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 2015  marzo 06 Venerdì calendario

«CREDO NELLA GIUSTIZIA DEI TRIBUNALI, NON

IN QUELLA DELLE CARCERI» [Intervista a Mario Rossetti] –
I sei finanzieri che arrivano all’alba, lo ammanettano e portano via pure le catenine d’oro dei figli con incise le dediche dei nonni. Il sequestro di tutti i beni. Anche di quelli della moglie. L’accusa infamante di associazione a delinquere transnazionale. L’immersione nel gorgo kafkiano delle carceri italiane. L’assoluzione, nel silenzio imbarazzato di chi lo aveva sbattuto in prima pagina. Quella di Mario Rossetti, 51 anni, ex direttore finanziario di Fastweb, è una storia da film. Lui ci ha scritto un libro: Io non avevo l’avvocato (Mondadori).
Rossetti entra a San Vittore il 23 febbraio 2010. È accusato di aver partecipato a un carosello di false fatturazioni milionarie nel caso Fastweb-Telecom Italia Sparkle. Poi viene trasferito a Rebibbia. Si fa otto mesi di domiciliari. Il 17 ottobre 2013 arriva la sentenza di primo grado: assolto. L’intervista si svolge nella sua casa meneghina. Il terrazzo si affaccia (beffardamente?) sulla sede del Tribunale di Milano. Il manager legge e traduce la frase di Cicerone incisa sulla facciata: «Sumus ad iustitiam nati… Siamo chiamati alla giustizia sin da quando siamo nati…». Sorride amaro. Appena ci sediamo confesso: «Di lei e di Silvio Scaglia, l’ex amministratore delegato di Fastweb, anche lui accusato, incarcerato e poi assolto, ho sempre pensato: se sono finiti in prigione un motivo ci sarà». Replica: «In Italia sembra naturale diffidare di chi ha successo professionale. E ipotizzare che uno possa essere bravo e innocente è troppo banale». Io: «È difficile immaginare che nel 2015 si possa finire nelle patrie galere senza aver fatto nulla e senza aver nulla da rimproverarsi». Lui: «Se così non fosse non avrei avuto il coraggio di scrivere questo libro». Chiedo: «Non lo ha scritto per influenzare il processo d’appello?». Risponde: «No. Gli avvocati me lo hanno addirittura sconsigliato. L’ho scritto per tre motivi: i miei figli, l’utilizzo violento della custodia cautelare e l’inutilità del carcere».
Partiamo dalla custodia cautelare.
«Io sono figlio di un carabiniere. Credo nella giustizia e ho avuto giustizia in un’aula di tribunale. Ma perché in Italia si nega così facilmente la libertà a un indagato? Se anche fossi stato colpevole io non avrei potuto reiterare il reato né inquinare le prove perché nel 2010 avevo lasciato il mio ruolo operativo in Fastweb da 5 anni. E non c’era nessun pericolo di fuga. Sa qual è la verità?».
Qual è?
«Gli stessi magistrati hanno talmente poca fiducia nel sistema giudiziario che intanto ti fanno scontare la pena preventivamente. Mentre parliamo ci sono circa diecimila persone in carcere senza aver subito neanche il processo di primo grado. Nel mio caso c’è stato anche lo sputtanamento mediatico gratuito, che ha avuto un ruolo importante nel procedimento».
Perché?
«Inserire tra gli accusati i vertici di una società telefonica ha dato visibilità a un’inchiesta che altrimenti sarebbe stata una semplice storiaccia di malavita».
Mentre era in carcere ha mai pensato di confessare qualcosa pur di uscire?
«Se avessi avuto qualcosa da confessare lo avrei fatto dopo 30 secondi. I pm mi hanno accusato seguendo il principio per cui una persona con la mia competenza non poteva non capire che era in corso una truffa miliardaria con la complicità di due dipendenti Fastweb».
Lei crede nella giustizia, ma non ama i pm. Le piace la “riforma Orlando” che prevede la responsabilità civile dei magistrati?
«Mi pare che vada nella giusta direzione. Se un chirurgo perde sotto i ferri cinque pazienti il sesto lo si fa curare a qualcun altro. Se su dieci persone che un pm sbatte in galera poi nove risultano innocenti gli si può consigliare di fare un altro mestiere? Lo sa ogni anno quante persone finiscono in carcere e poi risultano innocenti?».
No.
«Nemmeno io. Ho chiesto il dato a ministeri, tribunali, giornali, radio… Ma niente. È un mistero. Le pare normale? Ecco, senza modificare le prerogative dei pm e magari affidandone a loro la gestione, sarebbe bello che nei nostri tribunali ci fosse più trasparenza e accountability».
Il carcere.
«Non rieduca. Educa… a delinquere. Sono uscito con una cultura approfondita sullo spaccio e le rapine».
Non esageri.
«Bisognerebbe fare una riflessione seria e culturalmente alta su che cosa vogliamo che sia il carcere in Italia. Invece gli unici a parlarne sono i radicali…».
Lei si è fatto un’idea?
«So che non dovrebbe essere come è. In questo momento ci sono circa 50 mila persone che poltriscono dentro strutture antiquate e inadeguate a qualsiasi intento rieducativo. Il sistema carcerario costa circa 3 miliardi di euro all’anno. Tre miliardi per mantenere luoghi in cui ci si ammala e si muore. L’anno scorso ci sono stati 43 suicidi tra i detenuti e una dozzina tra le guardie carcerarie. Lì dentro si vive nell’illegalità e nel disagio».
Il suo disagio.
«Oltre alla claustrofobia di cui nessuno ha tenuto conto? L’impossibilità di provvedere alla tranquillità della mia famiglia, dei miei figli. Al momento dell’arresto erano troppo piccoli per capire che cosa stesse succedendo, ma abbastanza grandi da ricordarsi il padre in manette. La violenza principale i pm l’hanno usata contro di loro. E contro mia moglie Sophie, lasciata con tre figli senza i soldi per pagare le bollette».
I magistrati pensavano che i suoi beni fossero frutto di illeciti.
«Neanche i figli minorenni di Totò Riina andrebbero lasciati senza i soldi per mangiare e sopravvivere».
Dopo il carcere e gli arresti domiciliari lei ha ripreso a lavorare?
«Sì, faccio soprattutto consulenze. Quando ho lasciato Fastweb, nel 2005, mi sono iscritto a un master triennale per imprenditori ad Harvard. Ogni volta che tornavo in Italia pensavo con tristezza alle differenze tra il modo di fare business negli Stati Uniti e in Italia. Se potessi vorrei spiegare ai pm che mi hanno fatto arrestare che cosa vuol dire fare impresa nel nostro Paese».
A cena col nemico?
«Con Piero Grasso».
Il presidente del Senato?
«Sì. Nel 2010 era procuratore nazionale antimafia. Il giorno del mio arresto commentò soddisfatto che quello che emergeva dalle indagini era una “strage di legalità”. Ora, un magistrato non può e non deve scusarsi, ma la seconda carica dello Stato, forse qualche parola sul nostro caso potrebbe spenderla».
Nel suo libro lei racconta che al momento dell’arresto chiamò Lucio, un amico avvocato. Perché allora ha intitolato il volume Io non avevo l’avvocato?
«Il titolo me l’ha suggerito l’attore Antonio Albanese, a cui una sera ho raccontato la mia storia. Il senso è che non essendo io un delinquente al momento dell’arresto non avevo un avvocato pronto a intervenire. Chiamai Lucio perché con lui corro spesso all’alba e ho immaginato che fosse sveglio».
Corre ancora?
«Quattro volte a settimana. Con un gruppo di amici. Ci chiamiamo i Turbolenti. La corsa è uno dei segreti della mia sopravvivenza».
Il suo libro diventerà un film?
«Non lo so. Non credo».
Il suo film preferito?
«Dovrei dire Train de vie perché è il film mio e di mia moglie. Ma ho amato molto anche La versione di Barney».
La trasmissione tv?
«MasterChef è un must per i miei figli. Lo vedo con loro».
La musica?
«The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd».
Il libro?
«La linea d’ombra di Joseph Conrad».
Ha letto molto in carcere?
«Sì, ma cose leggere, soprattutto gialli, Camilleri…».
Pensavo che mi dicesse che ha studiato a memoria Il conte di Montecristo: storia di una carcerazione ingiusta e di una vendetta feroce.
«Non credo che la vendetta ti possa restituire nulla. E mi creda quando le dico che non ho scritto il libro per un interesse personale. L’ho scritto per chi non può reagire. Io, a differenza di migliaia di persone che subiscono ingiustizie, ho la fortuna di avere una voce e, paradossalmente, ho avuto la fortuna di essere stato costretto dalla sfortuna ad andare oltre».
La fortuna della sfortuna?
«È un paradosso. La sfortuna è stata la malattia che si è portata via il mio figlio più piccolo, Leone, nel febbraio 2014. Aveva cinque anni. Da quel momento la prospettiva della mia vita è cambiata. E i miei guai giudiziari sono andati sullo sfondo».