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 2015  marzo 06 Venerdì calendario

UN TARANTINO PUGLIESE


Esterno, (Mezzo)giorno. Di fuoco. Come il sole quando batte sul Tavoliere delle Puglie, nelle lunghe giornate d’estate. Contadini disfatti dalla fatica tornano dal lavoro nei campi di pesche e di mandorle, richiamati dall’assordante suono della sirena posta in cima alla torre civica. Si riparano all’ombra fresca delle case di tufo e si preparano a mangiare il loro pranzo, frugale quanto basta, in quel Dopoguerra liberato dagli alleati. Fuori, silenzio assoluto e riccioli di polvere, alzati dal “faugno”, il vento caldo che brucia le piante di finocchio selvatico, cresciute qua e là sul ciglio della strada. Già, il vento. Ecco a un tratto un rumore secco e ripetuto, come una raffica di mitra: ta-ta-ta- ta-tam!!! A terra, rovesciate, una decina di sedie di legno, lasciate fuori dall’uscio in attesa del fresco del tramonto, per scambiare qualche parola col vicino, prima che il sonno chiami verso una nuova alba di fatica. Il contadino si alza di scatto da tavola. Esce in strada, per capire l’origine di quel rumore. Poco più in là, nella luce accecante, un manipolo di ragazzini corre ridendo, consapevole e orgoglioso della marachella. «Ca v’jonn acceid...» urla l’uomo. Che poi è la variante pugliese di « Ve postino ammazzà». «È stat ‘u vint». È stato il vento, è la risposta beffarda del capo banda. O meglio del “regista”, visto che quel ragazzino è un giovanissimo Fernando Di Leo, che forse ancora al cinema non ci pensa, ma evidentemente lo cova dentro di sé. Organizzando giochi e scherzi, facendo muovere i suoi amici, attori inconsapevoli, su un set degno di quei western all’italiana che scriverà vent’anni dopo.
Teatro della scena è il suo paese natale, San Ferdinando di Puglia, colonia agricola “inventata” a metà dell’Ottocento in riva all’Ofanto dal giovane re Ferdinando II di Borbone, che intendeva così dare lavoro e salute a una cinquantina di famiglie provenienti dalle malsane saline di Barletta (l’attuale Margherita di Savoia, nda). Prima di emigrare a Foggia per studiare giurisprudenza, e a Roma per fare il cinema, prima di diventare il maestro del poliziesco all’italiana, e l’idolo di Quentin Tarantino, Fernando Di Leo è stato un bambino felice. Più felice della media dei bambini nati attorno al 1930 (Di Leo è del ’32), con l’adolescenza sospesa fra il fascismo, la guerra e la fame nera di quelle campagne, prima che un certo Giuseppe Di Vittorio, dalla vicina Cerignola, gridasse ai latifondisti che «gli uomini son tutti uguali» (anticipando Guccini). Fernando Di Leo era fortunato. Padre e nonno avvocati, madre insegnante; nell’elegante casa di famiglia, che ancora fa bella mostra di sé affacciata sull’enorme piazza Umberto I, non mancava niente. E questo permetteva sogni sgombri dal fardello della povertà.
«Era un tipo molto umano, affettuoso, difficile che non legasse con le persone», racconta Sabino Del Negro, l’amico del cuore col quale mantenne, ormai famoso, un frequente rapporto epistolare che dimostra l’attaccamento alle sue radici. «Gli piaceva stare in comitiva, giocare, ma guai a toccare un suo amico. Odiava iprepotenti, quelli che aggredivano i più deboli. Era forte, robusto, e menava. Se vedeva qualcosa di storto gli partivano i cinque minuti: “Tu sei uno stronzo!“diceva al bullo di turno “Non te la prendere con lui, prenditela con me”. E partiva la scazzottata». Un po’ come i protagonisti dei suoi gialli d’azione, Milano calibro 9 o La mala ordina.
Il giovane Fernando era già molto attratto dalla bellezza femminile, presenza costante dei suoi film, da Lilli Carati a Gloria Guida, da Barbara Bouchet a Ursula Andress. «Intorno ai 14-15 anni quando vedeva una bella ragazza», spiega Sabino, «diceva “Quella lì domani me la porto“, che significava quella cosa lì. E ci riusciva. Non sempre, ma spesso. Noi ce ne accorgevamo perché mancava due o tre ore, e quando tornava gli chiedevamo “Dove stavi?”. Non diceva niente, ma il suo sorriso valeva più di una risposta».
Il punto d’incontro della combriccola era ‘n mezz ‘a chiezz. A chiezz era l’enorme piazza Umberto I. Lì ci si trovava (lì ci si trova ancora oggi, ndr) e si decideva cosa fare. «Spesso andavamo in campagna, acchiappavamo le lucertole, bevevamo il vino di nascosto, qualche volta giocavamo a calcio. Eravamo molto uniti, come una famiglia. Lui però era il capo, anzi, il regista. A volte organizzava i movimenti della compagnia, quasi mettendoli in scena. Sembrava che stesse facendo del cinema. Aveva l’istinto. Gli balenava in mente un’idea, e la rendeva subito reale».
A San Ferdinando non mancava il cinema. «Da Marèin...» dicevano i vecchi, «da Marino», perché la piccola sala situata in fondo al corso, pochi metri prima di una splendida terrazza panoramica affacciata sugli uliveti del Tavoliere, aveva preso il nome dal suo proprietario. Una struttura piccola, poco più di cento posti, con il tetto a volta e la cabina di proiezione ricavata in una “gobba” costruita appositamente in facciata. Una sala fumosa, che programmava “i Tommix” (appellativo mutuato dal nome della star del muto Tom Mix, ma valido per tutti i western), i Maciste, gli Amedeo Nazzari. È lì che il giovanissimo Fernando Di Leo vide i suoi primi film. Non moltissimi a dire il vero. «Il cinema costava e se lui poteva permetterselo, non sempre gli altri della compagnia avevano in tasca gli spiccioli per pagare il biglietto», racconta Del Negro, «così spesso era Fernando a “finanziare“ la comitiva. Era un generoso. A volte diceva “‘uagliò, sciam a mangè qualche cous...” e ci portava a mangiare un panzerotto, pagando per tutti». E poi c’era l’opzione “metà-prezzo”: il gestore del cinema, con un invidiabile senso del marketing, “ritagliava” l’offerta addosso al cliente, e se il ragazzino aveva metà dei soldi necessari a vedere il Film... gliene faceva vedere metà: il primo o il secondo tempo, a scelta!
«Comunque non posso dire che la sua idea di fare il cinema sia nata al cinema», ammette l’amico d’infanzia, «tanto è vero che quando attraversavamo la piazza, dove in bacheche illuminate erano esposte le locandine dei film in programmazione, Fernando ci passava davanti senza farci caso. Lui non guardava lì, guardava nel suo intimo desiderio di andare a Roma. Conosceva le sue qualità, ma non le esternava. Si confidava solo con me, e più volte me l’ha detto, battendomi una mano sulla spalla: “Un giorno mi vedrai a Cinecittà”. Sapevo che prima o poi sarebbe successo». E infatti l’adolescenza finisce, e ognuno prende la sua strada. Quella di Fernando Di Leo porta prima a Foggia, per studiare giurisprudenza, e poi a Roma, per fare il cinema. Lì conosce Sergio Leone, scrive Per un pugno di dollari, e il resto è storia.
«Non ne seppi più niente per anni» racconta Sabino Del Negro. «Era come sparito. Fino a quando non vidi Per un pugno di dollari, e poi Per qualche dollaro in più in cui era aiuto-regista. Ho fatto un salto di gioia e ho pensato: “Che fetentone: ce l’ha fatta”. Allora mi decisi, andai a Roma e lo andai a trovare, alla sede della sua società che aveva chiamato Daunia film in onore della nostra terra. Lui mi accolse con grande affetto. Aveva poco tempo a disposizione, ma me lo dedicò volentieri. E da lì partì un sodalizio epistolare che durò anni. Mi scriveva nelle pause della lavorazione dei film, mentre mangiava un panino sul set, mi aggiornava sui progressi del suo lavoro, sulle sue titubanze, sui momenti difficili. Mi diceva che La bestia uccide a sangue freddo era il suo film più brutto, ma che Milano calibro 9 sarebbe stato il più bello. Mi confidava di voler girare un documentario su San Ferdinando e si doleva di non riuscire a portare al paese Ursula Andress o Barbara Bouchet. Ma sempre e comunque, nelle sue lettere, c’erano appartenenza, ricordo, orgoglio per una terra, la sua gente, i suoi frutti, che non ha mai dimenticato. Chiedeva di inviargli primizie (ma voleva pagare lui la spedizione), esprimeva il suo affetto per tutti i suoi concittadini, e concludeva “Sono e mi sento Sanferdinandese”. Forse è tempo che San Ferdinando si ricordi di lui».