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 2015  marzo 29 Domenica calendario

ZLATAN, STORIA SENTIMENTALE DEL TRADITORE-TIPO

«In quindici anni di calcio, non ho mai visto un arbitro peggiore di questo, in questo Paese di merda». Quando Zlatan Ibrahimovic ha pronunciato queste parole, lo scorso 14 marzo, dopo la partita persa dal Paris Saint Germain al Bordeaux, in molti hanno pensato che la storia si stesse ripetendo, per l’ennesima volta, che stesse imboccando quel crinale pericoloso che il centravanti di Rosengard, Malmoe ha già incrociato più volte.
Perché Ibra è un traditore seriale, fedele solo a sua moglie Helena, di undici anni più vecchia di lui. Uno che assomiglia a quelle ragazze che sai già come finirà nel momento in cui le conosci. Di quelle che gli amici ti dicono di lasciar perdere. Di quelle che alla fine ti convincono che questa volta sarà diverso, che la potrai cambiare, che stavolta sarà per sempre. E che alla fine ti lasceranno, come previsto. Con l’unico retrogusto dolce di essere stato lasciato in un modo diverso, a suo modo unico. Esattamente com’è capitato a tutti gli altri.
I tifosi dell’Ajax sono stati i primi a essere lasciati da Ibra. E forse, come tutti i primi amori, è stato l’addio più crudele e doloroso. È il 18 agosto del 2004. Quella sera si gioca l’amichevole Olanda-Svezia. L’allora ventiduenne Ibrahimovic, è il centravanti dell’Ajax, il suo uomo simbolo. Rafael Van der Vaart, olandese, è il suo capitano. I due non si amano. Al quinto minuto, Ibrahimovic danza col pallone al limite dell’area di rigore, pressato dal difensore olandese John Heitinga alla ricerca di un pertugio per tirare. Van der Vaart arriva da dietro, a dare man forte al compagno. Nello sterzare, Ibra va a martello sul polpaccio di quest’ultimo.
Apriti cielo: Van der Vaart accusa Ibra di avergli fatto del male intenzionalmente. Ibrahimovic prima si scusa, si difende, dice di non averlo fatto apposta. Poi, di fronte ai compagni di squadra, minaccia il compagno: «Se provi ancora ad accusarmi, ti spezzo tutt’e due le gambe, e questa volta di proposito». La squadra, tranne alcuni stranieri, prende le difese del suo capitano, allenatore compreso. Ibra è solo. Dà mandato al suo procuratore Mino Raiola di trovargli una squadra, e Raiola gli trova la Juventus di Luciano Moggi.
Il trasferimento è fissato per il 30 agosto. Prima, il 22, c’è la partita tra l’Ajax e Nac Breda. Van der Vaart è in tribuna e per lui ci sono cori e ovazioni. Zlatan è in campo e per lui sono solo fischi. I tifosi e Van der Vaart, probabilmente, sperano di vederlo uscire dal campo a testa bassa. Ibra, invece, gli regala il più crudele degli ultimi baci.
Ibra segna uno dei gol più pazzeschi della storia del calcio, dribblando in venti metri l’intera difesa avversaria: «Tutti esultavano e urlavano, tutti erano in piedi e saltavano - racconta Zlatan nella sua autobiografia “Io, Ibra” -, tutti tranne uno, ovviamente. La telecamera fece una carrellata sugli spalti fino ad arrivare su Rafael Van der Vaart. Stava seduto lì in tribuna, rigido. Era rimasto completamente impassibile, nonostante il gol, come se il mio show fosse stata la cosa peggiore che potesse succede. Forse era effettivamente così. Quel gol era il mio grazie e arrivederci e andatevene pure all’inferno».
Arriva la Juventus, quindi. Pane per i denti di Zlatan. Moggi è famoso per vendere a peso d’oro i suoi campioni e vincere ancora di più. Qualche anno prima era toccato a Zidane. Via lui, la Juve aveva costruito uno dei suoi cicli più vincenti di sempre con Thuram, Nedved e Buffon. Anche con Ibra la Juve vince due scudetti di fila. Ibra, però, sembra uno dei tanti, li in mezzo. Tanto che Capello lo alterna con Del Piero e Moggi nicchia sul rinnovo del contratto. Il destino è in agguato. Le intercettazioni di Calciopoli scoperchiano il sistema di potere di Lucky Luciano. Alla Juve vengono tolti gli scudetti e la serie A. Nedved, Del Piero, Trezeguet, Buffon, Camoranesi accettano di accompagnare la Vecchia Signora in serie B. Altri, come Cannavaro e Emerson se ne vanno lontano, al Real Madrid. Ibra non ci pensa due volte. E come una giovane ereditiera sposata a un vecchio magnate caduto in disgrazia, lo lascia per il suo peggior nemico. Nella fattispecie, l’odiata Inter di Massimo Moratti.
All’Inter, Ibra ricomincia immediatamente a vincere. Gli scudetti di fila sono tre, che si sommano ai due vinti con l’Ajax e ai due - seppur revocati -. con la Juventus. In totale fanno sette campionati vinti di fila. Una serie aperta che fa impressione. In nerazzurro, probabilmente si vede il miglior Ibrahimovic di sempre: gol incredibili, assist pregiati, ma soprattutto un carisma enorme da uomo squadra. Memorabili sono gli ultimi quaranta minuti del campionato 2007-2008. È il 18 maggio del 2008, si gioca Parma-Inter, il risultato è fermo sullo 0 a 0 e Ibra è in panchina, infortunato. In quel momento l’Inter è seconda in classifica, rimontata dalla Roma dopo un lungo inseguimento. Leggenda vuole che Mancini chieda a Ibra se se la senta di entrare e di far vincere lo scudetto all’Inter. Ibra entra e in pochi minuti ne fa due, con la faccia di uno che nemmeno si è sforzato più di tanto. Per tutti, allenatore, compagni, tifosi, è il simbolo della squadra.
L’anno dopo, però, arriva Mourinho. Tra i due il rapporto è ottimo e Ibra vive la sua migliore stagione in nerazzurro. Arriva un altro scudetto e arriva pure il titolo di capocannoniere, quell’anno. Le cose coi tifosi però non vanno. Lui non lo ammetterebbe mai, ma a noi piace pensare che sia lo Special One e il suo rapporto, altrettanto speciale, con San Siro, a incrinare l’umore di Ibra. Comincia a essere sibillino, a lasciare qua e là tracce del suo imminente tradimento, a parlare troppo bene di Spagna e di Barcellona. Forse si aspetta che i tifosi cadano ai suoi piedi, che gli implorino di restare. A suo modo, chiede una prova d’amore. Gli interisti, però, sono forti dell’amore del loro nuovo idolo e lo fischiano. Alla 34esima giornata, il 2 maggio 2009, c’è Inter Lazio. Al tredicesimo minuto del secondo tempo, Ibra segna un gol dei suoi, ma invece di esultare si porta un dito di fronte alla bocca e con una mano mima un gesto piuttosto eloquente e volgare. Di fianco a lui, Mourinho, si porta un dito alla tempia, quasi a voler dire «questo è matto». Non sorride, ha già capito. Ibra lascia l’Inter due mesi dopo, destinazione Barcellona, per 90 milioni di euro.
Quel che accade dopo è storia. Ibra che bacia la maglia blaugrana al Camp Nou. Mourinho che accoglie Diego Milito e Samuel Eto’o al suo posto. Ibra che segna a raffica e asfalta ogni avversario, in Spagna e in Champions League. Ibra che rinuncia alla Ferrari per l’Audi aziendale. Ibra che abbassa la testa quando Guardiola gli cambia ruolo per lasciare il suo a Messi. Ibra che comincia ad avere brutti presentimenti. Ibra che torna a San Siro contro l’Inter. Ibra che ne prende tre da Mourinho, da Milito, da Eto’o. La curva nord che esulta, la curva nord che non lo rimpiange. L’Inter che vince la Champions League che avrebbe dovuto vincere lui, che li aveva lasciati per andare a vincerla a Barcellona. Ibra che non ci sta. Che si presenta agli allenamenti in Ferrari. Che non abbassa la testa di fronte a Guardiola. Che vuole andare via. Interessati a lui, il Manchester City di Mancini e il Milan. Ibra che ripensa alla curva nord che esulta e che non lo rimpiange. Ibra che vuole il Milan. Il Milan che non se lo può permettere.
Il piano architettato da lui e dal suo procuratore Mino Raiola per arrivare alla corte del Diavolo è altrettanto diabolico: minacciare di andare al Real Madrid, che ha appena ingaggiato Mourinho e farebbe follie per strappare Ibra ai blaugrana. Ibra sa che al Real non lo cederanno mai, ma sa anche che più passa il tempo, più la paura che Zlatan vesta di bianco aumenta. E più la paura aumenta, più il prezzo scende. Il 30 agosto del 2010 Ibrahimovic passa al Milan per 30 milioni di euro. È un capolavoro di Galliani, si dice, ma a vincere è soprattutto Ibra. Che si ritrova in una squadra affamata, desiderosa di prendersi la sua vendetta contro l’Inter. Esattamente come lui.
Il 14 novembre del 2010 è il giorno. Si gioca Inter-Milan. Passano dieci minuti e Ibra viene steso in area da Materazzi. Rigore. Va lui sul dischetto. Negli occhi, gli si può leggere un po’ di tensione. Poi la palla va a destra, Castellazzi a sinistra. Ibra allarga le braccia e guarda la Nord negli occhi. Poi si gira e se va. Senza sorridere, senza esultare. Semplicemente, non li aveva fatti soffrire abbastanza. Ora poteva dirsi soddisfatto. A fine stagione Ibra vince il nono campionato di fila e il Milan torna campione d’Italia, proprio davanti all’Inter guidata da Leonardo, l’altro traditore, bandiera e allenatore rossonera, diventata nerazzurra per dispetto.
Quel che succede la stagione successiva, però, è nuovo e sorprendente. Ibra confina a segnare, continua a dominare. Al Milan sembra aver trovato la sua dimensione. È il padrone indiscusso dello spogliatoio, adorato dai tifosi, coccolato dall’allenatore. E, in una serie A in declino, il suo strapotere è disarmante. Tutto sembra apparecchiato per il decimo scudetto di fila della sua carriera, insomma. Dall’altra parte, però, c’è la Juve di Antonio Conte. Affamata e guidata da Andrea Pirlo, anche lui desideroso di vendetta. Il rush finale sorride alla Juve. E al Milan comincia a levarsi qualche voce di troppo su Ibra l’ingombrante, Ibra l’accentratore, Ibra il despota. E su Raiola il ciccione, Raiola il mafioso, Raiola l’ingordo. Si dice sia stato un input presidenziale,: disfarsi a ogni costo di Zlatan per salvare il bilancio e per comprare il suo, supposto, erede Mario Balotelli. Anche lui ex Inter, anche lui con Raiola, anche lui con una discreta propensione al tradimento.
Ibra se ne va da Milano controvoglia; per la prima volta scaricato, per la prima volta dopo uno scudetto perso, il primo della sua carriera. Come una diva sul viale del tramonto, si guarda allo specchio, temendo di essere diventato vecchio, brutto e perdente. Capisce che la sua maledizione è vincere sempre, che a quelli come lui la sconfitta non è concessa, così come a una puttana non è concesso di non far godere. Se ne va a Parigi, quindi, perché non c’ è altra scelta. E lì ricomincia a vincere, a dominare, a mangiarsi gli avversari e a eclissare i compagni di squadra. Fino al 11 marzo scorso. Quando esce per espulsione in Chelsea-Paris Saint Germain, ritorno degli ottavi di finale di Champions League, contro Mourinho. E i suoi compagni lo eliminano senza di lui. E giocheranno senza di lui pure al Camp Nou, contro il Barcellona. E se vinceranno, vinceranno loro. Se perderanno, perderà lui. Ecco perché la Francia è un paese di merda. Perché Ibra lo zingaro, Ibra il traditore, sta già guardando altrove.