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 2015  marzo 04 Mercoledì calendario

UNA MISSIONE SISMI ORGANIZZATA MOLTO MALE. MA PERCHÉ?

È in libreria «Il mese più lungo, Dal sequestro Sgrena all’omicidio Calipari» di Gabriele Polo, Marsilio editori, euro 19,00, già direttore del Manifesto dal 2003 al 2009. Con la visuale della sua redazione, Polo racconta la vicenda che condusse alla morte di Nicola Calipari del Sismi, subito dopo la liberazione di Giuliana Sgrena a Baghdad. Tra le molte opzioni che aveva a disposizione, Polo sceglie quella agiografica che non entra in nessuno (o quasi) dei nodi irrisolti delle varie inchieste e della ricostruzione ufficiale. Rivediamo pertanto i molti «perché» che non hanno avuto ancora risposta.
Il 4 febbraio 2005, a Baghdad, viene rapita Giuliana Sgrena, inviata del Manifesto. A Roma, il Sismi (direttore Niccolò Pollari), incaricato del caso, lo affida a Nicola Calipari, capo del dipartimento Ricerca.
Il 16 febbraio del 2005, Calipari invia un messaggio al generale Mario Marioli, uno dei vicecomandanti della forza multinazionale in Iraq a Baghdad. Annuncia il suo prossimo arrivo con una ventina di agenti. Chiede di preparare alloggi nella sede americana di Camp Victory e «badge» per circolare in città. Nel gruppo di Calipari c’è Andrea Carpani, ufficiale dei Carabinieri dall’inglese fluente, che è stato residente Sismi a Baghdad, che, quindi, conosce l’ambiente e la città.
Il 28 febbraio, una squadra di quindici uomini, capeggiata da Calipari parte per Abu Dhabi, dov’è stato stabilito da tempo il contatto con un «businessman» sunnita che vanta forti legami con il partito baathista iraqeno, di cui faceva parte il dittatore Sadam Hussein.
La trattativa è prossima alla conclusione. Polo racconta che il «businessman» si propone come mediatore per una fine della guerra che insanguina l’Iraq. Ne consegue la paradossale impressione che l’uomo sia stato, in qualche modo, creduto. Nelle pagine successive, per fortuna, la mediazione politica scompare.
Gli italiani alloggiano nell’hotel Buri Al Arab (ai nostri giorni 2.144 per notte, prezzo booking.com). Da Baghdad, il capocentro Sismi comunica a Calipari che tutto è pronto per il suo arrivo. La sera del 3 marzo, giovedì, il generale Mario Marioli viene avvisato che il «D-day» è stabilito per il giorno dopo. Nell’albergo «vengono presi gli accordi per le mosse nelle polverose strade di Baghdad, dove e quando dovranno presentarsi gli italiani per aspettare una telefonata e una guida che li conduca da Giuliana Sgrena. Nelle stesse ore il «businessman» iracheno, alcuni agenti del Sismi e le valigette con i dollari attenderanno, in una stessa stanza, il via libera per completare lo scambio con la consegna del riscatto. Poi le strade si separeranno. Per gli italiani si tratterà solo di attendere il ritorno dei colleghi inviati a Baghdad e poi rientrare tutti in Italia. Sperando di poterlo fare la sera stessa senza passare dall’ambasciata italiana o dover pernottare a Camp Victory. Evitando di dover fornire spiegazioni ufficiali agli americani non potrebbero prenderla bene».
La medesima sera del 3 marzo, Calipari riunisce i suoi uomini (15) e comunica che l’indomani andranno con lui Andrea Carpani, due agenti del dipartimento Ricerca e due del dipartimento Sicurezza. « in una città così pericolosa, piena di gente armata di ogni tipo, in cui chiunque può essere scambiato per un nemico anche se non lo è, meglio tenere un basso profilo, muoversi con prudenza e non dare troppo nell’occhio, mimetizzarsi. Niente scorte, divise, armi o auto blindate che attirino l’attenzione »
4 marzo ore 12. Calipari e i suoi quattro accompagnatori salgono su un aereo dell’Aeronautica Militare. Partono per Baghdad. L’appuntamento per «ritirare» la Sgrena è fissato per le 18. Ore 16.30, in ritardo, l’aereo atterra. Mezz’ora dopo gli uomini del Sismi sono pronti: hanno ricevuto due «badge» americani e due pistole col colpo in canna. C’è da scegliere un’automobile tra le tre affittate dall’agente del luogo. Calipari sceglie una Toyota Corolla grigia con targa iraqena. Calipari e Carpani montano in macchina e vanno in città. Da soli: lasciano i quattro accompagnatori ad aspettare.
Sono le 18.35, quando Al-Jazeera annuncia la liberazione di Giuliana Sgrena. Carpani e Calipari, con la Sgrena nella Toyota, escono da un dedalo di viuzze e si avviano verso l’aeroporto. E telefonano. Prima di tutto ad Abu Dhabi per autorizzare il pagamento del riscatto, poi a Castilletti, l’uomo Sismi che li attende insieme ai quattro, poi in Italia.
L’auto imbocca infine l’autostrada (Ruote Vernon). Sono le 20.50. Calipari è al telefono con Pollari, capo del Sismi. All’ingresso di una curva, la macchina è illuminata da una potente luce bianca. Non è chiaro cosa succede, ma inizia il fuoco. Calipari si getta sulla Sgrena, tra i sedili anteriori e quello posteriore, per proteggerla e viene colpito al capo.
Abbiamo riassunto così i dati più salienti del racconto di Gabriele Polo, quelli che non dissipano nessuna delle questioni che questo tragico «affaire» ha sollevato e che sono rimasti senza risposta, nell’interesse di tanti, ma non della cruda verità.
Eccole: perché dopo avere chiesto al generale Marioli assistenza (alloggi e «badge») per una ventina di suoi uomini, Nicola Calipari il 4 marzo si presenta con Carpani e quattro uomini, due della Ricerca e due della Sicurezza?
Che rimangono a fare 10-agenti-10 del Sismi nel lussuosissimo albergo? Non ne bastano di meno per il compito loro affidato (consegnare i soldi al «contatto» una volta ottenuto il consenso)?
Perché Calipari poi si avvia verso Baghdad con il solo Carpani e lascia in aeroporto i quattro accompagnatori? Perché non prende un’auto blindata (ci sono di auto blindate anonime)? È certo che all’aeroporto di Baghdad ce ne erano disponibili.
E poi, perché non ha preteso un approfondito «breafing» sulle regole d’ingaggio e di comportamento delle truppe americane sul posto?
Perché è andato a Baghdad all’ultimo minuto, solo un’ora e mezzo prima del «rendez vous»?
Come mai né Carpani né Calipari avevano messo in conto la possibilità di incontrare uno dei tanti posti di blocco americani e/o iraqeni?
Perché, recuperato l’ostaggio, Calipari non è corso all’ambasciata italiana, presidiata dai militari del battaglione Tuscania (Carabinieri paracadutisti). E perché, comunque, non è stato messo sull’avviso il battaglione stesso, in modo che alcuni militari si schierassero nei paraggi a protezione? Magari un paio di blindati a qualche centinaio di metri?
Perché non si dovevano dare spiegazioni agli americani?
Negli ambienti dei servizi si suggerisce discretamente che americani e iraqeni avevano accettato l’operazione (ma non il riscatto di cui non erano informati), purché, una volta liberata, la Sgrena fosse portata in un luogo sicuro (per esempio l’ambasciata italiana). Lì sarebbe stata interrogata. Forse sarebbero emersi la natura e la composizione del gruppo dei rapitori, nonché l’avvenuto pagamento di un ricco riscatto.
E perché, nemmeno una guida del posto, abituata a girare in città e fuori con dimestichezza con le modalità di installazione dei posti di blocco?
Certo, Carpani conosceva Baghdad, ma gli (ordini) operativi delle truppe schierate variano in continuazione e, quindi, lui non bastava, come non è bastato. Tra l’altro, è stato impegnato al telefono per tutto il tragitto e il telefono può ben determinare una distrazione, un attimo di disattenzione, quello che occorre a un nervoso militare di guardia per sparare.
Molte le cose che Gabriele Polo non approfondisce, teso com’è più a onorare il proprio pregiudizio ideologico antiamericano e quindi a dimostrare che i buoni italiani sono stati vittime dei cattivi invasori.
Tra le informazioni tralasciate quella, ormai assodata, che prima della Toyota della Sgrena, a quel «check point» erano state fermate e rimandate indietro almeno 30 automobili. Senza problemi di grilletto facile. C’era in giro da quelle parti Negroponte, l’ambasciatore americano, e tutta la zona era «off limits».
Polo, purtroppo, non spiega nulla. Un occasione mancata.
Concludendo, se Calipari è caduto durante la missione, è evidente che poteva «cadere». E non è una banale tautologia: è la drammatica constatazione che non tutte le misure di sicurezza erano state prese, che mancava la piena conoscenza delle procedure dei posti di blocco americani e che, infine, nessuno aveva avvisato Calipari e Carpani che la zona dell’aeroporto quella sera era «off limits». Marioli e Castilletti avrebbero dovuto sapere.
Tragica fatalità e non solo. Un’ennesima vicenda italiana. Non si analizzano i fatti né le cause. «Parce sepulto».