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 2015  marzo 29 Domenica calendario

WRESTLING, LA FINZIONE CHE UCCIDE

Può capitare che una parola, a lungo dimenticata in qualche magazzino della mente, di colpo venga portata alla nostra attenzione più volte nell’arco di pochi giorni. In questo caso la parola è wrestling. All’inizio della settimana che oggi, domenica, si conclude, Matteo Renzi ha replicato alle accuse di Massimo D’Alema (che gli rinfacciava una gestione arrogante del Pd) dicendo che parlava come «una vecchia gloria del wrestling ».
Basta uno sguardo veloce per accorgersi che la battuta di Renzi non è casuale né innocente. Lo scontro generazionale tra vecchio e giovane leone è uno dei tòpoi più frequentati della storia delle narrazioni, in particolare delle narrazioni sportive. Si può applicare senza difficoltà a ogni sport, di squadra o individuale — tennis, ciclismo, baseball, calcio —, ed è particolarmente felice la sua applicazione agli sport di combattimento, in cui è possibile stabilire con onestà brutale e ferina chi dei due contendenti sia il più forte. Eppure Matteo Renzi ha (perfidamente?) scelto il wrestling , noto più che altro per la sua carica farsesca. Nella percezione comune, infatti, il wrestler è assimilato non tanto a un lottatore quanto a un commediante (per non dire a un pagliaccio), che non parla e agisce perché mosso dall’impulso sportivo che tende alla vittoria, ma perché fedele a una parte preordinata.
Ed è innegabile che il wrestling sia, a un’analisi superficialmente impeccabile, «finto». Lo è per sua stessa ammissione, tanto che nel 2003 i proprietari della più importante lega di wrestling del mondo hanno chiesto che il suo nome ufficiale cambiasse da «World Wrestling Federation» a «World Wrestling Entertainment» (i maligni sostengono che dietro questa inconsueta richiesta non ci fosse il desiderio di distinguersi dall’omonima — pensando all’acronimo — associazione ambientalista, quanto la necessità di eludere i controlli antidoping, visto che le sostanze dopanti sono vietate nello sport e non nello spettacolo).
Ma solo tre giorni prima della battuta di Renzi il wrestling era già finito sui giornali con la notizia che il lottatore messicano Pedro Aguayo Ramírez, 35 anni, era morto sul ring per la violenza di un colpo al collo ricevuto da Rey Mysterio, uno dei wrestler più amati dai bambini, il campione del mondo più basso e leggero di sempre.

Come conciliare la terribile evidenza del dato («un colpo tanto violento da uccidere») con l’idea universalmente accettata che il wrestling sia finto? È possibile morire di finzione? In realtà è lo stesso concetto di finzione messo in gioco dal wrestling a essere incredibilmente sofisticato.
Il wrestling è finto in quanto l’esito degli incontri, l’intreccio di rivalità che si mutano repentinamente in alleanze, in rivolgimenti più o meno conformi alle regole che si succedono in un match, obbediscono a quanto preordinato da autori pagati. Il wrestling ha una trama e in questo senso non è differente da un film, un libro o uno spettacolo teatrale.
Differentemente da queste forme di racconto, però, il wrestler (e l’autore di wrestling ) chiede al suo spettatore di fingere di credere che quello a cui sta assistendo sia un vero combattimento sportivo. Ma, e in questo si distingue dal reality show , non ha pretese documentarie, non chiede davvero allo spettatore di credere alla verità di quanto avviene davanti ai suoi occhi. Se pensasse che quanto vede è reale, nessun individuo sano di mente, per quanto imbecille, potrebbe urlare eccitato mentre assiste allo spettacolo di un indiano affetto da gigantismo che chiude in una bara di legno un omaccione rossastro e tatuato vestito da becchino, o di un ammasso di carne di duecento chili che uccide un serpente schiacciandolo con il suo opulento posteriore davanti al padrone (e compagno di vita) del rettile, in lacrime e legato alle corde del ring. Il wrestling dunque in questo senso è un finto che finge di essere vero.
Ma al tempo stesso il wrestling finge di essere finto. Tutto quello che si svolge sul ring avviene realmente, sono vere le cadute, i salti, le acrobazie. I colpi, quelli si cerca di non portarli, ma possono scappare, come l’episodio tragico di Aguayo Ramírez dimostra. Una volta lessi un’intervista al grande campione Triple H. Si lamentava che gli veniva chiesto in continuazione se essere colpiti sulla testa con una sedia di metallo fa male. «Che domanda idiota: certo che fa male», replicava.
Da un punto di vista meramente fisico il wrestler è un prodigio naturalistico. Verrebbe voglia di sostenere che, come il celebre calabrone che — racconta la leggenda — in base alle leggi dell’aeronautica non può volare, in base alla biomeccanica e al buon senso, un wrestler non può davvero compiere le sue acrobazie. Perché il wrestler è generalmente un culturista che supera abbondantemente i cento chili e al tempo stesso compie circonvoluzioni circensi, meravigliosi voli e schianti atroci (consiglio di osservare con attenzione la foto qui a sinistra del grande wrestler anni Ottanta John «Terremoto» Tenta, in cui si vede quest’uomo immenso e obeso librarsi da terra in un mirabile doppio calcio volante). Ed effettua questi atti atletici mentre recita davanti a un pubblico seguendo trame che, è opportuno ricordarlo, sono imprevedibili per lo spettatore. Se il wrestling accetta la divisione del mondo nelle categorie contrapposte di buoni ( faces ) e cattivi ( heels ), a differenza della maggioranza dei libri, film e fumetti in cui queste categorie sono adoperate, lascia — e non di rado — che la vittoria sorrida al malvagio.

Ma l’intreccio di realtà e finzione non è sempre del tutto distinguibile. Come nel bellissimo Birdman i piani si intrecciano in una vertigine continua, e a volte non è possibile stabilire con assoluta certezza se uno schiaffo, uno sputo in volto, obbediscano soltanto a un copione o se non nascondano un contenuto di verità. E forse questa continua confusione, questo continuo rincorrersi di livelli, tocca l’anima del wrestler . Già prima della morte di Aguayo Ramírez il wrestling era stato associato a eventi drammatici quando, nel giro di un anno e mezzo tra il 2005 e il 2007, morirono due campioni: Eddie Guerrero, c’è chi dice di overdose di droghe, e Chris Benoit, suicida, dopo che a mani nude aveva ucciso moglie e figli. Ma al di là di questi casi limite la vita del wrestler è difficile e lo dimostra il fatto che molti lottatori non arrivano ai cinquant’anni.
Su YouTube circolano numerosi tributi a wrestler morti. Fa male, fa impressione vederli, forze della natura sorridenti e giocose, mentre le date di nascita e morte scorrono in sovrimpressione sui loro corpi forti e apparentemente invincibili, in una Spoon River kitsch e irreale. Vivono girovagando tra uno Stato e l’altro dell’America, tra droghe, allenamenti, diete e infortuni, confermando l’origine circense dello spettacolo che finge di fingere di essere uno sport a cui hanno consacrato la loro vita, al punto da sacrificare la loro stessa identità. Perché nel wrestling l’immedesimazione totale tra attore e personaggio (detto, tecnicamente, gimmick ) è la norma, e sempre a favore del secondo. Alle conferenze stampa di un film vanno Leonardo DiCaprio, Al Pacino, Harrison Ford, non Jack Dawson, Scarface e Han Solo. In quelle del wrestling possono andare solo Hulk Hogan, Jake the Snake, The Undertaker. La gloria è sempre della gimmick , all’uomo che le sta dietro sono destinati anonimato e oblio.
Non è difficile pensare che un wrestler sviluppi il complesso di Clark Kent che vede l’amata Lois Lane preferirgli sempre l’alter ego supereroe. Tanto che, come Randy the Ram, protagonista di The Wrestler di Darren Aronofski, la vita arriva a coincidere con il quadrato delimitato da corde e chiuso dai riflettori, maschere tragiche dall’apparenza farsesca, il volto segnato dalla tensione di un ultimo volo fatale.