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 2015  marzo 06 Venerdì calendario

DOVE FINISCONO TOLSTOJ E STEVENSON. VIAGGIO AL TERMINE DELLA LETTERATURA


MILANO. La Cosa è un animale meccanico che sferraglia immobile in un grande hangar. Spara barriti e frastuoni, intanto che macina. Impressiona la sua imponenza, l’energia sonora che produce. È un corpaccione disteso senza gambe e né braccia, spiaggiato in uno stabilimento a sud-ovest di Milano, nel comune di Casarile, sull’autostrada verso Genova. È tutto testa e pancia: due parallelepipedi di metallo, due cassoni grigio lucente e verde opaco. C’è una bocca larga con lingua e denti, uno stomaco capiente, un lungo intestino a vista e uno sfintere capace di espellere cubi di rifiuti impacchettati con filo di ferro. Recuperabili. E infatti saranno recuperati.
Dove finiscono i libri, quando non ti curi di loro, non li compri, non li porti a casa e non li leggi? I libri che non si vendono, le rese, dove finiscono? Qui, nella grande Cosa che risucchia, addenta, inghiotte, digerisce ed espelle. In genere, si nutre di ogni tipo di carta. Ma in alcune giornate inghiotte praticamente solo libri. Sono loro il suo pasto esclusivo: pagine, copertine, inchiostro, fotografie, parole.
Questo è uno dei luoghi dove i libri vengono disfatti. Si consuma l’addio a ciò che è stato e si prepara il materiale per ciò che sarà di nuovo. Non c’è tristezza. Gli addetti si muovono rapidi con grandi ramazze e carrelli elevatori. Entrano i camion e scaricano. I cartoni vengono registrati e accatastati. Poi, presi a uno a uno, si preparano a diventare cibo per la Cosa.
L’atmosfera è di efficienza disinvolta, di caos energetico con fogli di carta che piroettano trasportati dai colpi di vento. Non scorgi il senso della distruzione, sebbene proprio questo accada nella sede della Italmaceri di Casarile, azienda del gruppo inglese DS Smith che recupera carta da macero: si distruggono libri. Si fanno a pezzi, si decapitano. Anche quelli ancora incellofanati.
La Cosa è violenta, eppure trasmette un’idea di speranza e di futuro: dai libri distrutti si ricavano altri libri, o giornali, o scatole per scarpe, o tovaglioli, o carta igienica. Il lavorio della Cosa riempie gli occhi, oltre che le orecchie. È uno spettacolo affascinante da vedere, più che da immaginare o leggere. In effetti, fino a oggi, l’ho solo immaginato. Poi l’ho letto nel libro che Rizzoli ha pubblicato qualche settimana fa. L’autore è Jean-Paul Didierlaurent, apprezzato scrittore francese di racconti, al suo primo romanzo. Il libro, tradotto da Maurizia Balmelli, si intitola Un amore di carta. Ho già visto dove e come finiranno le copie invendute.
È una storia d’amore al borotalco, quasi una fiaba. Con tocchi da bibliofilo e atmosfere da Peynet. Racconta come la passione per i libri faccia incontrare l’anima gemella. E come le nuove tecnologie possano essere lampade di Aladino per lettori felici. Lei, Julie, responsabile della toilette pubblica di un centro commerciale, compare a metà della storia. Lui, Guylain Vignolles, uomo invisibile, trentaseienne timido e modesto, un pesce rosso come compagno, lavora per una ditta che riduce tonnellate di libri in poltiglia. La sua consolazione è salvare qualche pagina e leggerla a voce alta in treno, andando in fabbrica. Come gli ricorda un vecchio collega: «Non dimenticartelo mai, ragazzo: noi stiamo all’edizione come il buco del culo sta alla digestione, nient’altro!».
Dopo averlo letto, viene la curiosità di vedere con i propri occhi e scoprire l’effetto che fa. Siccome questo Amore di carta è targato Rizzoli, uno va in visita nel luogo dove finiscono i volumi pubblicati da Rizzoli, Bompiani, Fabbri e Archinto. E in questo luogo puoi arrivarci soltanto scortato. E sei controllato a vista, perché nessun libro può lasciare da vivo, cioè tutto intero, il capannone. Nessuna copertina si può salvare.
È un martedì di metà febbraio. Oggi sono pronti novanta bancali di volumi da distruggere. Ogni bancale sono seicento chili. Seicento chili sono circa mille libri ciascuno. In tre-quattro ore finiscono al macero circa cinquanta tonnellate di carta. Tutte dentro quella bocca lì in alto.
La Cosa ha una faccia grigia e squadrata di cinque metri per quattro, con una targa sulla fronte: Macpresse-Made in Italy. La sua lingua è un tapis roulant che raccoglie dal basso il cibo, lo fa salire in bocca e, a manciate, lo precipita in gola. Dietro la facciata funziona un grosso cilindro di ferro pieno, che pesa venti quintali. La superficie è cosparsa di spunzoni, chiamati martelli. Quando il motore da centocinquanta cavalli entra in azione, il cilindro gira vorticosamente e i martelli sventrano e tritano tutta la carta che ricevono.
Hanno le ossa a pezzi i libri, quando escono sul nastro trasportatore, una sorta di budello, un intestino su cui scivolano i volumi sminuzzati e rimescolati insieme. È un lungo fiume tranquillo di pagine e pagine come onde. Una quarantina di metri. Verrebbe voglia di montarci sopra e navigare, lasciandosi trasportare dalla corrente. Se non che, a un certo punto, l’intestino e il fiume s’impennano e risalgono una parete: è una specie di cascata all’incontrario. Dopo un ultimo sussulto, tutto il materiale finisce nella tramoggia della pressa imballatrice. Altro fragore, altri sbuffi, altri barriti. In un paio di minuti, viene espulso a blocchi, due metri cubi per volta di carta da riciclare.

Il verbale di distruzione indica giorno, ora e quantità. Certifica che la merce è stata tutta smaltita «mediante triturazione e pressatura», questa la formula. Un’operazione democratica, eguagliatrice. Non esistono favoritismi, non ci sono aristocrazie. Non conta il prezzo di copertina, né il valore letterario, né la fama dell’autore. I titoli sconosciuti, i flop e i best seller finiscono mescolati in un melting pot scanzonato di letterature e saggistica varia.
Ho visto con i miei occhi Il museo immaginario di Philippe Daverio e Costruire il nemico di Umberto Eco scambiarsi i reciproci brandelli. E così pure ha fatto A un giovane italiano di Carlo Azeglio Ciampi con il texone La valle del terrore di Magnus. Smembrati viaggiavano pp. a fianco a fianco Jeffery Deaver e le ricette di Antonella Clerici, Giampaolo Pansa e Le avventure di Tin Tin, Patrick McGrath e Giovanni Allevi, Gianrico Carofiglio e Christopher Paolini a braccetto con Serena Dandini. Mentre quella mappa del tesoro che è Nella terra dei sogni, dodici filastrocche di Robert Louis Stevenson illustrate da Simona Mulazzani, cercava di resistere surfando sugli altri titoli fra mezze pagine e tronconi di volumi.
Come insegna il protagonista del romanzo di Didierlaurent, non si può lasciare la Cosa senza rubarle nemmeno una pagina. Così ho fatto. Ho portato via tre ricordi. A caso. Mi sono rimaste in mano: la pagina 791 di Guerra e Pace di Tolstoj, dove Mar’ja Genrichovna arrossisce fino alle lacrime e diventa più affascinante agli occhi di Rostov e degli altri ufficiali, e la pagina 312 dell’epistolario di Indro Montanelli, con una lettera indirizzata a Vittorio Foa. Il terzo ricordo è una banconota ucraina da dieci grivne. Integra. Sopra campeggia la faccia di Ivan Mazepa, comandante cosacco, duca del Sacro Romano Impero Germanico, le cui imprese hanno ispirato musicisti e poeti. Per questo è finito fra i libri.

Gian Luca Favetto