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 2015  marzo 05 Giovedì calendario

DECISIVO FU ALBERTINI


[Giovanni Gozzini]

“Il prossimo’ direttore del Corriere della Sera? Dovrebbe essere giovane, parlare meno di politica e capace di attenzione per i cambiamenti della società. Ma le pare che qualcuno sia davvero interessato a leggere pagine e pagine di opinioni di questo o di quel politico, che si tratti di quelle di Stefano Fassina o Guido Crosetto? Le pare che un lettore, soprattutto giovane, sia davvero ansioso di sorbirsi disquisizioni, distinguo, battute e controbattute degli uomini del Palazzo?”. Difficile dare torto a Giovanni Gozzini, professore di storia contemporanea e di storia del giornalismo all’università di Siena, alle soglie di gagliardi sessant’anni, un linguaggio nient’affatto accademico, svelto come nel cogliere l’essenziale. È che questo Gozzini nella vita non si è accontentato solo di fare il cattedratico, ma ha anche affrontato temi impegnativi e firmato, tra molti e riguardevoli testi, una scintillante storia del giornalismo, un’approfondita analisi documentata sullo sterminio nazista di Auschwitz, un trattato di storia del Partito comunista italiano, oltre a trattare fenomeni della contemporaneità opaca in cui ci troviamo immersi. Giovanni Gozzini è stato poi direttore del Gabinetto scientifico letterario Vieusseux dal 2000 al 2007, anno in cui ha lasciato per guidare l’assessorato alla Cultura del Comune di Firenze nella giunta di Leonardo Domenici. A lui chiediamo di ripercorrere, sia pure velocemente, la storia del Corrierone e parlarci di quei direttori che hanno, a suo avviso, lasciato un segno in questi 140 anni di attività.
Prima - Cominciamo dai padri fondatori. Quali sono state nel periodo pre fascista le direzioni davvero cruciali?
Giovanni Gozzini - Ancora oggi se lei entra nella stanza, che è sempre rimasta la stessa, del direttore del Corriere della Sera incombe un grande ritratto di Luigi Albertini, che pur non essendo stato il primo (lo fu invece Eugenio Torelli Viollier) fu sicuramente quello che segnò un momento cruciale della storia del quotidiano milanese. L’editore – secondo una linea che dominerà l’editoria italiana – era quel che si dice ‘impuro’: la famiglia Crespi, composta da industriali cotonieri che avevano bisogno di uno strumento di pressione sul governo per vedere adottate politiche protezionistiche che consentissero alla neonata industria italiana di fine Ottocento di reggere la competizione internazionale. I Crespi restarono proprietari del Corriere per lunghissimo tempo e Luigi Albertini – nella crisi di fine secolo con Bava Beccaris e i disordini del 1898 – segnò la prima svolta verso un giornalismo autonomo, libero, moderno. Si sentiva il bisogno di un cambio di politica in senso più socialdemocratico, anche se allora il termine poteva suonare a bestemmia. Si preparava in sostanza la strada ai governi giolittiani, e Albertini fu quello che incarnò questa svolta ‘a sinistra’, segnando un’apertura del Corriere a tematiche sociali, diventando un giornale – fino a quel momento fortemente milanese – che si rivolgesse a tutta l’Italia.
Prima - Albertini è rimasta una figura davvero storica, esempio di schiena dritta di fronte alle pressioni fasciste. Fama tutta meritata?
G. Gozzini - «La patente antifascista se la guadagnò sul campo ma non per meriti strettamente personali, essendo lui un conservatore, allineato alla scelta interventista e alquanto tiepido anche nella denuncia delle violenze squadriste. Consideri che, a differenza della Russia bolscevica, la Germania nazista e l’Italia fascista non cambiarono né la costituzione né le proprietà dei giornali. Benito Mussolini, giornalista egli stesso, suggeriva ai proprietari le persone giuste da mettere e i proprietari – che fossero i Frassati alla Stampa o i Crespi a Milano – non alzarono certo le barricate e si allinearono mansueti. A questi editori poco interessava che il giornale avesse un ruolo informativo rivolto al pubblico quanto avere strumenti per interloquire con il Palazzo. E quello che Peppino Ortoleva ha definito ‘il lobbying all’italiana’, metodo adottato tra gli altri da Enrico Mattei.
Prima - E cioè?
G. Gozzini - «Il lobbying all’italiana consiste, tra l’altro, nell’esercitare un potere indiretto sul Palazzo della politica.
Prima - Fu questo che fece Albertini?
G. Gozzini - «Albertini, che fu giornalista ma anche imprenditore, partecipò a questa logica e venne scelto dai Crespi, che avevano bisogno di un direttore che spianasse la strada a un governo giolittiano più aperto alle rivendicazioni sociali. All’inizio del secolo il Corriere accompagnò questo esperimento di trasformazione. La Prima guerra mondiale restrinse gli spazi di manovra, vi fu un allineamento da cui Albertini non si rialzò più e Mussolini chiese un Corriere più battagliero, tanto che riuscì a collocarci Ugo Ojetti, da cui peraltro non ebbe grandi soddisfazioni.
Prima - Quattro direttori si succedono lungo il ventennio fascista e il Corriere resta la testata più importante d’Italia.
G. Gozzini - «Durante il fascismo il Corriere resta il quotidiano leader per autorevolezza. Nonostante l’allineamento al regime, lo si considera il giornale del salotto buono d’Italia, ma a dir la verità è un foglio piuttosto grigio. Proprio perché rimane nel mezzo della contesa, mantiene sì il primato delle copie ma sui contenuti è ben poco vivace.
Prima - Epperò gli intellettuali avrebbero venduto l’anima pur di scrivere sulle sue pagine.
G. Gozzini - «C’è qui un altro aspetto interessante che corrisponde al carattere del giornalismo italiano: la forte contaminazione con la letteratura. Non è un caso che il primo presidente dell’Associazione della stampa sia Francesco De Sanctis, un letterato a tutti gli effetti. Il nostro giornalismo ha sempre avuto il gusto del bello scrivere, dove l’elemento della ricercatezza linguistica spesso in passato faceva velo sull’accessibilità e la scorrevolezza. Il Corriere ne ha sempre fatto un punto di prestigio e la terza pagina rifletteva questo carattere. Senza dimenticare un elemento: chiunque scrivesse sul Corriere sapeva che era letto da Mussolini e quindi di essere sotto esame. Il che lo faceva magari inconsapevolmente, più circospetto.
Prima - Una sorta d autocensura, che poi e un male nazionale.
G. Gozzini - «Male internazionale, mi creda. Sotto ogni latitudine e in ogni tempo l’autocensura è sempre stata la vera forma di censura.
Prima - Nel dopoguerra la famiglia Crespi, dopo un po’ di maretta e di edulcorata epurazione all’italiana, torna al timone della casa editrice di via Solferino.
G. Gozzini - «Interprete di questo passaggio è sicuramente Giulia Maria Crespi, donna amata e odiata dentro e fuori dal Cda. La famiglia era rientrata in possesso di un pacchetto di maggioranza e tutte le cronache e le testimonianze convergono nell’attribuire a lei la capacità di intercettare il vento del ’68 che la portò, nel 1972, a sostituire Giovanni Spadolini con Piero Ottone.
Prima - La Crespi poi fu uno dei personaggi – la Fulvia – tratteggiati da Tullio Pericoli e che Oreste Del Buono ricordava tra le ‘caricature di splendida ferocia’: esile, fatua, assatanata e insaziabile.
G. Gozzini - «Proprio lei. A quel tempo la posizione della famiglia era debole e sempre più bisognosa degli altri membri del Cda, ora molto potenti, come Gianni Agnelli e Angelo Moratti. In quegli anni Settanta il terrore di Giulia Maria Crespi si chiamava Eugenio Cefis, prototipo dei cosiddetti boiardi di Stato e alla guida della Montedison, colosso nato dalla nazionalizzazione dell’energia elettrica e quindi con a disposizione una grande liquidità. Sempre per via del lobbying all’italiana, Cefis aveva bisogno di un giornale e il primo su cui mise gli occhi fu il Corriere. A quel punto la Crespi, per difendersi, si rivolse ai suoi amici industriali.
Prima - Che idea se fatto della direzione di Ottone?
G. Gozzini - «La direzione di Piero Ottone è il frutto più innovativo di questa stagione di trapasso.
Prima – In che senso?
G. Gozzini - «Ottone è giornalista di razza e imprime al Corriere una virata simile a quella dell’Albertini di inizio Novecento. Vuole un giornale più aperto, meno piccolo borghese e più attento alle novità sociali. Tutti ricordiamo ancora gli interventi ‘corsari’ di Pier Paolo Pasolini pubblicati in prima pagina, in quella collocazione inusuale, di spalla a destra. Ottone aveva in mente un modello anglosassone: un giornalismo che vendesse copie per la qualità del prodotto e quindi, almeno nelle intenzioni, più orientato verso il pubblico dei lettori che verso il Palazzo.
Prima - Considera i risultati ottenuti pari alle ambizioni covate?
G. Gozzini - «In modo alternato. È innegabile che ci fu un bel cambiamento e il Corriere riprese a fare grandi inchieste, a uscire con veri scoop, ad ampliare la cronaca nera. Non tutti condivisero.
Prima – Tra questi Indro Montanelli che se ne andò sbattendo la porta e accusando la Crespi e Ottone di flirtare con gli estremisti di sinistra. A distanza le pare un’accusa ragionevole?
G. Gozzini - «Diciamo non del tutto ingiustificata. Il duetto Ottone-Crespi voleva giocare nei confronti dei giovani contestatori il ruolo degli adulti sensibili. Per i comunisti, quelli del partito vero e proprio, non c’era invece alcuna simpatia. Ottone, british e velista, non amava il compromesso storico di Enrico Berlinguer preferendogli semmai l’alternanza. L’adesione dunque non è sul piano politico, quanto sul mutamento del costume, come si può vedere a proposito di argomenti come il divorzio, le battaglie sui diritti civili, l’irruzione delle donne sulla scena sociale. Pubblicare Pasolini e il suo antimodernismo, un letterato di frontiera e con una visione apocalittica, costituiva una provocazione culturale che fece scalpore.
Prima - Arriviamo alla gestione Rizzoli e alla P2.
G. Gozzini - «Qui si apre il buco nero. Il paradosso è che Andrea Rizzoli è un editore puro ma senza mezzi. La possibile trasformazione in senso più giornalistico e coerente è dunque destinata a fallire. Rizzoli dovette ricorrere ai soldi delle varie combriccole con le quali aveva avuto la sfortuna di mettersi e fece precipitare il Corriere nella crisi più spaventosa di tutta la sua esistenza. Siamo all’indebitamento con fonti connesse a un progetto eversivo, il famoso ‘Piano di rinascita democratica’ di Licio Celli che comprendeva, tra l’altro, anche il controllo sulla stampa.
Prima – C’è un direttore che interpreta questa angosciosa stagione.
G. Gozzini - «È Franco Di Bella, che si presta a questa manovra di cui conosce almeno in parte i risvolti. Di Bella diventa uno strumento di questa operazione che scorre parallela a quella di Maurizio Costanzo e al lancio di un tabloid sul genere inglese – L’Occhio – che avrebbe dovuto rimpinguare le casse del Corriere e rappresentare il primo esempio di giornalismo di massa nel nostro Paese. Operazione che, come sappiamo tutti, non riuscì. Uno dei punti apicali è l’intervista preconfezionata di Costanzo a Gelli e pubblicata sul Corriere, un fatto che provocò grande scalpore in redazione.
Prima - E la sollevazione del sindacato interno.
G. Gozzini - «Una delle cose che Montanelli aveva duramente rimproverato alla gestione di Ottone fu di aver dato troppo potere a Raffaele Fiengo e a quel che definiva il ‘soviet di Via Solferino’, il Cdr.
Prima - Esagerava?
G. Gozzini - «Il disegno strategico di Ottone prevedeva un giornale fatto da giornalisti con una sorta di direzione collegiale, il che comportò un eccessivo potere di interdizione del sindacato che però si mostrò del tutto insufficiente al momento dell’indebitamento e della Loggia P2 di Bruno Tassan Din. Quando Costanzo spedisce l’intervista di Licio Gelli, c’è la rivolta di Fiengo e del Cdr e salta il coperchio della pentola: Arnaldo Forlani decide di pubblicare gli elenchi degli appartenenti alla P2, Calvi viene ammazzato a Londra e tutto salta in aria.
Prima - Una catastrofe anche per Via Solferino.
G. Gozzini - «E una fortuna per Piazza Indipendenza, per La Repubblica di Eugenio Scalfari. Nato nel 1976 come un giornale d’élite e progetto politico, grazie a questa temporanea impasse del Corriere della Sera, La Repubblica comincia a correre sul piano delle tirature e delle vendite.
Prima - Qualificandosi come vero concorrente.
G. Gozzini - «Siamo negli anni Novanta, un periodo un po’ drogato dai gadget. È l’epoca dei magazine, dei concorsi a premi, del riciclaggio dei biglietti della lotteria. Per la prima volta le testate giornalistiche italiane superano i sei milioni di copie e la competizione tra Repubblica e Corriere amplifica questo effetto di mercato. Senza che questo però produca un riflesso sul piano qualitativo. In Via Solferino si succedono direttori degnissimi. Il primo a cui viene affidata la barca quasi affondata è Alberto Cavallari, notevole intellettuale, a cui va il merito di essere stato capace di tenerla a galla. In quella stagione del giornalismo italiano si avverte molto l’irrompere della televisione che comincia a dettare l’agenda ai quotidiani. Mentre i giornali perdono copie, si afferma il duopolio Rai-Fininvest e intanto il Corriere perde il primato storico.
Prima - Arriviamo all’epoca di Paolo Mieli, direttore che ha segnato uno stile non solo del Corriere, ma di tutto il giornalismo italiano contemporaneo, tanto da avere inaugurato un neologismo – ‘il mielismo’ – per gli avversari sinonimo di cerchiobottismo e duplicità, per gli ammiratori – o per i semplici osservatori – un modo di interpretare il mestiere in maniera forte, ibridando i generi con spregiudicatezza ma non superficialità, costruendo un gruppo (magari in sintonia con i direttori di altre testate) per far fronte alle intimidazioni della politica straripante. Tanto che persino l’avvocato Agnelli, parlando delle direzioni di Mieli alla Stampa e al Corriere, ricorse a una metafora sostenendo che Mieli aveva “messo la minigonna a due vecchie signore”. Lei è d’accordo che la stagione inaugurata da Paolo Mieli ha costituito un elemento di vera novità?
G. Gozzini - «Non c’è dubbio. Quello di Paolo Mieli diventa un giornale quotidiano che batte Repubblica per qualità degli intellettuali che vi collaborano, a partire dagli storici. Approdano firme come quelle di Ernesto Galli della Loggia, Giuseppe Galasso e altri autorevoli. Mieli è interessato a condurre un’opera di reclutamento sul piano delle qualità e favorisce il ritorno del giornalismo d’assalto. Non scordiamoci che il Corriere – e Silvio Berlusconi glielo rimprovera sempre – è stato quello che ha dato la notizia dell’avviso di garanzia all’ex Cavaliere nel ’94, mentre in qualità di presidente del Consiglio era impegnato nel vertice del G8 a Napoli. Mieli rappresenta il punto di arrivo di quella stagione di rifondazione post P2 almeno per due ragioni: la qualità dell’informazione culturale che spesso conosce l’onore della prima pagina e la forza giornalistica che dà non pochi buchi a Repubblica. In questo lo assimilerei a Ferruccio de Bortoli. Entrambi fanno parte della stessa scuola e non a caso si sono alternati per ben due volte.
Prima - Mieli è anche ricordato per l’endorsement a favore del primo governo Prodi.
G. Gozzini - «Credo che quel gesto fu dettato più per l’avversione a Berlusconi che per un’effettiva adesione al centrosinistra, nei cui confronti Mieli è stato poi molto critico. Il Corriere di de Bortoli è invece diventato una corazzata con un editore molto più plurale e quindi più difficilmente decifrabile. La testata diventa una sorta di camera di compensazione degli equilibri del vecchio capitalismo italiano che ha perso la battaglia globale degli anni Ottanta, come è successo alla Fiat con l’industria giapponese e poi con quella americana.
Prima - Come si comportano Mieli e de Bortoli con questo editore plurale?
G. Gozzini - «Sono navigatori attenti in quel nido di vipere che è il Cda e il patto di sindacato. Il Corriere ha questo vantaggio/svantaggio: i suoi azionisti appartengono sicuramente alla stanza dei bottoni (anche se contano sempre meno sul piano dell’economia globale) ma cercano di orientare il giornale anche per accreditare il proprio potere agli occhi del Palazzo romano. Per i direttori la mediazione e il piccolo cabotaggio si fa difficile, logorante, e questo spiega il loro alternarsi. Ora sarà interessante vedere chi verrà fuori come nuovo direttore dopo de Bortoli. A questo punto c’è da fare una scelta.
Prima - Tra cosa e cosa?
G. Gozzini - I due profili possono essere: o un navigatore politico tra questi equilibri in ritirata del capitalismo nostrano o un giornalista di razza che aspiri a vincere la gara con Repubblica sul piano della qualità del prodotto.
Prima - Ma sempre con il vaccino antivipera a portata di mano.
G. Gozzini - «Consideri però che anche ‘le vipere’ hanno un problema, visto che l’andamento delle vendite è drammatico. Uno può anche pensare a un direttore docile ma se poi i conti precipitano, me lo dice lei che cosa se ne fa?
Intervista di Daniele Scalise