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 2015  marzo 29 Domenica calendario

POETI, POVERACCI, ACROBATI. ED È GOL!

Mario Sconcerti ha scritto la Storia del gol, un libro che non c’era (come, d’altronde, il suo precedente Storia delle idee del calcio, una critica della ragione futbolística, inserita da Alessandro Baricco nei 50 libri da salvare degli ultimi tempi). È quasi incredibile che finora nessuno avesse mai pensato di scriverla, ma è pure vero che il gol fu l’ultima cosa a essere inventata nel calcio. Per tre millenni, ricorda Sconcerti, si giocò senza le porte. Il pallone c’era ed era anche di cuoio, riempito di piume e capelli femminili (manifattura cinese, mille anni prima di Cristo). E quel cuore segreto muliebre forse spiega il perché di tanta passione virile per il gioco più bello del mondo.
La prima parte del libro (bellissima, quasi onirica) è pura archeologia. Dagli scavi emerge la gran bontà dei goleador antichi. Ne è campione Carlo Rampini, cannoniere della Pro Vercelli (anni Zero del Novecento), accusato di professionismo perché si rivendeva i sigari che il presidente gli regalava come premio partita. La sua non era avidità ma carità: il ricavato andava all’ala sinistra Corna che aveva un fratello malato bisognoso di medicine costosissime.
L’Età dell’Innocenza Calcistica si è consumata, se c’è stata, in un baleno. Già nel 1926 c’è la prima combine: il Torino corrompe (cinquantamila lire) un giocatore della Juve. La papera che propizia il gol decisivo non la commette però il giocatore che si era venduto bensì l’intoccabile Rosetta (da cui uno dei più celebri incipit, «Combi, Rosetta, Caligaris...», del poema paradisiaco calcistico). Per gli italiani degli anni Venti, poveri, non belli e sotto dittatura, la partita diventa «una rivincita sociale», «un grande riassunto di tutti i torti quotidiani». Il gol rappresenta la vendetta. Il Montecristo dell’epoca è Levratto dal tiro violentissimo. Al suo cospetto, i portieri scappano per paura di farsi male. In realtà, era «un personaggio complesso, silenzioso», lettore di Anna Karenina e Delitto e castigo.
Il decennio successivo è dominato da Meazza. Segnava sempre lo stesso gol: «Il gol alla Meazza è riassumibile in tre dribbling e un tiro secco». Fu un Maradona, un Messi a.T. (avanti Televisione). Il suo rivale fu l’acrobatico Piola, re della rovesciata, tuttora recordman assoluto con 290 reti in campionato, ma senza vincere mai uno scudetto. La più formidabile macchina da gol resta il Grande Torino di Valentino Mazzola, uno dei simboli della Ricostruzione post-bellica (l’altro fu Coppi e dal destino altrettanto infausto), che detiene tuttora la media-gol più alta: 3,12 (1947-48). Per dire, l’Inter del Triplete è a 1,97, la prima Juve di Conte a 1,79.
I gol li cambiarono i vichinghi, capitanati da Gunnar Nordahl (corrispettivo calcistico del concomitante fenomeno delle maggiorate cinematografiche), che portarono segnature fisiche, in elevazione o per sfondamento (pratiche quasi proibite ai bomber indigeni essendo allora la statura media italiana inferiore al metro e settanta). Il prodotto nazionale di gol superò i 1.100 a campionato e si materializzò il Copernico del calcio, Alfredo Foni, mister dell’Inter. La sua contromossa davanti alla valanga di reti fu semplice. Mise una delle sue ali a difendere. «Era nato, quasi a tradimento, il calcio all’italiana». Foni capì per primo che fare gol è importante ma lo è altrettanto non prenderne. Inventò il non gol, che se non è l’antimateria della fisica poco ci manca.
Con il miracolo economico, i grandi capitani d’impresa, i Rizzoli e i Moratti, in rappresentanza dei cumenda con «paletot di cashmere lungo e abbondante», scoprono il calcio come blasone. Lo scudetto (o, addirittura, la Coppa dei Campioni) è il titolo nobiliare che gli manca. I loro goleador sono eleganti come Gianni Rivera che «sa stare in partita con una linearità, quasi una nobiltà fuori dal comune». Non ha ancora l’età per segnare quando marca (di piatto destro) il suo primo gol in serie A nell’ottobre 1959, a sedici anni. Sandro Mazzola è il suo rivale storico. Con lui lo stadio di San Siro diventa il castello di Elsinore. Sugli spalti volteggia il fantasma di un padre, di un re. Mazzola è stato «tormentato per tutta la carriera» dal paragone («inopportuno») con papà Valentino. I gol di Mazzola sono diversi da quelli di Rivera. Rivera segna con lo snobismo e la serenità di chi non deve dimostrare niente. Mazzola segna quasi con dolore, come se dovesse sempre dimostrare ancora qualcosa.
Questa parte del libro Sconcerti la scrive come Proust scrisse Alla ricerca del tempo perduto, all’inseguimento dei miti della giovinezza, quando Nereo Rocco lo chiamava Sconcertino e Gianni Brera lo chiamava il Navarro e José Altafini faceva doppietta a Wembley. In questa parte del libro, don Mario (come lo chiamo io, perché è il Vargas Llosa del calcio) suggella la staffetta perpetua tra Rivera e Mazzola raccontando della sensibilità sconosciuta di quest’ultimo «che non ho per esempio trovato in Rivera, rimasto sempre un vecchio ragazzo schiavo del suo talento. Mazzola, a oltre settant’anni, ha pianto (pianto!) quando nella curva della Juventus hanno tirato su gli striscioni contro i morti di Superga (tra cui suo padre)».
Parliamo ogni giorno di quelli che segnano tanti gol, Sconcerti lo fa meglio di tutti perché sa parlare anche di quanto i gol segnino quelli che i gol li segnano. E il Navarro chiude un suo strettissimo fraseggio con una riflessione definitiva sulla sindrome del campione: «C’è un tratto comune fra i grandi giocatori che ho trovato lungo la strada, un tratto quasi selvaggio. Come se il gioco avesse preso il sopravvento e la vita fosse sempre da un’altra parte».
Grazie ai gol ci riappropriamo di un’epica che non credevamo più alla nostra portata. Successe con Gigi Riva. Ricorda Sconcerti: «Una volta Burgnich mi disse che quando Riva scendeva verso l’area avversaria, assomigliava alla migrazione di un popolo. Ti sembrava di sentire il rumore dei carri e la polvere alzarsi tutt’intorno». Riva è il Cuore Impavido della gente sarda, il Braveheart che la fece nazione. «Un giocatore, in Italia, non è mai stato tanto, non ha mai avuto questo valore».
I gol segnano chi li segna. Long John Chinaglia è il primo nella vera classifica dei bomber calcolata da Sconcerti (percentuale gol personale sul totale dei gol in campionato, questo è anche un libro di matematica) con 4,83 (secondo Boninsegna con 4,75, terzo Pablito Rossi con 4,68). Oggi siamo lontani da questi numeri: Di Natale è a 2,93, Ibra a 2,88. Chinaglia ebbe una vita spericolata (come la sua Lazio). Quando morì, non si sapeva nemmeno, dati i casini che aveva combinato, dove seppellirlo. Allora i familiari di Maestrelli, il suo mister, offrirono un posto nella tomba di famiglia a Prima Porta. «Chinaglia è il primo e unico calciatore sepolto insieme al suo allenatore». Forse, per lui non valgono i terribili ultimi versi di d’Annunzio («Ogni uomo seppellito/ è il cane del suo nulla»).
I gol degli anni Ottanta sono splendenti. Come le tre pappine rifilate al Brasile da Paolo Rossi (anzi, paolorossi tutto attaccato come dicevano ovunque sul pianeta, coniando in tempi non sospetti il primo hashtag). E come i due gol di Maradona all’Inghilterra (uno è il più bello di tutti, l’altro è il più — la mano de Dios! — blasfemo). I gol anni Novanta sono quelli di Baggio che si raccontano sempre con uno stile da vangelo apocrifo perché «un grande tocco mistico, metafisico, nella storia di Baggio c’è sempre stato». L’età contemporanea del gol, secondo Sconcerti, nasce con Vialli. Ragazzo di famiglia ricca, borghese che cerca i gol difficili, spettacolari, lussuosi, «i gol della gente, quelli che si cercano sulla spiaggia». Vialli ha cambiato il modo di segnare e di essere giocatore, ha intellettualizzato e sprovincializzato la figura del calciatore italiano iscrivendolo a un club inglese (e il suo sodale Mancini, uno che segnava gol di cashmere, avrebbe portato a compimento l’impresa vincendo con il City la Premier League mentre la curva di Manchester intonava, sulle note di Volare, «Mancini oh oh, Mancini oh oh oh oh»).
Parlando di Bobo Vieri, Sconcerti regala una di quelle sue fulminee (quasi medianiche) intuizioni psicologiche: «Ha sempre avuto dentro più di quanto volesse dimostrare». La confermo con un ricordo personale. Una volta intervistai Vieri su come aveva fatto certi gol. Cercò di accontentarmi ma io insistevo, chiedevo maggiori spiegazioni. Allora Bobo sospirò e, dall’alto di 259 reti in carriera, mi disse: «I gol si fanno da soli». Come i sogni, come il destino. Mi sembra la frase giusta per congedarmi da un libro di così struggente intelligenza e di così geniale sentimento.