in “contagio sociale” per cui le riunioni serali, o il lavoro del sabato, sono la regola. L’identità professionale diventa fondamentale per la propria autostima, le persone non riescono a valutarsi se non perché legate al ruolo». Peccato che sempre più studi dimostrino però come i risultati migliori si ottengono con il cosiddetto work life balance: lavorare meglio calibrando le energie e non scordando la qualità della vita. E lo Stanford institute for economic policy research ha dimostrato come un ritmo ossessivo, pari a 10 ore d’impegno al giorno, si traduce in una perdita di produttività pari al 25% rispetto alle 40 ore standard. Ecco cosa ne pensano alcuni di quelli che si trovano in posizione di vertice. «Nella consulenza i tempi sono sempre più stretti e la competizione più aggressiva: l’effetto è dover lavorare con meno agio sulle risorse in campo — ammette Federico Capeci, chief digital officer and ceo Italy di Tns (azienda di consulenza e ricerche di mercato) — però chi ottimizza i processi ed evita gli sprechi può smettere di chiedere ai dipendenti orari assurdi. Ci sono momenti di picco ma in altri riusciamo a recuperare, l’idea è gestire i propri tempi e sforzi a seconda dei flussi del mercato ». In TNS l’orario è flessibile e i dipendenti possono entrare dalle 8 alle 10.30. «Il nostro è un lavoro di cervello e non è sostenibile un carico cognitivo continuativo per ore — continua Capeci — c’è chi fa tardi la sera e chi ha necessità di fare tante pause. Io sono per l’orario elastico e approvo chi lavora senza soste per uscire prima, ma anche chi ha bisogno di una pausa dopo un’ora e si trattiene fino a tardi». Un workaholic pentito è Bruno Errico, responsabile sviluppo business per Beeweeb, azienda che offre soluzioni digitali avanzate: «Da 5 anni mi sono disintossicato ponendo un limite ai fuori orario e cercando di stabilire un confine tra privato e lavoro. Per chi opera nel campo delle soluzioni digitali è impensabile porsi degli orari rigidi e fissare il limite a 8 ore, ma bisogna comunque stabilire una barriera e rispettarla». E il resto del team? «Con il team è importante creare un’empatia per sforare gli orari quando si sta chiudendo un accordo facendo in modo che l’obiettivo finale sia condiviso con tutti, così il responsabile non diventa un carnefice». In passato Errico ha più volte superato il limite: «Nelle mie esperienze con aziende multinazionali, il sistema spingeva manager e dipendenti in carriera a lavorare senza limiti di orario, ma senza una vera focalizzazione sulle priorità a scapito della produttività stessa. Credo che lavorare per obiettivi, rispettando le esigenze personali, sia un modello produttivo dai risultati migliori». Stessa opinione da Mariano Corso, professore di Organizzazione e Risorse Umane al Politecnico di Milano: «Viviamo uno scorretto presenzialismo che premia chi sta più tempo in ufficio e chi è sempre disponibile. C’è una difficoltà a disconnettersi e a riprendersi gli spazi e paradossalmente le nuove tecnologie, che dovrebbero aiutarci, ci stressano di più». La “work intensification”, autentica patologia dei nostri tempi, fa decrescere la qualità del prodotto. «Chi lavora oltre il limite — diagnostica Corso — è meno creativo, incapace di generare rapporti umani positivi. Chi gestisce banche e aziende dovrebbe valutare il capitale umano ma fallisce se non capisce, come accade per una macchina, che stressando il motore si rompe». È lucida l’analisi di Corso: «Il tempo per ricaricarsi nella cultura fordista è considerato uno spreco ed è più furbo chi spreme i dipendenti, peccato che la vera eccellenza non si potrà mai ottenere in 10 ore di lavoro. I capi devono avere l’intelligenza di ricordare che per essere una persona migliore bisogna lavorare meglio». Abbiamo perso il “virtuality”, cioè corretto bilanciamento tra creatività, riposo, concentrazione e socialità? «Per ottimizzare e valorizzare il lavoro di tutti ci siamo dati un’organizzazione basata su circoli tematici dove si affrontano le decisioni strategiche e si definisce una programmazione – spiega – Giovanna Manzi, ceo di Best Western Italia. Pianifichiamo scadenze e priorità così anche la gestione delle emergenze diventa meno onerosa, il lavoro-extra si minimizza e si rispetta il work-life balance». Anche per la Manzi i tour de force non hanno senso: «La produttività è proporzionale all’entusiasmo. In dieci anni da ceo ho sperimentato che un quarto d’ora può davvero essere molto più efficace di una nottata a rivedere slide e grafici. Siamo usciti da tempo dalla logica del cartellino: di certo per me da manager vale di più il risultato che si porta piuttosto che la presenza al desk».
Irene Maria Scalise, Affari&Finanza – la Repubblica 30/3/2015