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 2015  marzo 05 Giovedì calendario

RIVELAZIONI

Yara Gambirasio e Massimo Giuseppe Bossetti si conoscevano. Quella che durante la fase delle indagini sull’omicidio della ginnasta tredicenne di Brembate di Sopra era soltanto un’ipotesi sussurrata a bassa voce, con la chiusura dell’inchiesta e con il deposito degli atti è diventata realtà investigativa.
I Carabinieri del Ros e la Procura di Bergamo non hanno più dubbi e lo hanno scritto nero su bianco: fra la tredicenne di Brembate e il muratore di 44 anni, dal giugno 2014 arrestato con l’accusa di averla uccisa, c’era una conoscenza.
Era iniziata almeno tre mesi prima della scomparsa di Yara (avvenuta il 26 novembre 2010), quando una testimone racconta di averli visti seduti accanto in una vettura ferma al parcheggio, davanti alla palestra del piccolo centro della Bergamasca. Negli atti processuali si parla di «conoscenza» o di «pregresse frequentazioni», le parole più neutre per classificare in maniera asettica un rapporto difficile da definire. Forse un’amicizia, forse un’infatuazione: è impossibile stabilirlo con certezza.
Ma basta leggere le carte giudiziarie, e mettere in fila gli elementi raccolti dagli inquirenti, per ricostruire quella che dal loro punto di vista è stata la dinamica nella quale è maturato l’omicidio: Yara fa in modo di andare in palestra con la scusa dello stereo da portare alle compagne, quindi esce dalla palestra dicendo di
dover tornare a casa: invece è consapevole di avere un margine di tempo prima che la mamma s’insospettisca, quindi incontra Bossetti nel parcheggio e sale volontariamente dentro il suo furgone.
A supportare la tesi c’è una prova scientifica, che dimostra la posizione seduta di Yara dentro il veicolo. Del resto, nell’atto di chiusura delle indagini firmato dalla pm Letizia Ruggeri, Massimo Bossetti è accusato di omicidio volontario aggravato e di calunnia. Manca il sequestro di persona, perché per la Procura Yara non è stata costretta con la forza a salire su quel furgone.
Questa è la verità scritta negli atti degli inquirenti che, va detto, fin dalle prima battute non hanno mai ricercato la figura del pedofilo che rapisce, tenta di violentare e uccide una bambina. No, la dinamica tracciata dalle analisi sul corpo di Yara fatte da Cristina Cattaneo, la biologa dell’Istituto di medicina legale di Milano, è diversa. Parla di un uomo che quella sera maledetta finisce nel campo di Chignolo d’Isola con Yara e che a un certo punto, per cause ignote, forse a causa di una ribellione della ragazza o per la sua minaccia di raccontare tutto, sente messa in pericolo la sua dimensione familiare e sociale e, in preda al panico, la colpisce per fuggire e lasciarla agonizzante nel campo, dove Yara muore per le ferite e il freddo.
Il quadro indiziario dell’accusa è stato completato grazie alla testimonianza di Alma Azzolin, madre di un’altra ragazza, come Yara frequentatrice della palestra di Brembate: la sua versione dei fatti è arrivata soltanto quattro anni dopo la scomparsa di Yara, un particolare su cui c’è da scommettere battaglierà la difesa nel processo. Ma intanto viene ritenuta credibile dagli inquirenti, al punto da diventare l’anello che fino a ieri mancava: il contatto diretto tra Yara e Bossetti.
Nel giugno 2014 la signora Azzolin è davanti al televisore quando vengono trasmesse le immagini dell’arresto del muratore. La donna ha la sensazione di avere già visto l’uomo da qualche parte. Qualche mese più tardi, sempre alla tv, va in onda un servizio su Yara e mostrano una ripresa dall’alto del centro sportivo di Brembate. A quel punto la signora Azzolin ha un sussulto e corre dai carabinieri. È il 24 novembre 2014 e racconta loro che una mattina dell’agosto o del settembre di quattro anni prima, mentre stava aspettando sua figlia nel parcheggio nel palazzetto dello sport, vi aveva visto entrare una station-wagon di colore grigio chiaro, guidata da un uomo che l’aveva fissata così intensamente da spaventarla.
L’auto si era fermata con il muso verso la siepe, in direzione di via Locatelli. Pochi minuti dopo, la signora Azzolin aveva visto una ragazza entrare di corsa nel parcheggio e infilarsi in quella macchina. La donna aveva pensato a un genitore venuto a prendere la figlia e si era tranquillizzata. L’uomo aveva fra i 35 e i 40 anni, occhi chiari, il viso scavato, il mento affilato, capelli corti di colore castano chiaro. La ragazza dimostrava tra i 13 e 15 anni, era alta 1,60, con una corporatura snella, e portava l’apparecchio per i denti. La signora Azzolin era uscita dal parcheggio, poi c’era rientrata: in quel secondo passaggio la ragazza nell’auto si era voltata «quasi come se non volesse farsi vedere», mentre l’uomo era tornato a fissarla.
Parlando con i Carabinieri, Alma Azzolin si dice certa che l’uomo che ha visto nel parcheggio sia Massimo Bossetti, ma in un primo momento non si sente di garantire l’identità della ragazzina. La donna viene sentita una seconda volta, il 27 novembre 2014, e gli inquirenti le mostrano nuove fotografie di Yara. Su una, in particolare, la teste non ha più dubbi: la riconosce, sì è proprio lei.
I militari del Ros cercano allora d’individuare la data esatta dell’incontro di cui parla la signora. Attraverso incroci tra giorni di allenamenti (della figlia della teste) e ricevute di ristoranti (di Bossetti)arrivano a ipotizzare la mattina di giovedì 9 settembre 2010. Per esserne certi, indagano sulla presenza dei quattro telefoni delle persone coinvolte nell’area vicino alla palestra.
Qui manca l’ultimo tassello: perché i dati raccolti dai Carabinieri «sono compresi fra il 10 settembre 2010 e il 31 maggio 2011». Ma il 9 settembre 2010 il telefono di Yara non registra traffico fino alle 19,51.
In ogni caso, per gli investigatori la testimone è credibile, tanto che concludono: «Bossetti Massimo e Gambirasio Yara erano indicati e riconosciuti dalla Azzolin proprio come i protagonisti dell’episodio avvenuto nel parcheggio».
È la prova delle «pregresse frequentazioni» di Yara e Bossetti, ed è il primo punto di una linea investigativa che viene tracciata negli atti ufficiali. Il 26 novembre 2010 non era un giorno di allenamento per Yara. La decisione di mandare lei in palestra a consegnare lo stereo viene presa dalla mamma lo stesso pomeriggio.
Eppure già quella mattina a scuola Yara rivela all’amica Federica che andrà in palestra. Ne esce alle 18,40 dicendo a una istruttrice: «Torno a casa perché è tardi, altrimenti la mamma si arrabbia». La prima telefonata della mamma preoccupata perché non vede tornare la figlia, però, è delle 19,11, cioè mezz’ora dopo. Messi insieme tutti questi elementi, gli inquirenti ritengono che Yara quella sera avesse un appuntamento e che fosse consapevole di avere a disposizione poco tempo.
In realtà, sempre secondo chi ha svolto le indagini, in quel momento Yara è già salita di sua spontanea volontà sul furgone bianco di Bossetti. Confermano questa tesi le indagini scientifiche svolte dai Ris di Parma, che hanno isolato tracce del tessuto dei sedili sui vestiti di Yara. Le fibre vengono trovate sui legging della ragazza soltanto all’altezza dei glutei e sulla zona
posteriore del giubbino, nella parte bassa della schiena. Questo fa pensare a Yara in posizione seduta, regolare, e porta a escludere che sia stata costretta con la forza.
Gli investigatori non credono all’ipotesi che Bossetti abbia rapito la ragazza per violentarla, perché in quel caso si sarebbe fermato in una delle tante zone deserte sulla strada, e non sarebbe arrivato fino al campo di Chignolo. E nel tragitto Yara si sarebbe dimenata, avrebbe provato a sottrarsi al suo aguzzino: ma di questi tentativi sarebbe rimasta una traccia sui vestiti, con fibre dei sedili presenti in modo più diffuso e confuso. A confermare la «serenità» di Yara c’è la sua scarpa slacciata, un fatto che fa pensare possa essere stata tolta e ricalzata. Si può ipotizzare che Yara l’abbia persa correndo nel campo, ma sua madre ha assicurato che non andava in giro con le stringhe aperte. Oppure si può pensare che possa essersela tolta.
Infine c’è il reggiseno di Yara, trovato slacciato ma integro, in particolare con i gancetti di metallo intatti. E qui le ipotesi scritte negli atti sono due. O non è stato chiuso nel momento stesso in cui è stato indossato: ma la signora Gambirasio ha escluso che fosse un’abitudine della figlia. Oppure è stato aperto manualmente «nelle fasi che precedettero l’exitus della sunnominata». Per «exitus» si intende morte. A volte anche i carabinieri si rifugiano nel latino, per provare a rendere meno amara la realtà.