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 2015  marzo 04 Mercoledì calendario

LA RICETTA DEL SUCCESSO

Lommedalen, Norvegia, aprile 1999. Il sole luccica, è uno di quei pomeriggi di primavera in cui la neve finalmente comincia a sciogliersi e i bambini vanno a giocare ai giardini. Tutti, tranne Magnus. Ogni giorno, all’uscita da scuola, Magnus Carlsen attraversa il villaggio di casette di legno, infila la porta della casa in cui vive con mamma Sigrun e papà Henrik, entrambi ingegneri, e siede di fronte alla scacchiera. Da solo. Il suo più grande divertimento è spostare alfieri e cavalli fino a scovare la mossa vincente che metta in difficoltà un avversario immaginario, e poi girare intorno al tavolo per mettersi nei panni dell’avversario e dargli la rivincita. Chennai, India, 22 novembre 2013. Magnus Carlsen, 22 anni, strappa il titolo di campione del mondo a Viswanathan Anand, 44, che ha il doppio dei suoi anni e tiene stretto il titolo dal 2007.
Se vi state chiedendo se Magnus Carlsen è un ragazzo dall’intelligenza straordinaria, la risposta è sì. Ma se pensate che questo sia bastato a Magnus per polverizzare Anand e conquistare il titolo, vi sbagliate. Perché la ricetta del successo, quello vero, è un’altra. E sta tutta in un numero, anzi, in un tempo: 10 mila ore.
A scoprire la formula è stato Anders Ericsson, uno psicologo americano dell’università del Colorado. Intervistando un gruppo di violinisti professionisti, Ericsson ha scoperto che tutti loro hanno cominciato a suonare il violino verso i cinque anni, e per i primi due o tre anni hanno suonato una media di due o tre ore a settimana. A otto anni, però, ognuno ha cominciato a dedicare al violino un tempo di studio diverso. Il risultato? A parità di talento, di insegnanti e di studi al Conservatorio, i violinisti più affermati intervistati dallo studioso a vent’anni avevano già suonato per almeno 10 mila ore, quelli bravi ma non famosi si erano assestati sulle 7 mila e i meno noti non avevano superato le 4 mila. La teoria delle 10 mila ore è nata così.
A renderla popolare e a divulgarla nel mondo sotto forma di libro (Fuoriclasse, storia naturale del successo, Mondadori 2009) è stato Malcolm Gladwell, firma del New Yorker, che ha preso alcuni esempi di fuoriclasse e dimostrato come siano riusciti a eccellere nel loro campo. Talento e circostanze contano, spiega Gladwell, ma non sono nulla senza un esercizio costante e la capacità di perseguire un obiettivo con tenacia. Prendete Bill Gates. Nel 1968 Bill ha 13 anni e frequenta la Lakeside Academy, una scuola privata per i figli della borghesia di Seattle. Ogni anno, alla Lakeside, l’associazione dei genitori raccoglie dei fondi da destinare alle attività extrascolastiche: corsi di teatro, gite, le divise per la squadra di basket. Questa volta, invece, i genitori hanno deciso di investire in qualcosa di avveniristico (e apparentemente inutile): un elaboratore elettronico, praticamente l’antenato di un computer. Bill si appassiona talmente tanto che si chiude nel laboratorio d’informatica di pomeriggio, di notte, nel weekend, tanto da far crollare il suo rendimento scolastico. Quando arriva all’università, nei primi Anni 70, Bill Gates è giovanissimo. Ma ha già 10 mila ore di programmazione alle spalle, in un momento in cui tutti sono ancora agli esordi. È quello che farà la differenza del suo destino.
Un altro esempio? Andre Agassi. Quando aveva solo due anni suo padre Emanoul, un ex pugile di origine iraniana, decise di fare di lui un campione di tennis. Gli costruì una macchina sparapalle che lo obbligasse a provare senza sosta diritti e rovesci, e lo obbligò ad allenarsi almeno quattro ore al giorno. Il suo era un progetto preciso e ambizioso: «Se colpisci 2.500 palle al giorno, cioè 17.500 la settimana, cioè un milione di palle l’anno, non potrai che diventare il numero uno», ripeteva Emanoul al piccolo Andre, che avrebbe voluto dar fuoco alla racchetta ma campione lo è diventato, come ha raccontato nella sua autobiografia, Open.
I Beatles in Germania diventarono i “Beatles”
E se dal tennis passiamo alle chitarre, la solfa non cambia. Quando i Beatles cominciarono a suonare insieme, erano poco più che un gruppetto di liceali allo sbaraglio. Nel 1960, però, il manager di un locale tedesco li invitò a esibirsi ad Amburgo. La paga non era un granché, il pubblico più che alla musica era interessato alle birre, in più il direttore del night club era stato chiaro: la band doveva salire sul palco a inizio serata e suonare fino a quando l’ultimo ospite non avesse lasciato la sala.
Tra il 1960 e il 1962 Paul McCartney e i suoi compagni fecero cinque viaggi in Germania, dove si esibivano ogni sera, sette giorni su sette, per almeno cinque ore. E questo cambiò tutto. «A Liverpool non avevamo mai suonato per più di un’ora, facevamo i nostri pezzi migliori, sempre gli stessi. Ad Amburgo fummo costretti a stare sul palco per nottate intere, non potevamo ripeterci all’infinito: doversi inventare di sana pianta un altro modo di suonare fece la differenza», raccontò John Lennon.
Certo, la teoria delle 10 mila ore ha un suo rovescio della medaglia. Per cominciare, bisogna tener conto del fatto che 10 mila ore sembrano poche, ma non lo sono. Parliamo di quattro anni di lavoro full time, otto ore al giorno, sette giorni su sette, con pause consentite solo a Natale, Capodanno e Ferragosto. Irreale. Eppure, assicura Ericsson, se il vostro sogno è sempre stato quello di suonare il violoncello o imparare il cinese, si può fare. Anzi, c’è chi ci sta già provando.
Dan McLaughlin, un fotografo americano di 30 anni, il 5 aprile 2010, dopo aver seguito un torneo internazionale di golf alla tv, ha fatto una scommessa: «Diventerò un campione di golf, come Tiger Woods». Perché il golf? «È uno sport di cui non sapevo nulla, non avevo mai preso un ferro in mano in vita mia», racconta lui. «L’ho scelto perché potevo partire da zero, perché con il sistema degli handicap ogni progresso si traduce in numeri e perché non serve un fisico geneticamente predisposto». Per raggiungere il suo obiettivo, Dan si è ispirato alla teoria delle 10 mila ore, ha cercato un allenatore e gli ha chiesto di ideare un programma: sei ore di pratica sei giorni alla settimana, per sei anni. «Spendo un sacco di soldi di lezioni, ma confido di recuperare tutto quando comincerò a gareggiare e ad avere degli sponsor», dice lui, che da quattro anni racconta conquiste, delusioni e statistiche del suo progetto sul blog thedanplan.com. Nell’ultimo torneo, Dan si è classificato quarto. Avrebbe potuto vincere, ma qualcosa è andato storto proprio all’ultima buca. Ma c’è tempo: alla scadenza delle 10 mila ore ne mancano ancora 3.333.