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 2015  marzo 30 Lunedì calendario

FASSINA, GRILLO PARLANTE DEI DISSIDENTI, SEMPRE ALL’ATTACCO DEL PREMIER

«Fassina chi?». Già, Fassina chi? Probabilmente anche il diretto interessato se lo starà chiedendo in questi giorni. Probabilmente anche il diretto interessati, in queste ore, si starà interrogando sul senso più profondo della sua militanza in politica, prima ancora che nel Partito democratico. Perché dal quel 4 gennaio 2014 - quando Stefano Fassina si dimise da viceministro all’Economia del governo Letta in seguito all’infelice battuta del suo neosegretario, Matteo Renzi - l’economista bocconiano è entrato in una spirale che l’ha condotto a una sorta di crisi d’identità politica. Beninteso, lui è sempre rimasto lo stesso. È il contesto attorno a lui che è completamente mutato, finendo inevitabilmente per trasformarlo.

Fassina chi? Classe 1966, deputato della Repubblica, economista. Laureato alla Bocconi in Discipline economiche e sociali. Stefano Fassina vanta un curriculum di tutto rispetto. Con l’avvento di Prodi e dell’Ulivo al governo nel 1996 è consigliere economico del ministero delle Finanze, passando nel 1999 al dipartimento Affari economici della presidenza del Consiglio. Già consulente della Banca di Sviluppo Inter-Americana, dal 2000 al 2005 è economista al Fondo monetario internazionale. Editorialista de L’Unità, ha allìattivo numerose pubblicazioni di scienza economica e vanta collaborazioni con studiosi come l’ex ministro Vincenzo Visco. Il 24 novembre 2009 è scelto come responsabile nazionale Economia e Lavoro del Pd nella Segreteria nazionale di Pierluigi Bersani. Nel 2010 è tra i fondatori della corrente dei cosiddetti «Giovani turchi», da cui prenderà tuttavia progressivamente le distanze, fino ad abbandonarla nel 2013. Nel 2013 entra in Parlamento dopo aver ottenuto oltre 11mila voti alle primarie a Roma e provincia e il 2 maggio 2013 viene nominato viceministro all’Economia nel governo Letta.

Insomma, in un partito normale uno con un curriculum così sarebbe considerato uno dei dirigenti più autorevoli. E invece... Invece la vita è strana e la politica ancora di più. Soggetta a variabili che non puoi controllare. Così Bersani non vince le elezioni e s’incarta sul Quirinale, al congresso successivo niente e nessuno frena l’ascesa inarrestabile di Matteo Renzi. Anzi, gli amici di ieri voltano le spalle a Bersani e alla sua classe dirigente, preferendo il nuovo che avanza per interessi di bottega. E lui, il nuovo che avanza, in una delle prime uscite ufficiali da segretario giubila, con una battuta al vetriolo - «Fassina chi?» - un viceministro che antepone la propria dignità alla poltrona e si dimette.

Il mondo di Stefano Fassina non è più lo stesso. Il suo giornale, L’Unità, a parole dovrebbe essere rilanciato - almeno nel brand - da Renzi, ma in realtà chiude i battenti. La sua corrente, i «giovani turchi», sceglie il renzismo: l’ex luogotenente romano di Massimo D’Alema, Matteo Orfini, diventa presidente dell’Assemblea e liquida senza riconoscenza il Lìder Massimo; Andrea Orlando diventa guardasigilli; Valentina Paris entra in segreteria.

Stefano Fassina no. Lui resta coerente all’opposizione interna. Da economista prova a dire qualcosa sulla legge di stabilità, sul Jobs Act. Viene zittito; nella migliore delle ipotesi è la voce di un uomo che grida nel deserto democratico, dove l’unica lingua ufficiale è diventata nel frattempo il verbo renziano. Il Pd imbocca la strada del New Labour di Blair, ma in salsa molto più italica. Cioè guarda al centro, al bipartitismo, alla semplificazione del linguaggio, all’immediatezza delle decisioni che sfiora il deficit democratico. Insomma, per dirla con Cupero, il Pd cambia ragione sociale, rinnega la cultura ex Ds, la mette ai margini. Si sposta a destra nel disagio generale di quella che una volta era la Quercia.

Fassina non ci sta e prova a far sentire la propria voce. Fa il grillo parlante su tutto, cercando di raddrizzare una linea che porta ormai da un’altra parte. Ma, malignano i detrattori, ormai sembra più Renat Brunetta o Raffaele Fitto, quando constata amaramente che l’Italicum, la legge elettorale voluta dal suo segretario, combinata insieme a quelle riforme costituzionali volute sempre dal suo capo, traghettano il Paese e la demcorazia italiana verso «un presidenzialismo di fatto senza compromessi». Annunciando il Vietnam in Parlamento.

Fassina chi? Quello che resterà sempre se stesso. Ma magari altrove, lontano da questo Nazareno. E con altri compagni di viaggio.