Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  marzo 06 Venerdì calendario

RICOLFI: «VUOI LA RIPRESA? ABBATTI IRAP E IRES»

Sta preparando un convegno milanese con la sua Fondazione Hume e con la Adam Smith Society, il professor Luca Ricolfi. Il titolo dell’evento, previsto per lunedì 9 marzo, parla chiaro: «Al lavoro! Realtà, speranze e delusioni del Jobs Act» (info su adamsmith.it). Di lavoro ma anche di ripresa economica vogliamo parlare con questo sociologo torinese, classe 1950, ordinario di Analisi dei dati all’Università di Torino e commentatore autorevole de La Stampa e di Panorama.
Professore, l’altro ieri un altro studioso, Carlo Pelanda, diceva, su queste pagine, che la via della ripresa è tagliare le tasse sulle imprese più che dare gli 80 euro. Ne è convinto anche lei?
«Certo. Dai mie calcoli econometrici, rilevo che neppure la riduzione della pressione fiscale tout court è risolutiva per far ripartire l’economia. Conta invece il taglio delle imposte societarie, parlo di Ires ed Irap: statisticamente, producono effetto crescita per maggiore».
Ne parlava anche nel suo L’Enigma della crescita, uscito lo scorso anno. Di quanto dovremmo scendere, secondo i suoi calcoli?
«Almeno di 15 punti percentuali. L’Irlanda sta uscendo dalla crisi con questo sistema. Ma da noi è politicamente scorretto dirlo».
Si preferisce parlare di taglio del cuneo fiscale, ossia dal differenziale fra costo del lavoro e imposte, ma non solo dal lato dell’azienda, quanto anche da quello del lavoratore.
«Intervenire vorrebbe dire che l’importante non è tanto tornare a crescere, ma crescere un po’ e fare occupazione».
Sbagliato?
«Secondo me è preferibile preoccuparsi di tornare a crescere ma comprendo quanto sia importante aumentare l’occupazione, per una ragione sociologica, per così dire. D’altra parte, fra le 34 maggiori economie dell’Occidente, siamo quelli messi peggio per quanto riguarda il tasso di occupazione. Ci mancano sei milioni di posti di lavoro. E non è sempre stato così, le assicuro».
Beh, la nostra tradizione industriale è più recente che altrove...
«Sì, diciamo sempre dell’industrializzazione tardiva, dell’effetto del fascismo corporativo, di una modernizzazione lenta di un paese agricolo ma, guardando le serie storiche sull’occupazione, e parlo dell’ultimo mezzo secolo, si vede che 30 anni fa eravamo in media Ocse. In ogni caso, se la priorità è aumentare l’occupazione, la riduzione del cuneo ha una sua efficacia».
Intanto è partito il Jobs Act è partito. Servirà?
«Quello che prevedo è una bolla nel 2015».
Alla fine non proprio ottimista perché le bolle, prima o poi, scoppiano...
«Ma la ragione è semplice. Gli sgravi sono partiti da gennaio mentre il nuovo contratto a tutele crescenti parte a fine mese, cioè quando i regolamenti vanno in Gazzetta Ufficiale, cioè tre mesi dopo».
Questo décalage, questo sfasamento temporale, conta?
«Sì perché gli sgravi riguardano solo per tre anni e solo gli assunti 2015: tra 10 mesi l’imprenditore non potrà più assumere con gli stessi incentivi. Allora avremo un arraffa arraffa ad assumere per avere tre anni sgravi. E ci sarà una corsa al nuovo contratto perché, nei tre anni, li potranno licenziare. Senza contare che comunque la domanda di occupazione era stata compressa a fine 2014, perché le imprese sapevano degli incentivi imminenti ed hanno aspettato ad assumere. Insomma, bisogna dargliene atto, il Ragazzo ha compiuto un altro piccolo capolavoro».
Intende Renzi, immagino.
«Certo. Quando gli conviene corre, come per il Jobs Act, quando c’è qualche problema, come per i precari della scuola, rallenta».
Beh, professore nel frattempo è arrivato sul Colle un costituzionalista a ricordare che la decretazione d’urgenza ha dei limiti.
«Sì, certo, i richiami di Sergio Mattarella ma solo quando fanno comodo... Comunque prevedo già subito dopo Pasqua, l’inizio di un trionfalismo governativo in materia».
Però in autunno, a ogni angolo, c’era qualche analista che prevedeva la bocciatura della legge di stabilità e l’arrivo della Troika. Niente di tutto questo si è verificato. Non è che per caso, qualche ragione Renzi ce l’ha?
«In politica esiste anche il fattore «c», importantissimo».
Certo, la buona sorte è essenziale a ogni buon progetto politico.
«In genere, in Italia, questo fattore ce l’ha la sinistra».
Prego?
«È un’osservazione empirica casuale, glielo premetto».
Non mi dica che ha guardato serie le serie storiche anche per questo.
«Esattamente. Analizzando i tassi, l’economia italiana è cresciuta quando la sinistra è andata al governo, mentre la destra si è beccata la stagnazione. E senza un nesso causale. Fu così anche per Romano Prodi e lo è con Renzi. Fece eccezione Enrico Letta, ma che insomma non è forse uomo troppo di sinistra. In ogni caso il calcolo econometrico degli effetti delle varie politiche deve tenere conto della fase del ciclo».
E lo spread sceso sotto cento? Lei, da tempo, propone un diverso metodo di calcolo, e ricorda che si è ridotto quello verso i bund tedeschi ma anche quello fra noi e i Paesi in condizioni peggiori. Quindi i mercati stanno prendendo un abbaglio?
«Renzi ha la fortuna di governare in un momento di mercati in fase di ottusità».
Spieghiamolo bene.
«Alla Fondazione Hume abbiamo messo a punto un modello che distingue i due stati di eccitazione dei mercati: l’allarme e l’ottusità. Il primo si ha quando i mercati si spaventano per qualche ragione emotiva, sovrastimando il rischio default e, inevitabilmente, contribuendo ad aggravare le crisi che temono, speculandoci sopra. Insomma le profezie che si auto-avverano».
Come l’Italia del 2011?
«Sì, quella crisi, in cui il governo Berlusconi ebbe le sue colpe, fu figlia di questo meccanismo. Al riguardo mi sono convinto che avesse regione il mio amico Renato Brunetta».
Oggi, quindi vivremmo la fase opposta: l’ottusità.
«Esatto. Non è che i differenziali di solvibilità siano poi così diversi, idem per le probabilità di default. Solo che i mercati non se ne accorgono. Lo spread attuale verso la Germania non è realistico. Insomma i nostri e i loro fondamentali economici non sono così vicini».
I mercati chiudono gli occhi, dunque. E perché?
«L’ottusità attuale è dovuta alla Banca centrale europea, alla politica di Mario Draghi, al suo famoso discorso del 2012, alle iniezioni di liquidità degli anni successivi. I mercati non vogliono vedere i rischi. Per questo stiamo lavorando al nuovo modello di spread che lei richiamava, con un metodo che eviti gli iper ma anche gli ipo-spread e che tenga conto solo dei fondamentali».
E il problema qual è?
«Quello che aveva detto Lorenzo Bini Smaghi e cioè che più la politica europea sarà generosa meno gli stati saranno stimolati a fare le riforme. È un’intervista che le suggerisco».
Grazie, ci proverò. Ma diamo un consiglio al Ragazzo, come lo chiama lei che, d’altra parte, prima che diventasse premier, l’aveva elogiato, e quindi non può essere sospettato di idee preconcette. Che cosa c’è da fare?
«Guardi, secondo me, Renzi è di destra anche se deve fingere di non esserlo. Per cui gli consiglierei di fare alcune riforme che, peraltro, non sarebbero né di destra né di sinistra, come le liberalizzazioni dei mercati. Liberi prodotti e servizi, come gli ricordavano, con molte ragioni, Francesco Giavazzi e Alberto Alesina sul Corriere pochi giorni fa».
Qual problema avrebbe Renzi a farle?
«Il suo partito, maggioritario in Parlamento. Se il premier cominciasse a mettere le mani nei servizi pubblici locali, vera discarica di politici trombati, e moltissimi del suo partito, crollerebbe un sistema politico. Me se ci provasse, il Pd si arrabbierebbe non poco. E gli altri partiti pure».
L’altro giorno, sempre sul Corriere, si rimproverava Renzi per il Piano sulla banda larga che, nelle prima versione, staccava la vecchia rete di rame della Telecom nel 2030. Si diceva che era troppo dirigista e statalista. Che ne pensa?
«Su questo non so risponderle. Innanzitutto perché non conosco bene quel settore. E poi perché, non frequentando i palazzi, non ho abbastanza retroscena per capire quali siano i giochi in atto. E lì presumo che ce ne siano».