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 2015  marzo 05 Giovedì calendario

DERIVATI MORGAN «SVINCOLATI» DAL RATING

S&P
A Wall Street, come anche nella piazza di Londra, l’idea che nel 2011 e 2012, declassando il debito sovrano, le agenzie di rating internazionali abbiano ordito un complotto contro l’Italia non la prende sul serio praticamente nessuno. E l’ipotesi poi che Morgan Stanley abbia forzato Standard & Poor’s ad abbassare il rating italiano al fine di incassare tre miliardi dal Tesoro è ritenuta uno scenario dietrologico e bizantino fondato su una serie di coincidenze che confondono le cause con gli effetti.
Ma che credibilità può avere chi popola i templi della finanza speculativa? Ed è dietrologia bizantina pensare che una banca d’affari e una società di rating, insieme, possano aver manipolato il mercato per far soldi? La crisi del 2007, quella in cui le banche d’investimento impacchettavano mutui-spazzatura e le agenzie di rating assegnavano giudizi stellari per farli vendere meglio, ha provato di no. Insomma, la vicenda esplosa in questi giorni con gli addebiti avanzati dalla Procura di Trani contro Standard & Poor’s e Morgan Stanley, merita certamente un approfondimento.
L’ipotesi fatta dagli inquirenti non solo è lineare ma basata su cinque punti. Primo: tra il settembre del 2011 e il gennaio del 2012, S&P ha declassato due volte il debito sovrano italiano nonostante il Governo Monti stesse rimettendo a posto la finanza pubblica. Secondo: l’infondatezza del declassamento è attestata dallo stesso Primo ministro dell’epoca che l’ha subito denunciato come «un attacco all’Europa» non giustificato dalla contingenza economica del Paese. Terzo: l’ingiustificato declassamento ha permesso a Morgan Stanley di esercitare la clausola di uscita da un contratto di derivato e chiedere al Mef una liquidazione di circa tre miliardi di euro. Quarto: Morgan Stanley era azionista di McGraw Hill Financial Inc, società proprietaria di S&P, e quindi aveva il modo per influenzare il giudizio dell’agenzia di rating per potersene avvantaggiare. Quinto: pur sapendo che a Trani c’era un procedimento penale in corso che metteva in discussione la legittimità della misura presa dalla agenzia di rating, il Mef ha prontamente pagato quell’altissimo prezzo.
La ricostruzione, come abbiamo detto, è tanto lineare quanto basata su dati e fatti storici facilmente verificabili. Come ogni migliore teoria del complotto. Ma un’analisi non di parte degli stessi dati e fatti storici porta a una ricostruzione ben diversa. Ritenuta molto più convincente da chi conosce storia, andamenti e meccanismi del mercato finanziario internazionale.
Cominciamo dal primo punto: la decisione di Standard & Poor’s di declassare l’Italia una prima volta nel settembre del 2011 e una seconda nel gennaio 2012. Ritenendolo immotivato, la Procura di Trani disgiunge il giudizio dato da S&P sull’Italia da quello espresso nello stesso periodo su praticamente tutti gli stati del mondo occidentale. Dimentica per esempio che un mese prima del declassamento iniziale dell’Italia (per la precisione il 5 agosto di quell’anno), S&P aveva annunciato un declassamento ben più pesante e aggressivo: quello del debito sovrano degli Stati Uniti, che per la prima volta dal 1941 perdevano così la tripla A. Dimentica altresì che nel gennaio 2012, assieme a quello italiano, S&P ha declassato il debito sovrano di altri otto Paesi europei facendo tra l’altro perdere l’agognata tripla A anche a Francia e Austria e portando il Portogallo sull’orlo del collasso finanziario con un pericoloso BB-. Il 20 novembre 2001, tra l’altro, S&P ha declassato la stessa Morgan Stanley, assieme alle 14 altre banche principali americane.
Insomma si era nel pieno di un ciclo di grandissimo rigore (se non addirittura inflessibilità) delle agenzie di rating chiaramente alimentato dalla necessità, di recuperare credibilità dopo le imbarazzanti rivelazioni sull’“indulgenza” dimostrata nelle valutazioni dei pacchetti di mutui tossici.
Veniamo al secondo punto: la pubblica denuncia di Monti (e di altri politici o economisti italiani). La Procura di Trani la ritiene una prova “tecnica” del suo teorema giudiziario. Ma ignora il fatto che di fronte agli equivalenti declassamenti, i politici di tutti gli altri Paesi hanno reagito in quell’esatto modo.
Poiché anche dopo essersi accorta di aver sovrastimato di duemila miliardi di dollari il deficit americano, Standard & Poor’s aveva confermato la decisione di declassare il debito sovrano per via del «pantano politico», il portavoce del Tesoro Usa ha reagito con parole ben più mirate e deleterie di quelle usate da Monti: «La magnitudine dell’errore e la prontezza con cui si è cambiata la natura della motivazione – da economica a politica – lasciano senza parole. E danno l’idea di un’istituzione che parte da una conclusione e poi costruisce le argomentazioni per provarla. Il che solleva questioni fondamentali sulla credibilità e l’affidabilità dei giudizi di S&P».
Di fronte al declassamento del suo debito, il portavoce del ministero dell’Economia spagnolo ha più diplomaticamente dichiarato di «non essere d’accordo», segnalando che il giudizio era «in contraddizione» con un riconoscimento positivo avuto pochi giorni prima dall’agenzia di rating concorrente Moody’s. In Francia invece, in occasione dell’ennesimo declassamento, il ministro delle Finanze ha dichiarato: «Deploro certi giudizi che ritengo siano frutto di critiche infondate».
Insomma, non c’è stato un Paese al mondo i cui politici non abbiano denunciato l’iniquità della bocciatura subita. Ma c’è da meravigliarsene?
Veniamo al terzo punto. Detto in… soldoni, la Procura dice che il declassamento ha attivato la clausola che ha permesso a Morgan Stanley di incassare circa tre miliardi. Peccato che a Il Sole 24 Ore – e agli atti – non risulta essere così. Lo ha dichiarato nella sua deposizione alla procura di Trani la stessa Maria Cannata, dal 2000 responsabile del debito pubblico italiano presso il Mef. Riportiamo qui lo scambio con il Pm Michele Ruggiero:
Pm: «C’era stato nel settembre 2011 il declassamento da parte di Standard & Poor’s che innescava alcune clausole che credo abbiano determinato la questione Morgan-Stanley del gennaio 2012».
Cannata: «No, no. Mi permetta di precisare che la questione Morgan Stanley… non è stata determinata dal declassamento. Era legata al valore del mark-to market (...)».
Pm: «Ok. Quindi non c’entrava nulla con il declassamento?».
Cannata: «Assolutamente no».
Insomma, senza dubbi o esitazioni, Cannata ha spiegato che il declassamento non era quello che in gergo tecnico si chiama un trigger, cioè non faceva scattare la clausola che permetteva a MS di monetizzare quello swap. Il trigger era piuttosto il cosiddetto rischio di controparte, cioè l’eccessiva l’esposizione nei confronti di un cliente “a rischio” qual era considerata in quel momento la Repubblica Italiana. La banca newyorkese aveva infatti in pancia innumerevoli derivati con il Tesoro che “valevano” svariati miliardi di euro.
Tra l’altro, come ha spiegato Cannata al pm, erano state le stesse autorità di vigilanza americane e inglesi a spingere Morgan Stanley a ridurre il rischio Italia monetizzando:
Cannata: «L’Italia era sotto… diciamo sotto schiaffo, cioè molto esposta e considerata molto debole. Questo venne ritenuto inaccettabile dalle autorità di sorveglianza (…) Noi abbiamo preteso dalla banca che ci facesse una dichiarazione dove, sostanzialmente si dice: le autorità ci dicono che questa esposizione è eccessiva, e dobbiamo assolutamente risolvere».
Il motivo di queste pressioni delle autorità Usa è chiaro: la stessa Morgan Stanley era allora “sotto schiaffo” del mercato. Tant’è che a novembre 2011 un Cds, cioè una “polizza” di copertura dal rischio di un suo default, era quotata a ben 488 punti-base, tanto quanto quella di banche ritenute instabili come quelle italiane.
Quarto punto: la quota che Morgan Stanley aveva in McGraw Hill Financial. Andando a ritroso il Sole 24 Ore ha verificato che effettivamente una quota di circa il 2,75 era all’epoca attribuita a Morgan Stanley. Ma non si trattava della banca, cioè di Morgan Stanley & Co. International Plc, bensì di Morgan Stanley Investment Management, (Msim), cioè della società di gestione che opera in modo del tutto autonomo dalla banca. Non solo: quel 2,75% rappresentava la quota “aggregata”, in altre parole era il totale delle quote di vari fondi gestiti da Msim. E al nostro giornale risulta che gli investimenti su McGraw Hill Financial erano il frutto di ben cinque diverse strategie di investimento (per la precisione: US Mid Cap Growth, US Growth, US Advantage, US Insight e Global Advantage), quindi di almeno altrettanti fondi diversi.
Insomma gli investimenti erano distinti e decisi indipendentemente l’uno dall’altro. Quindi, ammesso e non concesso che S&P fosse pronta a farsi influenzare da uno specifico piccolo azionista della sua società-madre, nessun addetto ai lavori ritiene che quelle quote sminuzzate potessero in alcun modo essere usate come leva per forzare una decisione di rating.
Quinto punto: il Mef ha pagato pur sapendo del procedimento di Trani perché, come ha spiegato Cannata al pm, in quel momento di estrema tensione – quando lo spread superava la soglia di allarme rosso di 500 punti – la decisione dell’Italia di non pagare appellandosi al procedimento di Trani avrebbe avvicinato il Paese al baratro del default. Sarebbe infatti stata interpretata come una flebile scusa per non rispettare gli impegni. E oggi l’Italia sarebbe come o peggio della Grecia.
In conclusione viene da pensare che possano essere questi cinque i motivi per i quali il Mef ha finora esitato a costituirsi parte civile nel procedimento di Trani.
Claudio Gatti