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 2015  marzo 06 Venerdì calendario

TUTTI I NEMICI DELLO ZAR

Ci sono ancora ancora spesse incrostazioni di neve sporca ammassate lungo i bordi dei marciapiedi fuori dalla stazione Krasnopresnenskaya della metropolitana di Mosca, in pieno centro. Accanto a quel ricordo del lungo inverno c’è un gruppetto di quattro giovani, donne e uomini, con alcuni palloncini di un verde brillante in mano. «La primavera sta per arrivare», dice uno di loro, distribuendo volantini ai passanti. I quattro giovani appartengono a una schiera di gruppetti di attivisti che stanno cercando di mobilitare i compatrioti affinché escano allo scoperto per manifestare contro il presidente Vladimir Putin. Tantopiù adesso, dopo l’uccisione nel centro di Mosca di uno dei dissidenti più famosi, Boris Nemtsov, l’ennesimo omicidio politico in un Paese in cui già non mancavano i motivi per scendere in piazza a causa di una profonda e lacerante crisi economica. «Dopo aver sottratto per anni i proventi del petrolio, l’attuale regime ha portato il Paese a un punto morto e alla bancarotta totale». si legge sui volantini. «Putin e il suo governo non potranno risollevare il Paese e farlo uscire dalla crisi: se ne devono andare».
I passanti che prendono i volantini sono pochi, i più li ignorano. A tre anni di distanza da quando centomila esponenti dell’opposizione scesero in piazza in tutta la Russia, il movimento si è scisso: alcuni leader sono in prigione, altri in esilio, uno è stato ucciso e molti altri ancora hanno cambiato versante.
Con un’economia avviata alla recessione, buonsenso vorrebbe che Putin – i cui indici di gradimento sono balzati a oltre l’80 per cento da quando un anno fa ha annesso la Crimea, e da allora sono rimasti a quel livello record – facesse fronte ai problemi politici e provasse a risolverli. Questa era l’idea di fondo dietro le sanzioni con le quali l’occidente sta tuttora cercando di castigare il leader russo per essersi impossessato della Crimea. In linea teorica, qualora gli oligarchi – sulla fedeltà dei quali Putin può fare ancora affidamento – corressero il rischio di subire delle perdite finanziarie, inizierebbero a esercitare pressioni su di lui per fargli cambiare rotta. Nello stesso modo, se l’opinione pubblica iniziasse a risentire davvero delle difficoltà economiche, anch’essa si rivolterebbe contro il presidente. Invece, il leader russo ha ribaltato queste speculazioni. Il tamburo della propaganda suona in modo costante, raffigurando la crisi come una lotta per la sopravvivenza della Russia, al punto che la stragrande maggioranza della popolazione russa si è schierata al fianco di Putin.
Le ripercussioni economiche adesso ci sono e sono palesi, anche se soltanto in parte sono conseguenze delle sanzioni. Molto più significativo e incisivo da questo punto di vista è il prezzo del petrolio in caduta libera: insieme al gas, il petrolio rappresenta i tre quarti delle esportazioni russe e più della metà dei suoi introiti. In seguito alla caduta lo scorso anno del valore del rublo di oltre il 40 per cento contro il dollaro, i prezzi al consumo stanno arrivando alle stelle e il problema è notevolmente aggravato dalla decisione presa dal governo lo scorso agosto di mettere al bando un’ampia gamma di prodotti alimentari, dalle mele provenienti dalla Polonia al formaggio importato dalla Francia, come forma di ritorsione contro le sanzioni occidentali.

GLI SHOCK ECONOMICI
Le autorità stanno obbligando tutti a stringere la cinghia, a congelare i salari del settore pubblico e a licenziare medici e infermieri, mentre le società private stanno tagliando la produzione e i posti di lavoro. Il governo ha detto che l’inflazione potrebbe sfiorare la soglia del 15 per cento in estate, e che l’economia molto verosimilmente si contrarrà del 5 per cento circa. «Ci troviamo nella più grande crisi dai tempi del crollo dell’Unione Sovietica», dice Vladimir Milov, ex viceministro dell’energia.
Gli attivisti dell’opposizione sperano di fare leva a loro vantaggio sulla rabbia che credono finirà col diffondersi tra la popolazione a causa delle difficoltà economiche. Nessuno tuttavia nutre l’illusione che lamentarsi della cattiva situazione economica in Russia possa accelerare un cambiamento politico. «Non siamo ancora arrivati al punto in cui le difficoltà economiche hanno un impatto reale sull’opinione della massa», dice Dmitry Gudkov, parlamentare dell’opposizione. Secondo il Centro indipendente per i diritti sociali e dei lavoratori di Mosca, il numero delle proteste per i licenziamenti e gli stipendi in calo l’anno scorso è aumentato in maniera esponenziale. Gli osservatori, tuttavia, ritengono che tutto ciò resterà limitato alle cittadine che dipendono in maniera preponderante da datori di lavoro unici, e che proprio il loro isolamento locale permetterà al governo di gestire la situazione. A Mosca gli economisti per lo più credono che soltanto un ulteriore scivolone del prezzo del petrolio sotto i 50 dollari, unitamente al protrarsi delle sanzioni economiche, potrebbe far precipitare la Russia in una crisi finanziaria catastrofica l’anno prossimo. Questa, a sua volta, potrebbe incidere in maniera significativa sulla situazione.
La crisi, oltre all’omicidio Nemtsov, sembra essere un’opportunità per un’opposizione ridotta all’ombra di sé stessa. Nel 2011 e nel 2012, i moscoviti della classe media avevano lanciato una sfida a Putin stringendosi intorno ad Alexei Navalny, avvocato e blogger che si batteva contro la corruzione. Quel movimento, però, è andato in pezzi. «Il fatto che molti attivisti siano all’estero, in carcere o agli arresti domiciliari è un problema, e indebolisce l’intero movimento», dice Pavel Elizarov, leader dell’opposizione che ha chiesto asilo politico a Lisbona nel 2012, quando il governo ha represso le proteste. «In ogni caso, è di gran lunga meglio vivere all’estero che andare in prigione».

TERAPIA DI GRUPPO
Nina Zavrieva, imprenditrice del settore hi-tech, 28 anni, dice di aver voglia di riscendere in piazza se non altro per accertarsi che a Mosca ci sono ancora persone che la pensano come lei. E le manifestazioni di primavera le vede così: «Sarà come prendere parte a una seduta di terapia di gruppo». L’opposizione cerca di dar vita a una piattaforma per un movimento a lungo termine. «Il regime ha saputo incutere grande paura. Le consuete immagini delle proteste in Russia erano veramente molto cupe, e i poliziotti vestiti da astronauti picchiavano la gente», dice Leonid Volkov, membro del partito “Progresso” di Navalny. «Dobbiamo tornare allo strumento consueto, quello dei raduni pacifici e delle manifestazioni pacifiche contro la politica» .Ma le probabilità sono a loro sfavore. Lo stesso Navalny la settimana scorsa è stato incarcerato per 15 giorni per aver distribuito volantini. Un mese fa la polizia ha fatto irruzione sia negli uffici della Fondazione anti-corruzione di Navalny, sia nelle abitazioni dei dirigenti. «Penso che ci scaglieranno contro qualche imputazione penale, accusandoci di aver fatto cattivo uso delle donazioni perché abbiamo pagato un regolare stipendio al nostro staff», dice Roman Rubanov, uno dei soci più importanti di Navalny.
In ogni caso, anche ammettendo che l’opposizione riesca a rimettersi saldamente in piedi, dovrà affrontare una sfida immane: allargare il bacino di coloro che ne raccolgono l’appello, andando oltre la sola classe media moscovita, e trovare nuovi alleati.

NUOVI ALLEATI CERCASI
«Il movimento dell’opposizione deve comprendere perché l’85 per cento della popolazione è tuttora favorevole al partito di governo», dice Zavrieva. «Una volta che si comprenderanno i problemi delle masse e si riuscirà a lavorare con una percentuale maggiore della popolazione e non soltanto il 5-10 per cento allora accadrà qualcosa di veramente grosso. In questo momento l’opposizione è un po’ in un mondo tutto suo». Gudkov esemplifica questa estraneità: liquida in parte la necessità di rivolgersi all’intera popolazione dicendo che «se, a grandi linee, il 60 per cento della popolazione appoggia Putin, soltanto il 5 per cento è costituito davvero da suoi sostenitori. L’altro 55 per cento è fatto di zombie che guardano la televisione e che non incideranno mai sul serio sulle sorti della politica con le loro decisioni», sostiene. «Se domani in televisione fai vedere qualcosa di diverso, la penseranno in maniera diversa».
Non tutti la pensano così cinicamente. Gli attivisti della campagna di Navalny si sono resi conto che se da un lato la sua attenzione particolare ai social media gli ha consentito di costruirsi un valido sostegno malgrado fosse estromesso dalla televisione di Stato, dall’altro gli ha precluso di raggiungere ed entrare in contatto con i russi di una certa età che abitano fuori dalla capitale e non utilizzano quei social media. Per porre rimedio a ciò, Rubanov e i suoi colleghi stanno lavorando a quello che chiamano il primo tabloid politico russo, una pubblicazione mensile di otto pagine nelle quali divulgheranno tutta la sozzura che la campagna anti-corruzione di Navalny avrà messo insieme scavando nelle vite di uomini e donne che guidano il Paese.
Navalny ha anche iniziato a collaborare con Mikhail Khodorkovsky, l’ex oligarca trasferitosi in Svizzera quando alla fine del 2013 Putin l’ha scarcerato dopo dieci anni trascorsi dietro le sbarre. Da allora Navalny si è proposto come alternativa per la presidenza.
L’opposizione in definitiva dovrà affrontare la questione e chiedersi in che modo indurre un cambio al potere. I politici dell’opposizione respingono la possibilità di una rivoluzione, ma alcuni oppositori di Putin sperano in un colpo di Stato, mentre altri meditano su come persuadere il presidente a dimettersi dal suo incarico.
Gudkov sostiene che Alexei Kudrin, ex consulente economico di chiara fama di Putin, ha discusso con i funzionari dei governi occidentali l’idea di offrire al leader russo e ad altri membri della sua cerchia di intimi la proposta di un pensionamento all’estero e la promessa di essere lasciati in pace, ma questa ipotesi è stata liquidata come impossibile e impraticabile dai diplomatici occidentali a Mosca.
Questi scenari, però, prevedono tempi lunghi: si calcola che Vladimir Putin resterà altri sei anni alla presidenza, una volta conclusasi alla fine del 2018 quella in corso. Solo a quel punto la Costituzione – che non consente più di due mandati consecutivi alla presidenza – lo costringerà a farsi in disparte. Stiamo parlando del 2024.