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 2015  marzo 06 Venerdì calendario

PRONTI PER LA GUERRA? OGGI SÌ, DOMANI NO

È IL BUNKER PIÙ BELLO DEL MONDO: un hangar scavato nella roccia, lungo trecento metri, con volte in cemento che ricordano la pancia di una balena, disegnate negli anni Trenta da Pier Luigi Nervi. Lì, nel cuore dell’isola di Pantelleria, c’è la postazione perfetta per intervenire sull’altra sponda del Mediterraneo, una portaerei naturale rivolta verso il Nord Africa. Ma nel novembre 2012 si è deciso di chiuderla. Alle prese con la spending review, il governo Monti ha ordinato di smantellare la base: morto Gheddafi, non si pensava che ci sarebbero stati più problemi in quella parte di mondo. Tempo sei mesi ed è arrivato il dietrofront. Anzi, un anno fa il ministro Roberta Pinotti ha incluso l’avamposto pantesco tra i presidi da irrobustire per fronteggiare il caos creato dalle primavere arabe. Finora, però, non sono stati trovati i soldi: nell’ultimo bilancio della Difesa, il potenziamento di Pantelleria è rimasto in sospeso, infilato in un lungo elenco di strumenti necessari ma privi di finanziamenti. Ed in è in questa lista nera che si annida il vero problema delle forze armate italiane. Ora che si torna a discutere di sbarchi in Libia, la vicenda dell’isoletta appare come il simbolo della situazione. Abbiamo tanti uomini e tanti mezzi, addirittura troppi e sicuramente più di quanti ne possano schierare i nostri alleati nel Mediterraneo, ma siamo in affanno per stare dietro all’addestramento, alla manutenzione, all’acquisto di carburante. Un tema posto al centro del dibattito su “l’Espresso” dal generale Leonardo Tricarico, ex comandante dell’Aeronautica e presidente della Fondazione Icsa. Se il governo dovesse decidere di intervenire in Tripolitania o Cirenaica, oggi la punta di diamante della Difesa (vedi grafico) è considerata “combat ready”. L’Esercito può mettere in campo fino a 10 mila soldati su tre fronti, con cinque brigate più dinamiche pronte ad attivarsi: parà della Folgore, alpini della Taurinense, bersaglieri della Garibaldi, fanti della Sassari e cavalleria dell’aria della Friuli, a cui si somma un agguerrito contigente di commandos. Con il ritiro da Kabul che procede a pieno ritmo, attualmente vengono impiegati all’estero circa tremila uomini: ci sono quindi i numeri per sostenere un mobilitazione prolungata. L’Aeronautica ha caccia in quantità e la più grande squadriglia europea di droni Predator mentre la Marina è l’unica del Continente che può contare su ben due portaerei, tre navi appoggio sbarco e sottomarini d’ultima generazione in grado di bloccare i porti avversari. Militari e macchine che rischiano di invecchiare velocemente. Ma che sono pronte a rispondere alla mobilitazione.
I PIANI D’AZIONE
Nella periferia romana, in una palazzina accanto alla pista dell’aeroporto di Centocelle, in questi giorni il comando interforze che coordina le operazioni sta aggiornando i piani per una possibile azione in Libia. Tutti i progetti infatti devono essere rivisti dal nuovo capo supremo che si è insediato sabato 28 febbraio: è il generale Claudio Graziano, un ufficiale che ha costruito tutta la sua carriera in missione, dal Mozambico al Libano. Negli scorsi mesi sono state prese in considerazione tre opzioni. Una “light”, con un centinaio di incursori per garantire la sicurezza durante una “emergenza umanitaria”: toccata e fuga sulle coste libiche, da completare entro un paio di giorni, per mettere in salvo civili assediati o consegnare aiuti urgenti. C’era poi uno scenario “medio”, che richiederebbe circa 500 militari, con ridotta copertura aerea e navale, per prendere il controllo temporaneo di un’installazione: un porto, sempre nell’ipotesi di una crisi umanitaria con cittadini europei e profughi intrappolati, o uno snodo dei gasdotti strategici per la nostra energia. Ma è un’eventualità superata dall’evolversi della situazione: in Libia ci sono troppe milizie armate fino ai denti, che si riverserebbero in massa contro questa testa di ponte. E anche i campi petroliferi ormai sono terreno di scontro tra i signori della guerra e i battaglioni dei due governi di Tripoli e Tobruk.
MASSICCIA SPEDIZIONE
Resta quindi un’unica alternativa teorica: la spedizione in grande stile, inserita in un dispositivo multinazionale autorizzato dall’Onu o – nel caso estremo di un attacco terroristico contro l’Italia – gestita dalla Nato. Una mossa che richiederebbe almeno cinquemila soldati, quelli vagheggiati dal ministro Pinotti nell’intervista al “Messaggero”, con ogni genere di armamento per tenere a distanza le fazioni locali: carri armati, artiglieria semovente, veicoli corazzati, elicotteri da combattimento. Il contigente dovrebbe avere alle spalle una flotta composta dalla portaerei Cavour – la più datata Garibaldi sta completando le prove dopo una serie di lavori conclusi in anticipo – con i suoi jet Harrier, una portaelicotteri con imbarcazioni speciali da sbarco e alcune fregate di scorta. In più la copertura dal cielo dell’Aeronautica con i Tornado e gli Eurofighter posizionati a Trapani. Sostenere questa task force sarebbe meno faticoso dello sforzo sopportato tra il 2009 e il 2011 per le offensive in Afghanistan volute dal governo Berlusconi. Allora mandammo al fronte oltre 4000 soldati, che bisognava rifornire con un colossale ponte aereo: tutto, dai proiettili alle bottiglie d’acqua, veniva trasportato in nave negli Emirati e poi in volo fino a Herat. In questi anni però i fondi si sono assottigliati e la Difesa ha dato il contributo più alto alla stagione del rigore. Il guaio è che la spending review è stata condotta senza lungimiranza. Nonostante le riforme più volte annunciate, i ranghi non sono calati: il 71 per cento delle risorse finisce per pagare gli stipendi. Un altro 20 per cento viene destinato all’acqui sto di nuovi sistemi, spesso più per soddisfare i desideri delle industrie che non quelli dei militari. Con le briciole bisogna fare tutto il resto: dall’addestramento alla manutenzione, dai carburanti alle mense, dalle munizioni alle bollette della luce. Così oggi il nostro sta diventando un Esercito fuori esercizio, perché proprio la voce “esercizio” del bilancio è quella su cui hanno infierito le amputazioni negli stanziamenti. In soldoni, per avere un’armata di terra efficiente servirebbero 900 milioni mentre in cassa ce n’è circa un terzo.
ARMATA ARRANGIATA
Il soldato italiano, si sa, è un maestro nell’arrangiarsi. Finora ha fatto i salti mortali per mantenere l’operatività. Con i finanziamenti extra per le missioni sono stati preparati al meglio i reparti, ma anche questa fonte si sta esaurendo. Persino i soldi per le pattuglie urbane di “Strade sicure” hanno dato una mano per la manutenzione delle camionette, mentre “Mare Nostrum” ha permesso alla Marina di tenere in attività la flotta. Ormai però si raschia il fondo del barile: ci sono caserme che danno in permuta alle aziende vecchie ruspe e camion, barattandole con l’esecuzione di lavori urgenti. Spesso si supplisce alla mancanza di ricambi “cannibalizzando” i pezzi da alcuni veicoli, che così diventano inutilizzabili. Gli unici piloti pienamente addestrati sono quelli degli intercettori Eurofighter, ma solo perché le ore di volo sono incluse nel contratto degli aerei pagato dal Ministero dello Sviluppo Economico mentre gli equipaggi di Tornado e Amx, fondamentali per i raid, decollano pochissimo. La Pinotti quattro mesi fa ha messo le mani avanti: «Lo stanziamento è insufficiente rispetto alle reali esigenze e potrebbe determinare la crisi del settore». Di questo passo, infatti, nessuno fa pronostici sulla capacità di intervento che rimarrà nel futuro prossimo. «È difficile fare capire alla politica che lo strumento militare va costruito programmandolo negli anni, non si può pensare di renderlo operativo in un pugno di mesi», spiega il generale Mauro Del Vecchio, che ha guidato le nostre truppe in Kosovo, diretto le forze della Nato in Afghanistan e poi è stato senatore del Pd. La preparazione al combattimento non si improvvisa. Anche un parà che si è già misurato con i talebani deve tenersi allenato e sparare in un poligono che riproduca i pericoli reali. Mentre la prospettiva di un’operazione libica ci obbliga a fare i conti con minacce dimenticate da tempo. In Afghanistan bisognava affrontare una resistenza combattiva ma povera, mentre tra Tripoli e Tobruk circolano ordigni sofisticati e veicoli blindati, che rendono indispensabile l’intervento di una forza corazzata. C’è un solo precedente: l’ingresso in Kosovo nel 1999. «Avevamo 5.500 uomini, con centinaia di tank e cingolati accompagnati dall’artiglieria», ricorda il generale Del Vecchio: «Nelle missioni condotte dal 2001 in poi, l’Esercito ha migliorato la capacità operativa globale ma non sono stati più impiegati carri armati né cannoni semoventi e in questo campo bisogna recuperare il tempo perduto».
LA RUGGINE DEI TANK
Le ultime esercitazioni del genere risalgono a tredici anni fa, quando la brigata Pinerolo partecipò alle grandi manovre in Egitto: nessuno di quei mezzi è più in servizio. E, salvo un tardivo rischieramento di sei tank a Nassiriya, da allora i pesi massimi dell’Esercito sono rimasti in caserma. Oggi solo una novantina di carri armati Ariete sarebbe pronta, mentre il programma per aggiornarli è stato sospeso per carenza di fondi. Non è l’unico. Nel dossier stilato a novembre dal ministro Pinotti la lista nera delle spese “importanti ma congelate” occupa cinque pagine e include sistemi chiave per un’eventuale operazione libica: dalla protezione per gli elicotteri Mangusta all’ammodernamento dei cingolati Dardo, entrambi decisivi negli scontri afghani, dagli “scudi dinamici” degli accampamenti per intercettare razzi e mortai ai missili per i droni Predator. Spesso ci sono state scelte surreali, con investimenti massicci per armi hitech mentre si è rinunciato alle dotazioni necessarie per il fronte. Stiamo comprando una nuova flotta da sei miliardi di euro ma i blindati dei marò del San Marco, l’avanguardia di ogni sbarco, sono vecchi di trent’anni e non si trovano pochi milioni per sostituirli. È stato appena annunciato l’acquisto di altri sei superdroni Piaggio senza però riuscire a pagare le cannoniere volanti progettate contro la guerriglia. E abbiamo una galassia di satelliti spia, costati miliardi, con radar ottimi per vigilare sui deserti che sono praticamente ciechi perché mancano i software per decifrare le sagome delle jeep dei miliziani.
L’ULTIMA TRINCEA SUL COLLE
Con il taglio previsto per quest’anno, un altro cinque per cento, non c’è speranza di correre ai ripari. L’unica soluzione è selezionare: decidere quali reparti e quali mezzi sono prioritari. Le indicazioni per scegliere verranno dal Libro Bianco della Difesa, realizzato dalla Pinotti, che disegnerà forze armate ridotte, flessibili e concentrate nel “Mediterraneo allargato”, senza più spedizioni in terre lontane dai nostri interessi come l’Afghanistan. Il documento è pronto: verrà presentato nei prossimi giorni al Quirinale, durante la prima riunione del Consiglio Supremo della Difesa presieduto da Sergio Mattarella. Fare quadrato sul Colle è l’ultima speranza dei generali per risolvere almeno le questioni più urgenti. Il nuovo capo dello Stato conosce la materia benissimo. È stato lui il ministro che nel 2000 abolì la leva, spiegando: «Queste missioni richiedono la disponibilità di uno strumento militare più moderno ed efficiente, dotato di grande professionalità e proiettabilità esterna». Proprio quello che serve oggi.