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 2015  marzo 05 Giovedì calendario

QUEL PONTE OLTRE LA CRISI E LE RIFORME CHE SERVONO

Quel ponte oltre la crisi e le riforme che servono
Per uno strano caso di preveggenza, le banconote dell’euro portano sul retro immagini di ponti. Fin dall’inizio della crisi, il ruolo della Banca centrale europea è stato proprio quello di costruire quei ponti. La politica monetaria ha dato ai governi e alle istituzioni europee il tempo necessario a correggere le proprie politiche economiche, permettere alle riforme di dispiegare i propri effetti negli anni e in tal modo superare il burrone della crisi.
Come sappiamo, all’inizio i ponti erano imperfetti e ancor meno adeguate erano le politiche che dovevano rimediare agli squilibri delle economie. Si è arrivati così all’inaugurazione del più colossale ponte monetario che la breve e drammatica storia dell’unione monetaria europea abbia mai costruito: l’allentamento quantitativo (Qe) che prende il via la prossima settimana.
Il ponte è retto da due pilastri: l’impegno politico comune a preservare l’euro; e la fiducia nell’esecuzione da parte dei governi nazionali di politiche economiche adeguate. Nessuno di questi pilastri è del tutto solido. Se lo fossero, non ci sarebbero stati tanti dubbi nel limitare al 20% (molto meno, in realtà) la condivisione dei rischi che l’acquisto di titoli sovrani trasferisce sul bilancio della banca centrale e in ultima istanza sui contribuenti di tutti i Paesi.
Alla fine, accantonare i dubbi politici è stato possibile perché i Paesi dell’euro hanno imparato a ragionare in termini non solo nazionali sulla politica economica dell’area. Anche se ne parliamo troppo poco, gli europei come gli americani devono fare i conti con una trasformazione tecnologica che modifica le condizioni di offerta della produzione. I lavori persi negli anni passati in molti Paesi semplicemente non esistono più, molte imprese non riapriranno nemmeno con la ripresa, il tipo di prodotto che offrivano non ha più un mercato. Con la disoccupazione, si è creato un vuoto anche dal lato della domanda che le finanze pubbliche – entrate nella crisi instabili perché già cariche di debiti – non sono affatto in grado di compensare.
In tali condizioni, con problemi dal lato sia dell’offerta sia della domanda, non restava disponibile altro strumento se non un potente stimolo di politica monetaria.
Inserire la politica monetaria nel policy mix europeo rappresenta un cambiamento importante, che non a caso fa parlare oggi di politiche non convenzionali. L’impianto teorico degli ultimi tre decenni è stato accantonato, privilegiando analisi precedenti che avevano individuato i rischi delle spirali debitorie che si attivano in caso di deflazione.
Leggendo le minute del consiglio della Bce, si capisce che tutti i governatori hanno condiviso la necessità del Qe, anche se con differenti opinioni sulla sua urgenza. In effetti alcuni benefici del Qe, gli stimoli attraverso il calo dell’euro e dei tassi, si sono già visti prima ancora dell’inizio degli acquisti di titoli. Ciò che è difficile valutare è invece la portata degli effetti potenzialmente negativi nel lungo termine dello stimolo monetario. Rimane il dubbio sull’antipatico tema dell’azzardo morale, cioè sul sospetto che alcuni governi sprechino il tempo approfittando del ponte. Rimangono incerti gli effetti su bolle finanziarie che possono assorbire la massa di liquidità e creare squilibri. Inoltre è incerto che tutti i sistemi bancari siano in grado di tradurre la liquidità in crediti all’economia.
Resta alla fine difficile capire se il Qe produrrà convergenza economica tra i Paesi dell’euro, come sembra attualmente, o se finirà nel tempo per accentuare la divergenza tra economie efficienti e quelle a bassa produttività. Nel medio termine il tasso di cambio reale dovrebbe calare e offrire un’opportunità per lo stimolo di investimenti in tecnologia e il rilancio della produttività. Ma su questo scenario di politica economica resta l’incognita della capacità dei governi di comprendere che il ponte che stanno percorrendo è forse l’ultimo disponibile.
L’Italia affronta il ponte in un momento in cui sono sul tavolo del governo temi fondamentali alla riuscita del programma. Tra questi, la riforma che interessa la scuola, la riforma del credito cooperativo e la disponibilità di nuove infrastrutture informatiche. In primo piano nel dibattito politico ci sono le rivendicazioni dei docenti precari, poteri e consuetudini di istituti bancari radicati storicamente, o i diritti delle imprese di telecomunicazioni. È comprensibile che sia così. E in una condizione di persistente disagio sociale è anche inevitabile. Ma inserire nella scuola docenti in materie scientifiche anziché letterarie, rendere trasparenti le scelte delle banche e puntare su maggiori investimenti in tecnologia, sarebbero alcuni degli elementi di riforma dal lato dell’offerta indispensabili a rendere il Paese più produttivo. Senza di ciò, si finirebbe per sprecare anche riforme importanti, ma senz’altro non indolori, come quella già approvata del mercato del lavoro.
La produttività italiana resta un problema. Analisi accurate dimostrano che non sia così bassa e disperata come è comune osservare. Ma ciò che è indiscutibile è che il sistema italiano crei una spirale tra imprese meno produttive e occupazioni meno qualificate. Questo frena la crescita dell’economia e l’occupazione dei giovani più preparati. Fino a che si è protetti dal sistema, il problema della trasformazione tecnologica globale non si vede. Ci si trascina finché regge il ponte.
Sul davanti, le banconote dell’euro portano il disegno di finestre. I ponti sono fatti per essere percorsi e le finestre per essere aperte e per guardare avanti. L’alternativa in entrambi i casi non è salutare.