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 2015  marzo 04 Mercoledì calendario

GOOGLE

Una cittadella in cui ogni giorno transitano circa 30 mila persone il cui abbigliamento va dagli hugs alle infradito, dalla camicia grunge al completo con panciotto e papillon. Un via vai di biciclette colorate che prendi e lasci dove ti serve. Zone relax e ristoro ovunque. Età media: 32 anni. Alla prima occhiata, il quartier generale di Google a Mountain View (California) sembra uno sgangherato e serioso liceo. Dove, però, sono nati Gmail, Chrome e gli altri prodotti per i quali
il fisco italiano ha chiesto a Google milioni di euro di tasse. La storia è controversa (colpa di un vuoto legislativo in Italia) ma sarebbe ormai a un passo dalla soluzione.
UNA DOMANDA A SERGEY E LARRY
Il cuore della cittadella è l’enorme spazio compreso tra Charlie (nessuno oserebbe mai chiamarla mensa)
e il Campus, un piazzale pieno di ombrelloni e tavolini in cui tutti sembrano perder tempo. E invece lavorano, però come si lavora qui. Ovvero perdendo tempo nel modo giusto: ogni dipendente per contratto impiega il 20 per cento del suo orario di lavoro facendo altro. Nel Campus, si testano sui colleghi i Doodle (i loghi animati diventati un tratto distintivo della home page di Google) per capire se funzioneranno. Si studiano lingue, dialetti e inflessioni di tutto il mondo per rendere più precisi i comandi vocali dei cellulari. Un Paese dei balocchi elettronici in cui tutti sono concentratissimi pur avendo l’aria di essere in vacanza. Sarà che al lavoro possono portarsi il cane (che ha il suo badge), farsi raggiungere dalla famiglia per pranzo, giocare a beach volley, fare l’orto o la pennichella in una sorta di conchiglia. Anche l’ultimo arrivato chiama per nome Sergey Brin e Larry Page, fondatori di Google 16 anni fa, che nel 2014 hanno fatturato 68 miliardi di dollari. E con loro parla ogni settimana al Tgif, thank God is friday (per fortuna è venerdì), «un incontro in cui Sergey e Larry condividono la loro visione su tutto. Rendere chiari obiettivi e missione dell’azienda è fondamentale perché chi ci lavora si fidi. Perché se non ti fidi non dai il tuo meglio», dice Frederik Pferdt, a capo del settore Innovazione e Creatività e co-fondatore del luogo più emblematico della filosofia di Google: il Garage.
CI VEDIAMO IN GARAGE
È una specie di hangar, aperto 24 ore al giorno, sette giorni su sette, in cui si va a fare taglio e cucito, stampare in 3D, giocare con Lego o plastilina. In orario di lavoro. «Tutti noi nasciamo creativi, trovare soluzioni creative è nel nostro Dna. Ma osservando il mio primo figlio, che ora ha cinque anni, ho capito che abbiamo un picco di creatività all’asilo. Per questo ho voluto un ambiente simile qui, dove persone, idee, materiali e strumenti diversi tra loro potessero entrare in connessione. Dove “fare”, senza costrizioni, ruoli o regole. In cui poter pensare come fanno i bambini, senza confini: da piccoli abbiamo sogni enormi, crescendo li rimpiccioliamo, ma così facendo riduciamo anche il numero di cose che sono nelle nostre possibilità». Secondo Frederik, che è anche lettore a Stanford e ricercatore alla Columbia University, il segreto dell’innovazione lo conoscono i bambini ed è da loro che bisogna copiare: «I loro continui, bizzarri “perché?” ti obbligano ad affrontare questioni che non ti saresti posto, portano all’insolito. È il modo giusto
in cui procedere, senza la paura di sbagliare o di fallire, che è una cosa solo degli adulti e limita la nostra capacità di metterci alla prova e sperimentare». Per questo nel Garage si gioca, perché il gioco ridefinisce i confini tra possibile e impossibile, tra quel che c’è e quel che potrebbe esserci. Ognuno qui fa cose che mai avrebbe pensato di fare. Poi capita che chi hai accanto veda nel tuo gioco una possibilità di sviluppo, ci aggiunga del suo, ti aiuti a creare un prototipo. Molti prodotti di Google sono nati così. Ma quando provo a chiederne l’elenco la risposta è spiazzante: «Non è quello il nostro metro di valutazione: i progetti “falliti” sono stati ben più importanti». Perché lo scopo è uno solo: togliere ogni limite alle idee, per quanto strambe e lontane da un algoritmo. Facile pensarla così in Silicon Valley, tra start-up e colossi della new economy. «Vale per qualunque azienda, anche per quelle lontane da Internet. Se il lavoro si fa routine mentre il mondo intorno cambia, invecchi e muori. Devi innovare, sbirciare il futuro e attrezzarti per tempo». Già. Ma come? «Ripensandoti di continuo. Lasciando libertà ai dipendenti, senza imbrigliarli in strutture troppo rigide per essere innovate. Soprattutto, motivandoli, rendendo chiari obiettivi e missione, dando la possibilità a ciascuno di lavorare a quello che li appassiona, perché se loro amano quello che fanno tu sei certo che faranno di tutto per raggiungere risultati». Ispirare, non obbligare. E rendere tutti parte di un progetto. «E sai qual è la cosa più bella? Che tutto questo è gratis: dare libertà alle persone non costa nulla e rende in termini di innovazione e creatività», dice Frederik. Sospiro.
POLIGLOTTI GRAZIE A JULIE
Frederik riprende il suo skateboard e torna a casa. Raggiungo un open space in cui tra le scrivanie sono disseminati divanetti, porte bianche su cui “appuntare” pensieri sparsi. Incontro Julie Cattiau, parigina, 26 anni, viso e fisico da modella. L’anti ingegnere, a dar retta agli stereotipi. Ha iniziato a lavorare a YouTube, a Londra, poi è arrivata in California e qui, un paio di mesi fa, è diventata product manager del Traduttore di Google. È una funzione (ma anche un’app per Android e iPhone) che permette di tradurre testi dettandoli, fotografandoli, scrivendoli su tastiera o col dito sullo schermo touch.
“TI AMO” IN TUTTE LE LINGUE
«Tra le altre cose, il mio lavoro consiste anche nel decidere come migliorare questo algoritmo», dice, impaziente di farci vedere come funziona l’ultimo sviluppo dell’app, lanciato a gennaio. Si chiama Word Lens e consente di tradurre all’istante testi inquadrandoli col cellulare: «Per ora può farlo solo in sette lingue (italiano compreso)». Solo? «Le altre funzioni del Traduttore funzionano in 90 lingue. Lo scopo è trasformare il telefono in un vero traduttore per qualsiasi circostanza e lingua del mondo, sempre più preciso. Capisci quanto devo lavorare ancora?», sorride. Nel suo team, un gruppo di ingegneri tedeschi, armeni, romeni. Nessun italiano e solo altre tre donne. Poche, faccio notare. «Per ora», precisa lei, prima di svelarci una statistica che ha scoperto tra le pieghe dell’algoritmo del traduttore: «Sai quali sono le prime tre parole tradotte da voi italiani col nostro Traduttore? “Ciao”, “Ti amo” e “Grazie”. Lo usate per rimorchiare. Ma non siete gli unici. È così anche in Francia. È l’app dell’amore, sotto San Valentino il suo uso aumenta del 20 per cento», sorride Julie, che per questo si sente un po’ un Cupido cosmopolita. «Molte di queste storie ce le raccontano anche. Ci ha scritto un tizio per dirci che grazie al Traduttore è riuscito a parlare col papà della sua fidanzata, ucraina, per chiederla in moglie».
Frederik è tedesco, Julie francese. Come si trovano due figli della vecchia Europa in Silicon Valley? «Si sta bene, fai tutto col cellulare e chiunque incontri a una festa lavora a un progetto cool. Ma mi manca la storia dell’Europa, l’aria di casa, per quello ho un fidanzato francese», dice Julie.