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 2015  marzo 30 Lunedì calendario

LA DIFESA DI TRONCHETTI “COSÌ HO SALVATO LA MIA PIRELLI DAI FONDI LOCUSTA”

Ha rimesso in carreggiata l’azienda che rischiava il collasso dopo la fallita scalata alla Continental ed è riuscito a incassare 4,8 miliardi di dollari da Cisco e Corning sfruttando la bolla finanziaria del 2000. Dopodiché ha fatto perdere 3,2 miliardi alla Pirelli con l’investimento quinquennale in Telecom; ha venduto Pirelli Cavi oggi diventata una public company valutata oltre 4 miliardi; ha creato e poi dismesso con perdite il business immobiliare iniziato sui terreni della Bicocca; ha cavalcato la crescita dei mercati emergenti portando la capitalizzazione Pirelli da 1,4 a 7,1 miliardi dal 2008 a oggi; ha sempre controllato l’azienda con pochi capitali esercitando il doppio ruolo di manager e azionista con trasferimenti di valore tra un piano e l’altro; ha sbagliato la scelta del compagno di viaggio Malacalza che doveva affiancarlo nello sviluppo dell’azienda; si è portato in casa i russi di Rosneft e ora sta vendendo il 51% ai cinesi di Chem-China mantenendo la gestione in mano italiana. Insomma non è sicuramente facile giudicare l’operato di Marco Tronchetti Provera nei suoi 24 anni di permanenza al vertice della Pirelli e come protagonista del centro di potere che gravitava intorno a Mediobanca. È una carriera contrassegnata da luci e ombre, battaglie legali e di comunicazione, alle quali ha sempre dedicato ingenti risorse. Le sue scelte hanno sempre diviso gli addetti ai lavori e l’opinione pubblica, come quando nel settembre 2006 si dimise da presidente Telecom, senza prendere buonuscita ma con il fiato sul collo della magistratura e in forte polemica con il governo Prodi che aveva cercato di ostacolare i suoi programmi di sviluppo. E anche oggi, a pochi giorni dall’annuncio dell’accordo con i cinesi la strada seguita non è standard, ma sicuramente estrosa e con una buona dose di incertezza riguardo il futuro di un’azienda che può e deve essere considerata un patrimonio industriale del paese oltre che dei suoi azionisti di riferimento. Come spesso accade nel delicato mondo della comunicazione il modo migliore per far digerire un’operazione controversa è quello di agitare lo spettro di un’alternativa molto peggiore. Ecco allora Tronchetti dichiarare ai media che la Pirelli era esposta al rischio predatorio dei fondi ’locusta’ che hanno l’abitudine di entrare in un’azienda, indebitarla, licenziare i dipendenti e spezzettarla con il solo intento di fare profitti. La soluzione? Quella che in un impeto dialettico il banchiere Gaetano Miccichè ha definito ’terza via del capitalismo’, seguendo la quale capitali esteri – nel caso specifico quelli pubblici di ChemChina – pari alla non stupefacente cifra di 2,2 miliardi (più altri 4 di debiti che andranno a scaricarsi sull’azienda) si assicureranno il 51% lasciando agli italiani la guida operativa dell’azienda. «Questo è il futuro di Pirelli – ha detto Tronchetti –. Nell’azionariato ci sono azionisti italiani, russi e cinesi ma così è stata protetta la tecnologia italiana». Arriviamo dunque al secondo punto: in Pirelli c’è un problema di difesa della tecnologia che finora non era mai emerso con il giusto vigore e che il controllo al 26,2% in coabitazione con i russi di Rosneft (braccio economico di Putin presente anche nella Saras dei Moratti) non protegge a sufficienza. Meglio fidarsi di Ren Jianxin, numero uno di ChemChina, venuto in Italia tre anni fa per comunicare di persona che voleva comprare tutta la Pirelli. Si spera per l’azienda che Tronchetti questa volta ci abbia visto giusto e tra un po’ non comincino le diatribe legali come è stato con la famiglia Malacalza. Ma con Jianxin Tronchetti condivide una “visione” industriale. Cioè la possibilità di sviluppare una aggregazione nel settore Industrial tra le attività di Pirelli e di ChemChina. Una liaison in grado di sprigionare le potenzialità ancora inespresse sui mercati asiatici degli pneumatici ’truck’. La visione comune darà il controllo ai cinesi, i russi di Rosneft incasseranno subito 300 milioni, Tronchetti guiderà la Pirelli e sceglierà il suo successore ma non sono previsti investimenti in Italia e l’azienda verrà imbottita di debiti. Il gioco vale la candela? Per chi ha promosso l’operazione sicuramente sì ma la risposta si potrà dare soltanto tra cinque anni, quando si conoscerà il reale stato di salute della Bicocca. Il rientro dell’azienda in Borsa sarà la cartina di tornasole per capire il risultato della terza era del capitalismo. Non si esclude un braccio di ferro con i cinesi nel caso nessuno dei soci voglia vendere e si debba procedere a un aumento di capitale a favore del mercato, che costringerebbe ChemChina a scendere controvoglia sotto il 51% restando comunque il primo azionista. L’idea che frulla nella mente di Tronchetti è di arrivare al momento della quotazione con una compagine azionaria italiana sufficientemente forte per giocare testa a testa con i cinesi lasciando il mercato a fare da ago della bilancia. Se riuscirà nel suo intento senza finire schiacciato nella morsa sino-russa bisognerà riconoscergli grande abilità e lungimiranza manageriale, avendo battezzato e indicato una nuova via di sviluppo per le imprese italiane. Se invece la Pirelli finirà semplicemente in mani cinesi e i soci italiani a casa pieni di soldi allora il giudizio complessivo su Tronchetti sarà sicuramente da rivedere al ribasso. Ma è vero che non esistevano alternative all’arrivo dei cinesi? No. Tronchetti ha perso l’occasione di far grande la Pirelli nel 2000, quando decise di investire tutte le risorse ottenute da Cisco e Corning (inclusa la sua stock option di 133 milioni) nella malaugurata avventura Telecom. Se quei 4,8 miliardi di dollari fossero stati impiegati nell’acquisizione di aziende del settore gomme o del settore cavi invece che in un asset swap con un’azienda da 30 miliardi di ricavi basati sulle bollette telefoniche, la storia dell’azienda milanese sarebbe stata diversa. Il modello public company, sviluppato da Valerio Battista con Prysmian (ex Pirelli Cavi) dal 2005 in poi, poteva a maggior ragione essere sposato dalla stessa Pirelli ma avrebbe nel tempo messo in tensione la struttura finanziaria della Camfin e interrotto il legame azionista-manager che tante polemiche ha sollevato. Un costo implicito che Tronchetti non ha mai voluto prendere in considerazione. Tronchetti ha da tempo allentato il rapporto con Mediobanca, nonostante sia ancora vicepresidente. L’operazione cinese è stata studiata con la Lazard guidata da Marco Samaja, che l’aveva seguito nei difficili riassetti seguiti al litigio con i Malacalza. Scomparso lo scudo protettivo di Mediobanca, Tronchetti avrebbe potuto applicare alla Pirelli lo schema Fiat, introducendo le azioni a voto multiplo approvate recentemente dall’ordinamento italiano. Con questo meccanismo la Camfin sarebbe riuscita a controllare l’azienda a fronte di un’eventuale diluizione come sta facendo la Exor con Fca e forse Ferrari. Un ritorno al passato in memoria dei patti di sindacato? Le opinioni sono diverse ma è un fatto che negli Stati Uniti, il mercato più liberista del mondo, ben 300 società quotate hanno azioni di categoria A e B per dare stabilità agli azionisti di controllo. Aziende non vecchie come Google le adottano, e gli investitori istituzionali continuano a metterci soldi perché la stabilità dell’azionariato può rappresentare un valore. E in Francia le azioni a voto multiplo sono previste per legge. La terza opzione che aveva Tronchetti, la più lontana dal suo credo liberal-privatistico, era di rivolgersi al Fondo Strategico Italiano, creato per puntellare le società strategiche che rischiano di passare di mano. L’operazione Ansaldo Energia, con il 45% mantenuto dal Fondo e il 40% in mano a Shangai Electric con due joint venture sui mercati asiatici, è un esempio. Ma la diffidenza di Tronchetti nei confronti dello stato imprenditore è massima, sulla sua pelle è impresso quel fogliettino scritto a mano da Angelo Rovati con cui nell’estate 2006 il governo Prodi tentava di sfilargli la rete Telecom. E allora per lui meglio lo stato cinese, sempre che sia più affidabile di quello italiano.
Giovanni Pons, Affari&Finanza – la Repubblica 30/3/2015