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 2015  marzo 08 Domenica calendario

MILANO

UNA mosca bianca su un taxi bianco, che guida morbido e tiene pulito come la stanza di una sposa. In un’ampia vaschetta sul lato passeggero, una quarantina di cioccolatini ben assortiti di cui si rifornisce da un eroico caramellaio superstite, in viale Toscana. «Gradisce?». Il conducente ha 42 anni, capelli e filo di barba entrambi molto curati, cita Pascal e Keynes, porta in giro per Milano il suo Bari 78, una 500L che sembra appena uscita di fabbrica, con la pacata rassegnazione di chi ha sognato altro, studiato per altro, ma che al momento ha accettato l’evidenza che questo altro non c’è, e quindi si adatta. La nuova Italia degli “adattabili”, fratelli maggiori degli “sdraiati” di Michele Serra. Visto il tasso innaturale di disoccupazione e la massa crescente di quanti stanno scendendo la scala sociale, la mosca bianca sul taxi bianco è, se non altro, in nutrita compagnia. Ma il suo resta un caso piuttosto unico. Sul biglietto da visita, in cartoncino plastificato traslucido, c’è tutto in una riga, l’aspirazione mancata e la negazione, per quanto possibile, dello status presente: Dott. Luca Nicolazzi, seguono indirizzo e mail. La parola “taxista” non compare. Però è quello che lui fa da due anni e mezzo. Perché non lo scrive? «Perché sono dottore in Legge, 88/100 a fine corso con una tesi sullo sfruttamento della prostituzione, e guidare un’auto pubblica non è esattamente la mia aspirazione».
Dottore in Legge e quindi avvocato. «No, ce n’erano già troppi quando so- no uscito dall’università, mi sono scoraggiato. Sono entrato nello studio di mio padre, un commercialista con una decina di dipendenti, a occuparmi di paghe e sicurezza del lavoro. Poi lui è morto di colpo, un infarto in ufficio. Abbiamo venduto l’avviamento e io ho cominciato a girare per trovare un posto. Girare in senso letterale, da Moncalieri al Veneto. Mi ricordo che a Vertemate, nel comasco, per una posizione nel recupero crediti, eravamo in 40. Dopo tanti contratti di collaborazione in piccole assicurazioni, l’ultima mi ha lasciato a casa. Un po’ di disoccupazione e poi mi sono buttato in questa impresa del taxi. Per disperazione». Beh, c’è di peggio. «Vero. Però questo è un lavoro per niente prestigioso, parecchio faticoso e poco valutato. Il mio indice di successo con le donne, per esempio, è drasticamente diminuito». Come mai? «Vengo da una famiglia benestante e abito ancora in una zona di buona borghesia. Da quando torno a casa col mio Bari 78, mi guardano diversamente, non dico storto ma insomma, va’ che fine ha fatto il Luca».
Nessuno sa esattamente quanti siano i taxisti in Italia, 40mila, forse 50. Si sa però che sono forti, compatti, una lobby su cui si sono puntualmente infranti i progetti di liberalizzazione dei vari Bersani, Monti e adesso Renzi, che ha astutamente evitato, o rimandato, lo scontro con loro. Ma “loro” chi sono? L’unico studio ufficiale in materia è una relazione della Banca d’Italia, datata 2008 ma basata su dati del 2006: diceva in sostanza che abbiamo meno della metà di taxi per abitante rispetto alle metropoli europee. Roma viaggerebbe intorno alle 7.500 licenze attive (Londra supera le 20mila, Parigi le 15mila) e Milano, uno dei rari numeri precisi all’unità, 4855. Domanda: quanti sono i taxisti laureati? Risposta nazionale: boh. Risposte locali, dei sindacati o degli uffici comunali: e chi li ha mai contati. Anche nella città che ha appena issato l’Albero della Vita, svettante chioma argentata dell’ormai imminente Expo, il titolo di studio di chi dovrà accompagnare dalla vecchia Madonnina alla nuova Fiera l’atteso popolo di turisti è tema insondato e insondabile. Che il signor Nicolazzi sia l’unico “dottore”? Magari proprio l’unico no, però, chissà, forse c’è un ingegnere o un altro avvocato, potrebbe, non sappiamo.
Neanche lui lo sa. I rapporti con i colleghi sono fugaci. In qualche caso, anche pugnaci. Come quella volta che non aderì allo sciopero anti-Uber, l’applicazione che dall’aprile 2013 fa concorrenza non gradita ai taxi regolari. «Mi hanno bloccato in tre energumeni in piazza della Repubblica, hanno fatto scendere la cliente e mi hanno spiegato con le brutte che dovevo smetterla. Madonna, che paura. Ho rimesso il taxi nel box». Ma Uber non rappresenta una minaccia per la sua categoria? «La vera minaccia è la crisi. Il lavoro è diminuito sì, ma perché la gente ne ha sempre di meno. Io sto con Keynes, lo conosce, no? L’austerità che ci impone l’Europa, e che noi supini subiamo, non paga. Quando c’è deflazione, cioè se produci perdi, deve intervenire lo Stato, fare spese in deficit, investire in opere pubbliche, la scuola pubblica, la sanità. Mi sono preso un’infezione a un dito, sono andato alla mutua, esami, tempi biblici per l’appuntamento con un chirurgo. Se non pagavo un privato, l’infezione mi arrivava al cervello». Renzi le dà speranza? «Figurarsi. Ho votato Forza Italia, pentendomi. Se proprio devo, scelgo il Matteo della Lega, Salvini. Ma sono più per la destra sociale». Il vecchio Msi? «Una cosa così. Forse si lega col fatto che io sono molto cattolico, di quelli che vanno a messa ogni domenica. E il sabato pomeriggio, volontariato con gli anziani ricoverati al Don Orione: così si sgrava un po’ il lavoro degli infermieri». Renzi no. Papa Francesco? «Moltissimo. Lo accusano di essere comunista, stupidaggini. Lui sta al Vangelo, e il Vangelo quello è. Pascal scriveva che la scelta dell’uomo è tra il nulla eterno e l’eternità. Nel mio piccolissimo, scommetto sulla seconda». Nelle pause, il dottor Nicolazzi va al Planetario perché gli piace l’astrofisica oppure legge quotidiani (dal “Foglio” al “Sole 24ore”, dal “Corriere della Sera” alla “Repubblica” al “Fatto”) o libri come la storia di Matteo Ricci, edita dal Mulino, sulle gesta di un gesuita, matematico e cartografo, che nel 1500 partì per evangelizzare la Cina, o i saggi di Alberto Bagnai, pubblicati dal Saggiatore, sui rischi dell’euro e di questa Europa. E poi studia, ostinatamente, per l’esame di broker assicurativo. «Il mio sogno da bambino era mettere i timbri sulle carte nello studio di papà. Adesso, di aprire un’agenzia di assicurazioni». E se va male? «Una volta ho caricato un professore di Economia. Mi ha spiegato che il Cile è la Svizzera del Sudamerica, il Paese più stabile e con la crescita più promettente. Ecco, se va male, tento col Cile». Parla da uomo senza legami: famiglia, figli? «Niente, per adesso. Mi piacerebbe tanto, ma manca l’altra parte, la compagna, la sposa. E non è che guidando un taxi le possibilità di incontri aumentino. Certo che salgono anche delle belle ragazze, donne bene, ma non ti considerano: tu sei lo sfigato che guida».
Scusi, dottore, ma chi gliel’ha fatto fare? «L’assenza di alternative. Mi sono comprato la licenza per 178mila euro, fortuna che li avevo. Ho ereditato la sigla, Bari 78, dal proprietario precedente e l’ho tenuta per pigrizia. Ci aggiunga 16 mila euro per la vettura, più i soldi al sindacato e i 3mila per diventare socio di una cooperativa. Con 200mila euro mi sono pagato un lavoro indipendente, sicuro, dove nessuno possa cacciarmi. Non è il mio massimo, neanche il mio medio, ma mi adatto. Nelle giornate fiacche, porto a casa 120 euro per 10 ore di turno, dalle 8 alle 18; in quelle buone, 200; nelle super, quando a Milano c’è la moda o il design, sfioro i 280-300. Tolte le spese, ci campo. E dal primo maggio comincia pure l’Expo». Semaforo rosso, pausa. «Speriamo che parta, o riparta, anche l’Italia». Ma lo dice con una smorfia di sfiducia che resta impressa nello specchietto retrovisore. Cosa non la convince, dottor Nicolazzi, taxista suo malgrado? «È che questo Paese non lo capisco più. Mi capita di parlare con dei clienti anziani, di solito i più cortesi. Mi raccontano dell’Italia del dopoguerra, della miseria che c’era, della povertà che non è diversa da quella che stiamo assaggiando oggi. Ma allora c’era una cosa che adesso non c’è più: la solidarietà tra le persone. Magari in Cile ne è rimasta ancora un po’».