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 2015  marzo 06 Venerdì calendario

LIBERTÀ IN RUSSIA


In una tiepida mattina di novembre Maria Alyokhina, Masha per gli amici, è seduta nella cucina di un’amica nel quartiere Bedford-Stuyvesant di Brooklyn, New York. Beve una tazza di caffè e fuma una sigaretta russa. Due cose, dice, che l’aiutano a rimettere insieme i pensieri, perché muore di sonno. La sera prima, alla notizia che un gran giurì ha deciso di non incriminare un poliziotto bianco di Ferguson, Missouri, che nell’agosto 2014 aveva ucciso un adolescente afroamericano di nome Michael Brown, in tutto il paese sono divampate proteste spontanee.
Alyokhina ieri sera era appena arrivata a casa dell’amica quando ha letto su Twitter che in città erano in corso manifestazioni. Si è subito diretta verso Manhattan e insieme a qualche altro centinaio di persone ha bloccato il transito sul ponte Robert F. Kennedy, che collega la parte nordorientale di Manhattan al Bronx e al Queens. E si è stupita del baccano che faceva la folla, della gentilezza dei poliziotti di New York, ha incontrato un giornalista di Russia Channel, emittente statale russa, e si è fatta un selfie con Perry Chen, fondatore di Kickstarter, prima di tornare a Bed-Stuy verso le 4.30 del mattino.
Mentre Alyokhina si dirigeva verso l’East River, i manifestanti non sapevano che assieme a loro ci fosse una delle più note attiviste politiche russe – una ragazza il cui arresto, qualche anno prima, aveva fatto clamore in tutto il mondo. Insieme alla compagna Nadezhda (Nadya) Tolokonnikova, Alyokhina fa parte del collettivo femminista Pussy Riot, divenuto prigioniero politico in seguito a una protesta inscenata presso la cattedrale di Cristo Salvatore di Mosca, nel febbraio 2012.
Scalza e vestita con un abito nero, nella cucina dell’amica, Alyokhina guarda sull’iPhone i filmati dei manifestanti girati la sera prima. Tolokonnikova arriva silenziosamente in compagnia del marito, l’attivista Pyotr Verzilov, e si va a sedere accanto ad Alyokhina. Indossa una camicia a quadretti bianchi e rossi e i capelli neri hanno le punte colorate di blu. Ha un viso aperto e tranquillo, uno sguardo che oscilla tra l’intensità e la diffidenza.
Alyokhina e Tolokonnikova sono state scarcerate nel dicembre 2013, con un’amnistia che non ha fatto che dimostrare la natura volubile e capricciosa del sistema giudiziario russo. Le scarcerazioni (assieme a loro sono tornati in libertà l’ex oligarca Mikhail Khodorkovsky e alcuni attivisti di Greenpeace) sono state percepite come un tentativo di evitare critiche al regime in vista delle Olimpiadi invernali del 2014 a Sochi.
Nonostante gli stenti del carcere, Alyokhina e Tolokonnikova sono rimaste iconoclaste piene di energia. Qualche settimana dopo essere uscite dai loro campi di prigionia, rispettivamente a Nizhny Novgorod nella Russia occidentale e a Krasnoyarsk in Siberia, sono andate a Sochi. All’arrivo, assieme ad altre componenti delle Pussy Riot, sono state aggredite da cosacchi armati di frustino, prima di essere fermate dalla polizia locale. Rilasciate dopo poche ore, le Pussy Riot sono andate a mettersi presso i cinque cerchi che costituiscono il simbolo dei giochi, e hanno eseguito una canzone composta all’istante, Putin vi insegnerà ad amare la madrepatria – citazione testuale di uno dei cosacchi in cui si erano imbattute poco prima. Un modo di agire ragionevole per coloro che affrontano con risorse limitate un avversario aggressivo, più grosso e potente, è quello di rimanere ai margini. Però la dichiarazione conclusiva della Tolokonnikova di fronte al tribunale, nell’agosto 2012, straordinariamente articolata e coraggiosa – un discorso tenuto dall’interno di un gabbia, quando aveva 23 anni, e trasmesso in diretta dalla televisione russa –, ha mostrato come questa Pussy Riot non fosse né pentita né doma. In quel quarto d’ora di oratoria piena di sfida, ha messo in dubbio la legittimità di quel che stava succedendo: «Questo processo-farsa è vicino agli standard delle troike staliniane».
Alyokhina e Tolokonnikova hanno potuto lasciare la Russia e avrebbero ottenuto asilo politico in Occidente, se avessero voluto. Invece il gruppo Pussy Riot sta lavorando a un nuovo progetto che ancora una volta porterà le attiviste a scontrarsi con il regime e il suo presidente, che nel 2012 le ha bollate come «persone che hanno minato le fondamenta morali del paese».
«Non è una questione di coraggio, è una questione di crescita personale, perché tutte le cose interessanti nascono da un conflitto», spiega Alyokhina. «Può trattarsi di un conflitto personale oppure pubblico, ma comunque è il conflitto quello che ti costringe a crescere, a capire le cose. Se hai una vita comoda cominci a ottunderti».
La reputazione conquistata oggi offre a loro, e per estensione ad altri detenuti nelle carceri russe, una voce, però al tempo stesso fa delle Pussy Riot un bersaglio. Una mattina di marzo, nel 2014, a Nizlini Novgorod sono state aggredite da sei giovanotti: hanno spruzzato loro in faccia un liquido acido che le ha lasciate ricoperte di chiazze verdi. E le forze di sicurezza russe, raccontano, le molestano regolarmente. Il potere delle Pussy Riot, come accade per i dissidenti e gli attivisti, sta nella visibilità: la protesta dentro la cattedrale del Cristo Salvatore è durata meno di un minuto, eppure ha fatto il giro del mondo.
Continuano a fare musica le Pussy Riot, ma buona parte delle loro energie ora si riversa su Zona Prava, una ong che si occupa di diritti dei carcerati, e su un sito giornalistico, MediaZona, che pubblicherà notizie e inchieste sui diritti civili, sulle prigioni e sul sistema giudiziario russo. «Quando la tua arte è politica a volte la usi per i diritti dei carcerati o per i diritti umani in generale», dice Tolokonnikova. «Non separi le cose».
Le origini di MediaZona ovviamente stanno nel carcere. Durante la detenzione Alyokhina e Tolokonnikova hanno dovuto subire privazioni e punizioni arbitrarie. Il 23 settembre 2013, dopo un anno vissuto dietro le sbarre, Tolokonnikova aveva cominciato uno sciopero della fame. In una lettera aperta spedita dalla prigione (dove, secondo quanto riferisce, il vicedirettore della colonia penale aveva descritto la sua politica nei confronti della detenuta come “stalinista”) Tolokonnikova raccontava come i compagni di prigionia crollassero «sotto il peso di condizioni simili a quelle della schiavitù» e chiedeva che l’amministrazione rispettasse i diritti umani e agisse secondo le leggi. Dopo sette giorni l’avevano ricoverata nell’ospedale interno al carcere.
«Da molto tempo in Russia un caso di diritti umani non suscitava tanta attenzione», dice Verzilov. A quel punto le Pussy Riot si sono rese conto di avere un’opportunità di tentare di cambiare il sistema, e hanno agito di concerto con Agora, gruppo che si occupa di diritti umani e di cui fa parte Irina Khrunova, l’avvocato che rappresenta il collettivo. Anche Alyokhina ha sfidato le autorità, battendosi perché le udienze fossero a porte aperte, per avere accesso ai libri e contestando il diritto dei responsabili carcerari di sottoporla a ispezioni ginecologiche dopo i colloqui con l’avvocato difensore.
In Russia la percezione del carcere è molto diversa da quella europea: «Tutti conoscono qualcuno che è in prigione», dice Alyokhina. «Abbiamo una forte cultura carceraria, che va dai tempi dell’impero fino a oggi, senza scordare l’Unione Sovietica». «Circa un terzo della popolazione è passato attraverso i gulag, potrebbe capitare a chiunque», dice Ben Judah, autore di Fragile Empire, un libro assai critico nei confronti di Vladimir Putin. «In Russia una famiglia passata per la prigione è normale, come è normale in Israele una famiglia passata attraverso la Shoah». Secondo una ricerca condotta nel 2013 dall’International Centre for Prison Studies (università dell’Essex), la Russia ha circa 681.600 detenuti, 475 ogni 100mila abitanti. Solo gli Stati Uniti, con 2.239.751 detenuti (716 ogni 100mila abitanti), e la Cina, con 1.640.000 detenuti (121 ogni 100mila abitanti), superano la Russia.
Ksenia Zhivago, 25 anni, è la responsabile del progetto di mappatura delle prigioni, con cui Zona Prava si prefigge di costruire un database interattivo che fornisca informazioni sulle istituzioni penitenziarie della Russia, 758 delle quali sono colonie penali. È un tentativo di portare un po’ di trasparenza in un sistema opaco (dopo la condanna Tolokonnikova era sparita per 28 giorni, e alla fine è ricomparsa in un campo di lavoro in Siberia), affollato e a volte corrotto. Squadre di volontari di Zona Prava stanno raccogliendo dati, anche assieme al Comitato di supervisione pubblica, un gruppo ufficiale che ha accesso alle carceri e distribuisce ai detenuti un questionario con 300 domande nel corso delle visite.

«Ci occupiamo di tutto, dagli orari di visita ai mezzi di trasporto, dalle medicine alle condizioni di vita e di lavoro e alla comunicazione con i funzionari», dice Zhivago. Il sito offre anche assistenza pratica: c’è una hotline che mette in contatto con lo psicologo e l’avvocato, ma non solo. «Forniamo aiuto nel redigere reclami, nelle indagini, nei casi di morte, cerchiamo di scoprire cosa succede nelle colonie penali, diamo consulenze telefoniche e abbiamo contatti con la Corte europea dei diritti dell’uomo». L’intenzione è quella di rendere il database il più possibile vicino a un’immagine in tempo reale del sistema. MediaZona è redatto da Sergey Smirnov, che al momento della nomina conosceva Tolokonnikova da circa cinque anni. In quel periodo scriveva di questioni militari e di opposizione politica per il giornale Online Gazeta.ru.
A renderlo famoso sono stati gli articoli sulle presunte frodi elettorali in occasione delle presidenziali russe del 2012. Il 6 maggio 2012 – il giorno prima che Putin celebrasse l’inizio del suo terzo mandato – centinaia di manifestanti erano stati arrestati dopo una serie di scontri con la polizia nel centro di Mosca. Molti hanno poi avuto condanne pesanti. Erano in gran parte professionisti e la protesta era stata organizzata attraverso i social media.
Smirnov aveva seguito la vicenda con una certa attenzione. «Il Cremlino non è stato molto felice di leggere certi articoli» ci dice, via e-mail. «Gazeta.ru ha cominciato ad avere problemi con la censura e alcuni dei giornalisti sono stati costretti a rinunciare e ad andarsene».
Smirnov se ne era andato per diventare vicedirettore del sito di attualità politica Russkaya Planeta e poi passare a MediaZona nel maggio 2014. E adesso si trova nel punto focale della vita politica russa. «L’attività dell’opposizione ormai finisce sempre in tribunale», dice. «Il leader del movimento anti-Cremlino, Alexei Navalny, è stato condannato nel corso di un processo con accuse costruite ad arte. E ora è imputato anche in un altro processo».
Gulnaz Sharafutdinova, politologa presso il Russia Institute del King’s College a Londra, afferma che il sistema giudiziario russo non è mai stato veramente indipendente dal Cremlino, e che il sistema attuale affonda le sue radici nel caos seguito al collasso dell’Unione Sovietica negli anni Novanta. «Hanno creato una piramide politica di potere e integrato le istituzioni – giudiziarie, amministrative, politiche, perfino economiche – per puntellare il sistema di potere», dice.
«Se sei Putin, non hai voglia di trasformare gli oppositori in martiri. Li vuoi tenere occupati e lontani dalle piazze», dice Judah. «Prendi uno come Navalny: lo costringi ad affrontare un milione di processi, così lui passerà nelle aule giudiziarie il resto della sua vita – dovrà difendersi e non avrà proprio tempo per l’agenda politica».
La squadretta di giornalisti di MediaZona si divide tra i vari compiti, postando una decina di articoli al giorno, oltre a cronache dai tribunali e aggiornamenti dei processi. Nel novembre scorso ci sono stati parecchi «processi penali con motivazioni politiche», e questo ha costretto la redazione ad aggiornamenti costanti. Le cronache vengono postate una volta al giorno, talora anche di più, e le inchieste e le ricostruzioni storiche un paio di volte a settimana. Smimov dice che il prossimo traguardo sarà arrivare a tre inchieste a settimana. Il traffico è modesto, il fatto che il sito sia così focalizzato su un tema specifico costituisce una limitazione naturale, e si va dai 3000 ai 10mila visitatori al giorno. I post di maggiore successo, le cronache sul processo Navalny e la storia di una donna che ha passato 16 anni in prigione, sono stati visti circa 100mila volte. «MediaZona può essere descritto come progetto per i diritti umani, tuttavia noi lavoriamo seguendo scrupolosamente le regole del giornalismo», dice Smimov. «Ecco perché per noi il fact-checking è ineludibile e perché è sempre meglio quando riusciamo ad attingere le informazioni dalle fonti ufficiali».
Judah, che ha vissuto a Mosca negli anni in cui l’opposizione era più ardimentosa, ricorda quel periodo felice: «Tra il 2007 e il 2012 si è vista una generazione di giovani giornalisti che non ricordavano l’Unione Sovietica. Erano cresciuti a Mosca con una qualità di vita da Corea del Sud. Ed erano cresciuti online in assenza di censura e creavano questi siti fighi. Era gente che era stata a Shoreditch, l’aveva apprezzata molto e la voleva trasferire a Mosca».
Ma la Russia in cui Alyokhina e Tolokonnikova sono riemerse dopo la prigione era un paese assai diverso: l’ottimismo e la baldanza degli anni precedenti erano stati in buona parte annichiliti, insieme con l’opposizione.
Nell’ottobre 2014 Putin ha approvato una legge che impedisce alle società straniere di possedere più del 20 per cento degli organi di stampa russi. I media hanno subito purghe interne: alcune testate sono state ingoiate da aziende statali (è il destino della stazione televisiva Ntv, che ora fa parte del colosso energetico Gazprom), o hanno subito avvicendamenti nello staff redazionale in seguito alle pressioni del governo (è successo ai siti giornalistici Lenta.ru e Gazeta.ru), o sono stati chiusi con decreto presidenziale (il destino dell’autorevole agenzia di Stato RIA Novosti). Nel novembre 2014 Mikhail Mikhailin, direttore di Kommersant – giornale che una volta uscì con un numero fatto di pagine bianche, come sfida a un ordine del tribunale –, si è dimesso in occasione di un cambio ai vertici.
Un mese dopo l’approvazione della legge sulla proprietà straniera, la biblioteca presidenziale Boris Yeltsin, con sede a San Pietroburgo, ha annunciato l’intenzione di creare un’alternativa a Wikipedia. Come si legge in un comunicato stampa ufficiale, questa fonte online «presenterà il paese e la sua popolazione in modo obiettivo e accurato» perché Wikipedia sarebbe «inattendibile e imprecisa nelle voci relative alla Russia e alla vita del paese».
Nell’agosto 2014 è passata una nuova legge sull’informazione, che mirava a restringere la portata dei social media: i blogger che hanno più di 3000 lettori giornalieri oggi hanno l’obbligo di registrarsi presso un ente di controllo. «Un’altra pietra miliare nell’incessante giro di vite russo contro la libertà di espressione», secondo Human Rights Watch. Verzilov dice che in seguito a ciò ha ricevuto dall’ufficio legale di Twitter una lettera in cui lo si informava che Roskomnadzor, organismo di controllo statale, aveva chiesto di conoscere il numero di visitatori del suo feed. A partire dal primo gennaio 2015 tutte le aziende che archiviano dati di utenti russi hanno l’obbligo di impiantare il servizio all’interno della Russia, il che è impossibile dal punto di vista della logistica. Per Verzilov è uno stratagemma: il governo russo sa che Google, Facebook e Twitter non possono ottemperare, quindi troveranno accordi su altre forme di dati. «Il governo russo sta preparando il terreno per negoziare con le società internet straniere», dice.
Mentre i servizi più grossi sono abbastanza robusti per resistere agli attacchi, proteggere i siti di informazione indipendenti come MediaZona dagli attacchi DoS (denial of Service) è fondamentale per riuscire a mantenerli online. In casi in cui si intuisce la longa manus dello Stato l’attacco utilizza le cosiddette botnet: reti formate da un gran numero di computer infettati da un virus, e che può essere controllato da una terza parte. Smirnov dice di aspettarsi di tutto. Verzilov conferma che MediaZona è stato già bersaglio di attacchi.
«La capacità di mantenere online il contenuto web può essere il tallone d’Achille dei media indipendenti, l’essere raggiungibili rappresenta la loro forza, eppure possono essere messi ko con attacchi DoS da due soldi», dice CJ Adams, affabile ventinovenne con il pizzetto, product manager di Project Shield, un’iniziativa di Google che lavora per proteggere le testate indipendenti, le ong, i siti che forniscono dati elettorali e quelli dei gruppi che si battono per i diritti umani. Google consente ai siti web sotto minaccia di far passare il traffico attraverso le sue infrastrutture, che filtrano quello nocivo mitigando l’attacco. «Le aziende tech dovrebbero dare ascolto a chi affronta questi rischi – ciò renderebbe la tecnologia migliore e più sicura», dice Adams. La sua squadra ha creato la Digital Attack Map, una visualizzazione dei dati online che mostra in tempo reale il due per cento più pericoloso degli attacchi in corso nel mondo.
«Se riusciamo a risolvere il problema di coloro che affrontano rischi estremi, possiamo aumentare la sicurezza di tutti», aggiunge Adams. Alyokhina e Tolokonnikova sono sedute a un tavolo, nell’appartamento di New York. Alyokhina mangia uova strapazzate mentre Tolokonnikova spilucca una fetta di torta di carote, accoccolata su una poltroncina da ufficio. Verzilov sta lavorando su un MacBook e di tanto in tanto si unisce alla conversazione quando Alyokhina e Tolokonnikova gli chiedono di chiarire qualche punto. Qualche volta si affidano a lui per la traduzione, ma oggi le due attiviste parlano un inglese migliore di quello che credono di parlare.
Il progetto Pussy Riot, con la sua estetica audace e pop-punk, ha fornito al gruppo un palco da cui rivolgersi al mondo per parlare delle questioni interne alla Federazione Russa; se possano dare origine a un cambiamento per mezzo del giornalismo è un altro paio di maniche.
«I professionisti dei media hanno bisogno di un business model», dice l’editore Ilya Oskolkov-Tsentsiper, aggiungendo che i siti web dissidenti non riusciranno ad attirare gli inserzionisti, e questo significa che avranno bisogno di finanziamenti privati.
«Non abbiamo segreti, non nascondiamo l’identità di chi ci dà i soldi», dice Smirnov. «I finanziamenti sono raccolti da Masha e Nadya durante incontri pubblici. Siamo finanziati da varie organizzazioni straniere ma non accettiamo denaro da governi esteri».
Il regime considera Alyokhina e Tolokonnikova due pericolosi corpi estranei. Sharafutdinova dice che Putin si è attribuito il ruolo di protettore della moralità russa, importante quanto le risorse minerarie e il petrolio. «È in corso una guerra, ma non la si combatte con le armi tradizionali. Le armi qui sono l’informazione e i valori».
Vicino alla casa di Brooklyn dove stanno le due attiviste russe c’è un murale intitolato “Quando le donne cercano giustizia”. Tra le donne raffigurate c’è Shirley Chisholm – la prima afroamericana eletta nel Congresso Usa e la prima a cercare la nomina come candidata democratica alle presidenziali – che si è definita “un catalizzatore per il cambiamento”. Questo tipo di prospettiva storica è importante per le Pussy Riot. Alyokhina parla del loro desiderio di pubblicare su MediaZona una quantità sempre maggiore di servizi video, e dice che per raggiungere gli spettatori potenziali bisogna mostrare loro la “realtà” di quel che sta avvenendo.
«Tra vent’anni spero che questo farà parte della storia e la gente guarderà i filmati e ricorderà che questo modo di vivere, questo modo di costruire un paese non erano giusti», dice. «Per me è molto importante per la storia – per la memoria».