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 2015  marzo 30 Lunedì calendario

LONDRA-CHICAGO, LA BATTAGLIA DEL CIOCCOLATO

Sono fra i pochissimi soggetti economici del mondo a lamentarsi del quantitative easing. Ma sono soggetti importanti. Le due Borse dei futures più importanti del pianeta, Londra e Chicago, vivono fasi inversamente proporzionali all’euforia per l’immissione in massa di valuta nei rispettivi sistemi: quando c’è il Qe i tassi tendono ad appiattirsi verso lo zero, se non al di sotto, per un periodo considerevole. Così la speculazione vive un momento di stasi. E cos’altro se non la pura speculazione muove i mercati dei futures? Qui c’è la miglior prova: da quando il Qeè finito in America e la Fed ha fatto capire che alzerà i tassi, ottobre 2014, il Chicago Mercantile Exchange ha guadagnato il 29% come volume delle contrattazioni. Da quando si è cominciato a parlare di Qe in Europa, e ancor più da quando si fa sul serio cioè da un mese, il Liffe (London International Financial & Futures Exchange) ha perso il 13% degli affari. Londra è fuori dall’area euro, ma i suoi interessi sono concentrati comunque sul continente. Il malessere si diffonde: ne soffrono per primi ovviamente i futures e le speculazioni sui cambi, i tassi e gli indici, ma poi via via per osmosi le tensioni si diffondono a tutti gli altri futures a partire da quelli sulle commodities. Tecnicamente si dice che diminuisce la domanda di prodotti hedging a breve termine, cioè di protezione contro i sobbalzi del mercato per il semplice motivo che questi balzi non ci sono. Ora Londra spera nelle larvate intenzioni della Bank of England di alzare i tassi, ma intanto è scoppiata la guerra fra le due Borse, che cercano necessariamente di allargare il proprio mercato accaparrandosi l’esclusiva, o perlomeno una fetta significativa, su questo o quel contratto di commodities. L’ultima battaglia è scoppiata sul cacao, che era stato uno dei protagonisti del “super-ciclo” delle commodities fino a due anni fa e poi ha cominciato un periodo di forte erraticità. Ora entrambi i mercati hanno lanciato, con decorrenza 1° aprile, un nuovo future su questa pregiata commodity considerata dagli operatori un benchmark per il settore agricolo. I due mercati controllano il 70% della produzione mondiale, utilizzata da un’industria che vale 150 miliardi di dollari. Il contratto sarà denominato per la prima volta in euro, con l’obiettivo di ridurre le transazioni intermedie e quindi i rischi connessi con il fatto che ormai la maggior parte dei mercati d’origine (Costa d’Avorio, Congo, Guinea Equatoriale, Ghana, Nigeria, Niger, Camerun, Sierra Leone, Togo) s’identifica più con l’euro che con le due valute di riferimento di Chicago e Londra, dollaro e sterlina. I contratti in queste due valute devono essere poi riconvertiti in euro e si cumulano i passaggi. Un’offerta commerciale lanciata sul mercato, vedremo i trader come l’accoglieranno. Tutto tranquillo, allora? Macché: a parte la rivalità fra i due mercati, per qualche meccanismo comunicativo è scoppiato un caso internazionale. Il motivo sta nell’elenco dei produttori pubblicato qualche riga sopra: sono esattamente i Paesi più poveri del mondo, e si è scoperto in questa circostanza che ai farmer locali va non più del 5-6% del prezzo finale del contratto. Una somma che in molti casi non arriva ai due dollari per quintale. Si consideri che un agricoltore in Costa d’Avorio guadagna in media 0,50 dollari al giorno, e 0,84 in Ghana. Senza contare guerre, epidemie, carestie, colpi di Stato, che sistematicamente flagellano l’Africa centro-occidentale. Paradossalmente, tutto ciò accade mentre la domanda mondiale di cacao eccede di almeno il 20% (dato World Bank) l’offerta. Vuol dire che se si riuscisse a stabilire un flusso sicuro e continuo di materia prima si potrebbe diffondere finalmente un’adeguata ricchezza in quell’angolo sciagurato del mondo. «Negli ultimi mesi del 2014 – si legge nello studio “Cocoa barometer 2015” della società di consulenza inglese Voice – si è sparso fra gli appassionati un terrore: resteremo senza cioccolato? State tranquilli, non sarà così. Ma i Paesi più sfortunati del pianeta rischiano di restare senza coltivatori di cacao. Appena possibile abbandoneranno un’attività che non gli permette di uscire dalla povertà, stritolati fra gli intermediari finanziari che si prendono il 60% dei prodotti e le aziende manifatturiere che si accaparrano un altro 35%. Il problema è cosa potranno mai fare». L’aspetto confortante del caso è l’insperata sensibilità, non si sa quanto pelosa, che stanno dimostrando gli stessi protagonisti. «Abbiamo lanciato il contratto in euro proprio per risolvere i problemi che affliggono il mercato del cacao», ha spiegato Jeffry Kuijpers, direttore esecutivo del Chicago Mercantile Exchange, conosciuto come “Fortezza Chicago” da quando ha acquisito nel 2007 il Chicago Board of Trade e nel 2008 il meno rilevante New York Mercantile Exchange (Nymex). E da Londra fanno sapere che a falsare la catena del valore sono soprattutto le disposizioni regolatorie intervenute nell’ultimo anno su un più stringente obbligo di consegna fisica delle merci, che comportano lunghe attese per smaltire le scorte dei magazzini, ingenti spese per conservare il prodotto e una serie di altre disfunzioni tecniche che fanno lievitare i costi operativi e diminuiscono gli utili per i venditori originari. Intanto, entrambi i mercati cercano di stabilire rapporti con i grandi acquirenti di cacao, ovvero i produttori mondiali di cioccolata: il primo fra questi è l’americana Mars che utilizza per le sue barrette e le sue merendine il 22% di tutto il cacao esportato nel mondo (non solo dall’Africa ma anche dal Latinoamerica), la seconda è l’altra americana Mondelez con il 21%, la terza è la svizzera Nestlè con il 17%. Seguono in questa classifica la Hershey Food (Usa) con il 9%, la Ferrero con il 7, e poi con quote minori l’altra svizzera Lindt, la turca Yildiz, la tedesca August Storck. Un numero limitato di grandi operatori, che indebolisce tra l’altro, stando allo studio sopra citato, la posizione degli agricoltori, «anche se le major del settore affermano che il processo di fissazione dei prezzi è al di là della loro sfera di influenza». Di fatto comunque starà a queste multinazionali stabilire i destini di questa gara fra le due Borse merci, scegliendo quale dei due contratti in euro utilizzare. Per ora prevale fra i trader la prudenza: «Vediamo quando i contratti saranno operativi», dice Jonathan Parkman, capo degli “agricoli” nella casa di brokeraggio di commodities Marex Spectron. «Secondo me ci sarà in periodo di diminuzione del trading dovuto alle incertezze». Come in ogni disputa commerciale, e più che mai qui che c’è un settore tradizionalmente avverso alle innovazioni, ci sono anche le offerte promozionali, ed entrambi i mercati hanno lanciato una serie di incentivi e sconti per chi sceglierà il nuovo contratto. E già si accettano scommesse su un sicuro perdente: i vecchi gloriosi contratti in sterline. Raccoglitori di cacao in Sierra Leone, uno dei Paesi più poveri del mondo. A loro non riesce ad arrivare che un’infinitesima parte degli enormi profitti derivanti dalla materia prima.
Eugenio Occorsio, Affari&Finanza – la Repubblica 30/3/2015