Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  marzo 29 Domenica calendario

COSÌ GIOVANNI PAPINI MASSACRAVA ROMA: MANTENUTA, BRIGANTESCA E SACCHEGGIATRICE

Roma è, per usare il vocabolario di Marinetti, il simbolo eterno e maggiore di quel passatismo ed archeologismo storico, letterario e politico che ha sempre annacquato e acciaccato la vita più originale d’Italia. Per passatismo storico abbiamo avuto in casa il vescovo supremo del cristianesimo che tanti guai ha dato all’Italia, non compensati davvero né dal fasto della corte, né dalle chiese grosse o pompose, né dai pellegrinaggi d’oltralpe (proteste). Per passatismo ci siamo ostinati a voler la capitale a Roma, in mezzo a un deserto, lontana dalle provincie più ricche ed attive del paese, troppo distante dalle altre capitali europee, in mezzo a una popolazione che per vanità di ricordi e mal governo di preti trattava gl’italiani di piemontesi e non aveva nessuna voglia d’ingegnarsi né di lavorare,abituata come era a vivere di benefici ecclesiastici e di minestre di frati (vociferazioni indecifrabili). Per passatismo i nostri antichi, da Dante a Mazzini, ossessionati dalla visione dell’impero universale, hanno sempre mirato a Roma come faro e segnacolo di italianità, mentre dai romani veri e propri – né antichi né moderni – non è venuto mai fuori uno di quei geni che hanno incarnato lo spirito della nostra razza e costituita la grande cultura italiana (fracasso generale). Non vi paia bestemmia senza fondamento questa semplice constatazione di esatta verità. Roma è stata grande colle armi e coll’amministrazione e mai colle arti e col pensiero. Essa è stata una grande città, un centro di bellezza ma sempre a spese dei vicini e dei lontani. Gli etruschi le dettero i primi rudimenti di civiltà; i greci la istruirono e le dettero l’arte; la religione di cui è sede più accreditata le venne dall’Asia Minore e dall’Egitto; nel Medioevo fu una borgata feudale senza civiltà propria; nel Rinascimento fu abbellita e arricchita da pittori, architetti e scultori venuti dalla Toscana, dall’Umbria, dal Veneto, attirati qui da quei papi che ricavavano i quattrini pel mecenatismo dalla Francia e dalla Germania (grugniti fragorosi). Perfino colui che impresse il carattere definitivo a Roma,nel Seicento, il Bernini, non è romano – ma nato a Napoli da padre fiorentino! (basta! basta!). Quale è il grand’artista, il grande poeta che qui sia veramente nato e fiorito? Io non trovo, cercando bene, che il dolce Metastasio, lo spiritoso Belli, il sonante Cossa – tutta gente di second’ordine, e tutti e tre, meno il secondo, più letterati che poeti (ragli formidabili). La famosa “scuola romana” di pittura fu fondata da un umbro e non fu, nei continuatori, che una decadenza compassionevole di virtuosi decoratori (rumori infernali. Colluttazioni in platea). Oggi, dopo quarantatré anni di ripulitura, non hanno saputo fare di questo santuario cattolico e nazionale una grande e vera città moderna. Oggi l’Italia di Cavour venuta a Roma non ha saputo far altro che rizzare in Piazza Venezia quel pasticcio classico e barocco del monumento a Re Vittorio (si sa! Basta!), questo bianco ed enorme pisciatoio di lusso che abbraccia dentro i suoi colonnati un pompiere indorato e una moltitudine di statue banali fino all’imbecillità; oppure ha piantato presso al Tevere quel palazzo di Giustizia in cui è stata grande soltanto l’abile rapacità degli appaltatori (bene!). Chi mi darà torto se io dichiaro che Roma è stata sempre, intellettualmente parlando, una mantenuta? (Esplosione generale. Schiamazzo enorme). Questa città ch’è tutto passato nelle sue rovine, nelle sue piazze, nelle sue chiese; questa città brigantesca e saccheggiatrice che attira come una puttana e attacca ai suoi amanti la sifilide dell’archeologismo cronico, è il simbolo sfacciato e pericoloso di tutto quello che ostacola in Italia il sorgere di una mentalità nuova, originale, rivolta innanzi e non sempre indietro (basta!). Qui a Roma si raccolgono come nel loro fungaio naturale tutte le accademie di tutti i paesi; qui son venuti a ispirarsi coloro che non sanno vedere altra bellezza al di fuori dei ruderi e dei capolavori da galleria; quaggiù guardano tutti i restauratori di qualche cosa, dell’impero o della chiesa, del classicismo e delle regole. Roma s’identifica perciò, nel pensiero degl’intelligenti, con questo eterno tentativo di rinculare verso il passato, di ristabilire le vecchie leggi, di imbavagliare cogli stoppacci dei grandi principi tutti quelli che vogliono esser se stessi, liberi e soli (proteste feroci. Confusione di voci forsennate). Questa tendenza italiana alla nostalgia opprimente, al rinfocolamento vigliacco delle glorie sepolte, all’instaurazione di una cultura livellatrice, eguale per tutti, sotto il rigore della legge, sotto il rispetto dei vecchi e dei morti, si manifesta oggi con insolita petulanza e con apparenza di vittoria anche nel campo della pura intelligenza. (Non è vero!). (...) Parallela a questa pericolosa infatuazione cristianoide è l’infatuazione filosofica – più pericolosa ancora, forse, perché alligna in uomini che si credon liberi dai pregiudizi e arrivati a quelle vette dell’assoluto da cui si può guardare il mondocolla serenità dei saggi e colla autorità degli dei. Da una diecina di anni, come giusta reazione a un bestiale positivismo che dimenticava le sue origini per cascare in metafisicumi incoscienti da notari o da macellari, s’è sviluppato in Italia un filosofismo astratto il quale pretende dar fondo all’universo e sostituire definitivamente la religione. Il caporione di questo filosofismo è quel Benedetto Croce il quale s’è fatto un gran nome in Italia tra studenti, professori di scuole medie e giornalisti prima come erudito eppoi come abile volgarizzatore e restauratore dell’hegelianismo berlinese e napoletano. Questo padreterno milionario, senatore per censo, grand’uomo per volontà propria e per grazia della generale pecoraggine ed asinaggine, ha sentito il bisogno di dare all’Italia un sistema, una filosofia, una disciplina, una critica. Questo insigne maestro di color che non sanno, per mettere insieme il suo sistema ha castrato Hegel levandogli la possibilità di far del male ma anche quella di fecondare – per fare la disciplina è ricorso ai libri di lettura di terza classe elementare – e per fare la critica s’è messo in testa di continuare De Sanctis al quale egli somiglia come il mare dipinto sopra uno scenario somiglia all’oceano vero. Eppure l’influenza nefasta di quest’uomo è giunta a tal punto che vi sono stati giovani i quali l’hanno proclamato successore di Carducci, maestro delle nuove generazioni, direttore e ispiratore della cultura italiana presente e futura. Non è qui il posto di considerare le vere benemerenze del Croce per quel che riguarda la preparazione degli strumenti di cultura ma è necessario avere il coraggio di affermare una buona volta che i suoi meriti e come filosofo e come critico sono stati colossalmente gonfiati, per un’infinità di ragioni e specialmente per l’ignoranza generale di cose filosofiche che regnava in Italia fino a poco tempo fa. Il Croce è stato abilissimo conquistandosi la maggior parte dei letterati che non sapevano un accidente di filosofia mettendo a base del suo sistema l’estetica, l’intuizione, l’arte. Furbissimo, ha capito che in Italia la letteratura attira assai più delle teorie...