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 2015  marzo 30 Lunedì calendario

DALL’OBLIO AL FASCISMO, LA SCOPERTA DI VIVALDI È UN’AVVENTURA

Vivaldi è qui, qui con noi. Come se lo fosse da sempre. Per quanto offesa dall’abitudine o dall’uso improprio, la sua musica (che va molto oltre le Stagioni) resta magnifica e il suo nome gode di una certa qual familiarità anche tra i non appassionati.
Non è stato sempre così. La fama di Antonio Vivaldi — virtuoso di violino, compositore, persino impresario — declinò rapidamente fino alla sua morte in miseria nel 1741, ricordata oggi da una targa sulla Karlsplatz di Vienna: era un astro della musica e sparì per due secoli, tutt’al più riapparendo di rimbalzo attraverso le trascrizioni di Johann Sebastian Bach.
La riscoperta del suo vastissimo repertorio è invece storia recente. Un capitale corpus di manoscritti riapparve nel Monferrato nel 1926, lascito del marchese Marcello Durazzo ai salesiani che tuttavia contavano di venderli, ignorando il valore artistico immenso delle carte. Il patrimonio venne intercettato fortunosamente, e fortunatamente, dal musicologo Alberto Gentili e da Luigi Torri, direttore della Biblioteca nazionale di Torino, che riuscirono ad acquisirlo grazie alla generosità dell’agente di cambio Roberto Foà. Ma quei 97 volumi manoscritti non erano tutto. Non meno fortunoso, e fortunato, fu il recupero dell’altra metà del fondo, frutto di uno sciagurato smembramento. Giaceva a Genova, nel palazzo di un altro Durazzo, e alla fine venne acquisita grazie all’intervento di un altro mecenate, Filippo Giordano. Da qui la musica di Vivaldi riprese, poco a poco, ad abitare il mondo, mentre ancora ai nostri giorni le biblioteche d’Europa restituiscono pagine finora sconosciute del veneziano.
Raccontare quest’odissea è un atto di devozione e gratitudine, del quale si è fatto carico Federico Maria Sardelli, direttore d’orchestra, interprete delle pagine del «prete rosso» ingiustamente meno ascoltate (il repertorio sacro, le cantate, l’opera...). Sardelli ha trattato L’affare Vivaldi (Sellerio, pp. 304, e 14) come una partitura e le ha imposto un perentorio da capo . In forma di romanzo, è partito dalla fuga da Venezia di un Vivaldi indebitato, è risalito attraverso il passaggio di mano dei suoi manoscritti approdando al fascismo, col Duce che strazia il presunto violino del musicista.
E qui Sardelli carica di uno slancio civile l’omaggio a Vivaldi, che non compare mai, e a Gentili e Torri (ma anche a Foà e Giordano). Una prosa efficace e nitida rende onore agli scopritori e irride la volontà fascista di appropriarsi dell’italianissimo genio di Vivaldi, quasi subordinandone il valore musicale all’esaltazione nazionalistica. Sardelli dispensa sarcasmo contro le venali grettezze clericali, l’arroganza di un Ezra Pound che si erge a cultore vivaldiano e invece ignora l’abc del Barocco, non nasconde il modo in cui l’ebreo Gentili venne esautorato e costretto alla fuga (come Foà e Giordano) dalle leggi razziali. Sardelli ha attinto minuziosamente a fonti documentarie: «I fatti narrati sono, per la grandissima parte, realmente accaduti», chiosa.
Ma oltre la filologia c’è l’amore, del quale sono rivelatrici le partiture evocate: un Beatus vir , uno dei tre fenomenali concerti per flautino , quello col violino per eco in lontano ... Storia vera, verissima la commozione.