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 2015  marzo 30 Lunedì calendario

TROPPA FINANZA DIVORA L’ECONOMIA

Per un buon numero di decenni gli economisti, compreso chi vi parla, hanno scritto e insegnato che lo sviluppo delle strutture finanziarie influisce positivamente sulla crescita reale delle economie. Poiché questo rapporto positivo si dava per accertato, il dibattito tra gli economisti si spostava alle modalità dello sviluppo finanziario più adatte a favorire la crescita dell’economia reale. Ci si chiedeva se un modo di sviluppo finanziario che si realizza facendo crescere mercati sempre più ampi, profondi ed efficienti, fosse superiore ad un modo di sviluppo che invece privilegia la crescita di istituzioni come le banche universali, che sono quelle che si dedicano anche a far nascere e crescere le imprese mediante partecipazioni dirette in esse. Spinta dalla gravità della crisi, sembra ora prevalere la visione opposta. Si afferma che lo sviluppo del settore finanziario, a prescindere dalle sue caratteristiche, avviene a scapito della crescita della economia reale. Quindi, la crescita del settore finanziario è negativamente correlata con quella dell’economia reale, dell’industria e dei commerci di un Paese. Opinioni di questo tipo non sono manifestate da economisti della sinistra estrema o della destra estrema, quelli per intendersi che hanno sempre visto il capitalismo finanziario come una piovra che succhia il sangue al settore reale e ai suoi protagonisti, imprenditori o lavoratori che essi siano. La finanziarizzazione eccessiva è ora deprecata anche da coloro che avevano, in passato, creduto nello sviluppo virtuoso delle strutture finanziarie. Lo si fa sulla base di ragionamenti fondati sul potere del grande oligopolio finanziario internazionale che si è formato negli ultimi decenni. Esso è visto come conseguenza della prima crisi del petrolio e degli effetti negativi che essa ha indotto su buona parte dei conti esteri dei paesi sviluppati. A causa delle liberalizzazioni delle attività finanziarie, effettuate per attrarre capitali sufficienti a riequilibrare i conti esteri messi in crisi dall’aumento dei prezzi del petrolio, l’oligopolio finanziario internazionale che si è formato ha potuto fissare i prezzi dei suoi servizi e sottrarre, per la maggior redditività che riesce così a esprimere, sia risorse finanziarie a chi, come molte attività industriali, riesce a remunerarle meno, sia risorse umane di maggior valore, perché riesce a pagarle meglio. Nei settori non finanziari, i manager pagati meglio non sono più quelli addetti alla ricerca o alla organizzazione della produzione, ma quelli che fanno da interfaccia alle istituzioni finanziarie e cercano di ottenere condizioni più favorevoli per le risorse che devono investire. O quelli che all’interno delle loro imprese, ’fanno finanza’, ad esempio nelle divisioni delle medesime imprese che si dedicano ad attività di ricerca e collocazione di risorse finanziarie tramite i mercati. Non deve meravigliare, quindi, se persino un pilastro delle istituzioni finanziarie mondiali, come la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea, può giungere a pubblicare, come ha appena fatto, uno studio firmato da Steven Cecchetti, capo del suo ufficio studi fino a qualche mese fa, nel quale, ricorrendo anche al conforto di sofisticate analisi statistiche, si sostiene che la crescita del settore finanziario coincide, nei paesi sviluppati, con una diminuzione del tasso di crescita dell’economia reale. Il motivo, secondo lo studio citato, è che il settore finanziario, per espandersi velocemente, e anche per diminuire i rischi, concede crediti ai settori più patrimonializzati dell’economia reale. Ad essi risulta più facile l’uso del patrimonio come collaterale per i prestiti. Tali settori sono caratterizzati da bassa crescita della produttività e da elevata capitalizzazione. Cecchetti ha in mente innanzitutto il settore dell’edilizia, che ha molto peso nella struttura del capitale dei paesi sviluppati e risulta storicamente coinvolto nella gran parte degli episodi nei quali la crescita rallenta e nelle più gravi crisi che hanno gravemente disturbato il funzionamento delle economie sviluppate negli ultimi due secoli. Comunque la si voglia guardare, la crisi attuale ha riportato in auge le opinioni di coloro che vedono l’economia reale assediata e spesso espugnata da una classe di capitalisti finanziari che prevale su quella degli imprenditori industriali e commerciali. Vengono quindi alla mente le grandi visioni dello sviluppo capitalistico internazionale, come quelle di Fernand Braudel o del suo ammiratore e discepolo Giovanni Arrighi. La dinamica degli spostamenti dei centri del potere economico internazionale è da essi vista come una conseguenza della trasformazione dei capitalisti industriali in capitalisti finanziari, che apparentemente ha causato la dinamica delle egemonie mondiali fino a quella americana. Negli anni più recenti sarebbe addirittura responsabile del trasferimento dell’egemonia verso Oriente, col ritorno del centro dell’economia mondiale dove esso risiede per molti secoli nel passato. Sarebbe essa ad avere causato i grandi squilibri che hanno dato luogo alla crisi attuale. La crescita dell’economia finanziaria, a prescindere dalle considerazioni sulla collateralizzazione della quale si è velocemente dato conto, sembra avere assunto, una volta ancora, le caratteristiche di una accelerazione del processo di innovazione finanziaria. Ma è una innovazione che ha come scopo una sottrazione sempre maggiore del potere finanziario al controllo degli Stati per la maggior fluidità delle risorse finanziarie, cioè della loro maggior capacità di muoversi tra Stati diversi. O addirittura di migrare, per motivi specialmente di evasione o elusione fiscale, verso centri off-shore, che in effetti sono spesso ’la mano sinistra di Dio’ delle grandi piazze finanziarie poste almeno formalmente sotto la sovranità di grandi Stati nazionali.
Marcello De Cecco, Affari&Finanza – la Repubblica 30/3/2015