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 2015  marzo 05 Giovedì calendario

Notizie tratte da: Renzo Paris, Il fenicottero. Vita segreta di Ignazio Silone, Ed. Elliot Roma 2014, pp

Notizie tratte da: Renzo Paris, Il fenicottero. Vita segreta di Ignazio Silone, Ed. Elliot Roma 2014, pp. 333, 19,50 euro.

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I fenicotteri hanno zampe sottili e alte, il collo lungo e serpentino e il becco ricurvo. Le piume sono striate di rosa, su fondo bianco. Possono raggiungere l’altezza di un metro e mezzo e il peso di otto chili. Vivono in zone lacustri e le loro colonie raggiungono il milione di unità, muovendosi tutti insieme. Si chiamavano così i comunisti clandestini sotto il fascismo, che volavano tra una città e l’altra portando volantini, materiale della stampa clandestina, carte d’identità false, lettere cifrate. Secondino Tranquilli, alias Ignazio Silone, fu un fenicottero.

Era giugno del 1915. Alla stazione terremotata di Pescina, in attesa del treno Sulmona-Roma, sedevano un ragazzo e una donna anziana con due valigie di cartone. Secondino, quindici anni, aveva un naso gibboso, grandi occhi castani, carnagione scura e la testa gonfia di capelli neri. Gli era stato assegnato un posto dal Patronato Regina Elena in un convitto religioso, non lontano da quello che ospitava suo fratello Romoletto.

Le raccomandazioni della nonna: “Magari ti venisse la vocazione!”. Era un chiodo fisso. Voleva dire un tetto assicurato e preghiere ascoltate per la sua salvazione e per quella della sua gente.

Roma la immaginava sterminata. Nel 1911 suo padre Paolo, tornando da un viaggio in Brasile in cerca di fortuna, ci era passato e aveva comprato una busta di ciriole imbottite di porchetta. Secondino aveva fiutato in quel profumo l’odore della città eterna masticando sul muretto dell’abbeveratoio, la fonte amara.

Nella “Radiografia” che lo riguardava, scritta dal suo amico Panfilo Giorgi, si legge: “Prima del terremoto… Silone era un ragazzo di strada, con la camicetta e pantaloncini sporchi, scarpe rotte. Molto discolo. Il padre era morto di tisi. Il fratello Domenico, di cinque anni più grande, era afflitto da morbo di Pott con gobba. La madre, Mariannina, gestiva un negoziuccio. Secondino era un cafoncello ‘Giamburrasca’ che tirava sassi con la fionda”.

Del commissario Guido Bellone c’è un fascicolo all’Archivio di Stato, ma non c’è una foto, non una sua lettera, solo notizie vaghe sulla sua carriera. Secondo Dario Biocca “ha cancellato la sua esistenza rendendosi a poco a poco del tutto invisibile”.

Secondino Tranquilli era nato a Pescina dei Marsi, in provincia dell’Aquila, “il 1° maggio del 1900, da Paolo Tranquilli di anni trenta, possidente, e da Marianna Delli Quadri, di anni ventotto, donna di casa”.

Secondino aveva undici anni quando suo padre morì di polmonite. Nello stesso anno salì al cielo anche Domenico, quattordici anni, per i postumi di una caduta. I maggiori rischi per i bambini, allora, erano la polmonite, i morsi di animale, i calci dei muli e le cadute, visto l’abbandono in cui venivano lasciati dai genitori che lavoravano nei campi.

I bardasci si riunivano in bande. Domenico, Secondino e Romolo erano “i tre dell’Apocalisse”: scalzi o con scarpe slabbrate, correvano per i vicoli e fumavano mozzoni di sigarette. L’estate la passavano in campagna o sulle rive del Giovenco, bevendo il cucucciglio, infuso tratto dal papavero da oppio, che allora i contadini coltivavano e usavano per addormentare i bambini.

Nel 1907 ci furono le elezioni nei borghi del Fucino. Il principe Guido Torlonia era sicuro che i cafoni lo avrebbero votato in massa, ma quelli, ingrati, votarono il medico Mariano Scellingo. Due anni più tardi Secondino assistette alla prima sommossa dei cafoni contro i giornalisti giunti in Abruzzo insieme ai parlamentari, che volevano scoprire i motivi di quella scandalosa disubbidienza al loro principe. Capì allora che le ragioni dei cafoni erano ignorate e che si raccontavano solo quelle dei ricchi.

Il 13 gennaio del 1915, alle 7 e 48, la terra della Marsica tremò, radendo al suolo Pescina, Avezzano e gli altri borghi. Secondino si salvò mettendosi a cavalcioni di un architrave mentre suo fratello Romoletto rimase sotto le macerie per giorni, finché non fu “scavato”, con la spalla rotta. La madre invece morì schiacciata sotto una trave. Accanto al corpo, nascosto nell’ombra, Secondino vide la mano di un parente che le sfilava il borsellino. Quello fu il secondo terremoto, quello interiore, che lasciò la casa delle illusioni distrutta e il giardino della morale insozzato.

Secondino incontrò don Luigi Orione, un prete venuto da Roma per salvare gli orfani marsicani. Voleva allontanarli dalla strada e dalla tratta dei fanciulli, sperando nascesse in loro la vocazione. Romolo fu spedito in un seminario in via Marsala.

La stazione Termini era piena di ragazzini soli, in attesa degli orchi che li avrebbero corrotti. Il commissario di polizia Guido Bellone era stato preposto a scandagliare quella gioventù. Amante dei fanciulli, castigava i più ribelli che giungevano lì affamati.

Cinque mesi dopo il terremoto, Secondino scrisse a Romolo, che era dai salesiani a Roma: “Ogni disgrazia è seguita da disgrazie! E il terremoto ha voluto dietro di sé la guerra… E io per la guerra sono dovuto tornare a Pescina, che il seminario di Chieti l’ha requisito il governo come ospedale militare. Ho rivisto con le lagrime agli occhi le orride macerie… Ho rivisto anche la nostra casa dove vidi, con gli occhi esausti di piangere, estrarre la nostra madre, cerea, disfatta. Gli esami non li potrò fare perché dovrei andare in qualche città e bisognerebbe del denaro che non si trova… Se tu puoi fare qualcosa per me ti prego di farlo. Raccomandami a qualche Signora che ti visitasse”. Da capobanda ironico e astuto, eccolo umile e spaventato a scrivere una richiesta d’aiuto al fratello minore.

Viveva con gli zii a polenta a pranzo e a cena. Frequentava la baracca dove si riunivano i contadini delle leghe socialiste. C’era, poggiata sul muro, una tromba, che serviva a convocare i soci analfabeti che non potevano leggere gli avvisi.

Secondino non era ben accetto nella Lega per la giovane età. Un socio gli disse che non doveva stare lì chi non zappava la terra, ma un altro contadino, Lazzaro, detto il ranocchiaro, gli mise una mano sulla spalla in segno di protezione. Alla fine gli permisero di scrivere qualche protesta contro le autorità (visto che solo lui sapeva farlo) e gli chiesero di leggere racconti ai cafoni.

Andò da un medico anarchico, amico di suo padre, per un consiglio su quelle letture. Gli donò un volumetto di racconti di Tolstoj, “un grande nobile russo che inventò una scuola per i figli dei suoi contadini. Insegnava a leggere e a scrivere a quelli che qualche generazione dopo faranno la rivoluzione contro di lui”. Fu una lettura piena di interruzioni: i contadini volevano che raccontasse il fatto in due parole, ché già tre parole sapevano di gente che ti voleva imbrogliare.

Secondino avrebbe continuato gli studi nel collegio romano Pio X. A Roma portò con sé gli odori di stalla che in città non avrebbe più respirato.

Sceso dal treno, vide le donne, più pallide di quelle di paese, più levigate. “Certamente non mangiano la polenta” si disse. Signore con cappelli “alla cloche” e gonne appena sotto il ginocchio, ragazze che usavano i pantaloni e fumavano. “Sono in incognito” disse, e si sentì libero.

“È appena sceso dal treno? Da dove viene? Mi presento. Sono il commissario Guido Bellone, non si preoccupi, non la voglio portare in questura. Mi occupo dei ragazzi soli di questa stazione. Vengono dalle zone terremotate e qui incontrano chi li sfrutta”. Gli disse che aspettava il direttore del collegio Pio X.

L’Istituto era nel quartiere di San Lorenzo, giovane rione operaio, accanto al cimitero del Verano. Era pericoloso per i carabinieri entrare in quei vicoli dove abitavano operai mescolati a cassettari, ladruncoli senza arte né parte, gente di malavita.

Nella sala mensa, capitò accanto a un ragazzo del quartiere, che gli disse: “Anvedi, ma tu da dove sbuchi?”. Secondino disse che veniva dall’Abruzzo e quello pronto “Dalla Sgurgola?” facendo ridere i compagni. La parola “burino” l’apprese in quella sala. Burini per i romani erano quelli che venivano da fuori, specie dai colli e dalle cittadine laziali.

Su L’Avanti in genere si censuravano gli articoli contro la guerra e in lode della rivoluzione sovietica, le due cose più importanti che stavano accadendo nel mondo. Il vicino di scodella gli consigliò di nascondere quel giornale che i preti odiavano a morte.

Quei romani avrebbero visto i risultati dei suoi studi, avrebbero imparato di che cosa è capace un marsicano. Gli sembrò di dover combattere come il leggendario Silone contro i romani e per la prima volta desiderò chiamarsi Silo.

A cena c’era una “percoca”, come la chiamavano nella Marsica. L’istitutore, vedendolo azzannarla come un selvaggio, gli chiese di utilizzare le posate. “Perdonatelo” commentò il suo vicino “è della Sgurgola”, facendo ridere i compagni. Secondino si alzò e l’afferrò per la gola, ma l’istitutore li separò. Si risedette perché aveva un progetto a lungo termine: primeggiando nello studio avrebbe avuto la classe ai suoi piedi. Ma bastò un accenno di violenza perché i ragazzi lo guardassero con un occhio diverso. Come quando aveva lottato con il ragazzo più forte della contrada e i bardasci si spellarono le mani ad applaudire.

Aveva letto I ragazzi della via Pal, che sembrava ispirato al suo collegio, e Alice nel paese delle meraviglie. Capì che le parole scritte potevano far lacrimare e irritare. Immerso nella lettura non ascoltava nulla del mondo esterno e si sentì forte, niente lo poteva scalfire in quella fuga interiore. Nessuno poteva sindacare su quei sogni a occhi aperti, era padrone di un mondo che lo risarciva delle punizioni.

I monumenti romani li avevano costruiti le mani operaie, pensava. Degli sfruttati era dunque tutta la bellezza di quei monumenti che venivano goduti dai signori europei che facevano il Grand Tour.

Secondino era sempre più chiuso in se stesso. I compagni lo isolavano, considerandolo un cafoncello. Quando riaprirono le scuole sentì che era giunto il suo momento: si sedette all’ultimo banco, da solo, e quando i suoi lavori furono i migliori della classe, i colleghi iniziarono a trattarlo come un secchione, ma anche a servirsene per copiare.

Lesse il vangelo di Luca e si entusiasmò quando Gesù entrò nel tempio, diventato un mercato, e scaraventò tutte le mercanzie sul pavimento. Quello era il Cristo che gli piaceva, il Cristo socialista. Non capiva perché si lasciò morire sulla croce, mollando la lotta sul più bello.

Una mattina, nella camerata, Secondino vide due ragazzi fare sesso sotto gli occhi dei compagni. Entrò l’istitutore, prese i due per le orecchie e li condusse al direttore che, dopo averli insultati come “feccia umana” e “delinquenti malati”, li cacciò dall’istituto. Uno di loro disse che ad avvisare il guardiano era stato il marsicano, che si masturbava guardandoli. Il direttore chiese allora a Secondino quante volte aveva assistito a quelle sconcezze e se la vittima pagava chi lo montava. Lui negò tutto, sapendo che qualsiasi cosa avesse detto gli sarebbe stata rivolta contro.

Giuda si impiccò a un ramo di sambuco. I sambuchi Secondino li conosceva, erano piante piccole e sottili, fragili. Non era possibile. “Si sono sbagliati a tradurre” diceva al frate “magari era pioppo”. Il frate guardiano gli metteva una mano sulla testa e diceva, facendo ridere i compagni, “Secondì, che cosa ti dice questo cestone?”. Era quello l’atteggiamento che lo irritava. Non essere preso sul serio. Un giorno, vedendo un sambuco, per imitare Giuda, si attaccò a un ramo e cadde. Voleva morire come la più nota spia di tutti i tempi, tanto lo avrebbe tradito anche lui, da grande, Gesù.

Secondino sapeva di trovarsi in una specie di carcere, tra gente che lo disprezzava, con quella zimarra stretta. Se la prendevano con il suo aspetto, con il suo abbigliamento, persino con il suo modo di camminare. Non sapeva più come comportarsi in pubblico.

La domenica prima di Natale, i seminaristi giocavano a pallone nel cortile. Vedendo il cancello spalancato, Secondino uscì di corsa e si ritrovò per le vie di San Lorenzo, libero. Sentì il suono delle ciaramelle e si fermò ad ascoltare i due zampognari vestiti da pecorai. Somigliavano a quelli che bussavano alle porte di Pescina, che lui adorava come eroi mitici, capitati in quella remota contrada per avvertire che si avvicinava la nascita del Redentore. Era quello il periodo più bello dell’anno.

Cercò il collegio di suo fratello Romoletto. “Appena mi vedono, mi riportano al convitto” si disse. Entrò quindi in una pensione e prese in affitto una stanza, la meno costosa perché non illuminata. Non dipendeva più da nessuno, né dalla nonna, né da don Benedetto e nemmeno dai preti e, alla larga dai carabinieri e dalla polizia, c’era tempo per pensare a suo fratello.

Nella stazione affollata incontrava ragazze che abbassavano lo sguardo e passanti adulte che lo sbirciavano. Avevano l’aria di non dispiacersi se le avesse importunate e magari avesse chiesto di amarle. Non sospettava che il semplice guardarsi provocasse un piacere segreto. Appena incontrava una donna piacente la rimirava, introiettandola, così avrebbe potuto fantasticare a suo piacimento. Nel territorio dell’immaginazione era lui il padrone, il Torlonia del suo Fucino segreto. A volte lo turbavano anche gli occhi di ragazzi muscolosi che lo attraversavano con lo sguardo.

Sotto i portici di piazza della Repubblica c’era un viavai di ragazzi di borgata che si accompagnavano a signori brizzolati. Erano giovani che, non riuscendo a trovare lavoro, usavano il proprio corpo per sbarcare il lunario. Secondino ne era incuriosito, pur percependo quel mondo come malsano. Il sesso lo attraeva turbandolo, ma nello stesso tempo ne sentiva il rifiuto.

Pensava alla madre. Sentiva la voce che usciva tra i calcinacci. Lei lo aveva nutrito, gli aveva insegnato l’educazione cattolica, l’aveva amato. Ricordava la mattina quando gli faceva bere il latte appena munto, quando gli preparava pane e frittata, quando a pranzo c’erano gli strozzapreti e la sera uova all’occhio di bove. E sempre lei che lo prendeva tra le braccia quando si scorticava le ginocchia.

Se tornava in collegio, forse il direttore non l’avrebbe preso a cintate, ma i compagni lo avrebbe trattato come un cacasotto. Decise di sopportare il freddo e di non tornare, ed era come se non ci fosse mai stato.

In una trattoria fece amicizia con un ferroviere iscritto a una lega socialista di cui gli lasciò l’indirizzo. Secondino ci andò e in quello stanzone spoglio, da un tavolo prese Il Manifesto del Partito Comunista. Tornato alla pensione, iniziò a leggerlo. Si divertì, dopo aver letto l’elenco delle classi nell’antica Roma, ad abbozzare quelle di Pescina: “A capo di tutti c’è Dio, padrone del cielo, poi viene il principe Torlonia, padrone della terra, poi le guardie del principe, i cani delle guardie, poi nulla, poi ancora nulla e sotto a tutto stanno i cafoni”.

Suo padre gli aveva detto che Cristo era stato il primo socialista e che bisognava seguire i suoi insegnamenti, non come i comunisti, che dicono che la religione è l’oppio dei popoli. Ma l’oppio non era il succo del papavero che serviva per il decotto che addormentava i bambini? Proprio quello, rispose il padre, lo hai preso anche tu quando eri in fasce. Allora forse la religione era come l’oppio nel senso che addormentava gli uomini, distraendoli dal lavoro.

Voleva combattere la borghesia e i suoi soprusi, mettere una bomba davanti al palazzo dei Torlonia sul Corso, per vendicare i suoi poveri cafoni che coltivavano le terre. Quel manifesto gli aveva aperto un mondo nuovo, la Rivoluzione Russa gli sembrava vicina e già si vedeva capeggiare i suoi cafoni all’assalto del palazzo dei Torlonia di Avezzano.

Bussò alla porta della pensione un poliziotto che lo riportò in collegio. Lì il direttore, furioso, lo interrogò: “Sei andato a fare le tue schifezze eh?”. Poi gli ordinò di inginocchiarsi davanti a tutti e chiedergli scusa ad alta voce. Gli fece promettere che non avrebbe raccontato ai suoi compagni “i motivi infami” della sua fuga. “Ti hanno visto tra i sodomiti. Lo sai che si va diritti all’inferno per l’amore contro natura?”. Gli si avvicinò e gli strinse i muscoli delle braccia. “Sei una roccia, sfido io che quel signore ti ha voluto”. Il direttore scrisse alla nonna, raccontandole della fuga; lei rispose che don Orione era disposto a prenderlo in un altro collegio, a Sanremo.

Tra i passeggeri del treno per Sanremo, Secondino incontrò un prete, che lo salutò, gli prese le valigie e gli chiese se voleva qualcosa da leggere durante il viaggio. Lui rispose provocatorio: “L’Avanti”. Senza scomporsi il prete scese e tornò col giornale. “Come mai don Orione non si è degnato di venire?”. “Don Orione sono io” rispose il prete. Quando Secondino apprese che don Orione sarebbe ripartito da Sanremo quella sera stessa, pensò: “Appena ti affezioni a qualcuno lo perdi”.

Il nuovo direttore era peggiore del precedente e la vocazione di Tranquilli divenne quella socialista. Nelle lettere a don Orione scrisse che il rispetto per gli abruzzesi lì non esisteva, che i nati da Firenze in giù li chiamavano terroni e mafiosi. Lui si rifiutò di indossare l’abito talare. L’avevano lasciato tossire senza dargli lo sciroppo e non voleva stare in quella galera.

Per curargli la bronchite, don Orione lo spedì a Reggio Calabria. Voleva recuperarlo alla religione, mentre Secondino sperava, almeno lì, di non essere più accusato di essere un terrone. Gli scrisse in seguito: “Vorrei essere in un ambiente isolato, ma ho in me un fuoco irresistibile che mi spinge a far del bene ed essere in mezzo al mondo. Ma se Lei mi promette che prega per me e che mi scriverà ogni mese io allora vado contentissimo”. Non trovava pace nei collegi ed era sempre più solo. Fu allora che probabilmente subì abusi sessuali. Volle farsi spostare, ma don Orione non lo accontentò, poiché l’istitutore gli aveva detto che non aveva la vocazione.

Abbandonò gli studi e tornò a Pescina, ritrovando il borgo peggio di come l’aveva lasciato, con la gente che moriva di stenti. Radunò un gruppetto di disoccupati e avvinazzati e improvvisarono una specie di soviet del Fucino. La nonna non era più in sé, i parenti lo consideravano uno sfaticato e Romolo, da Roma, gli scriveva sempre per chiedere soldi.

“Dovevo diventare prete anche se non sentivo più niente? Come faccio a raccontarti quel che succedeva nei collegi? I marsicani li odiano, leggevo sui muri del cesso MARSI CANI… Andavo bene a scuola, ma mi facevano pagare anche quello, nonna!”.

Le feste religiose, che prima lo attraevano, le guardava con sufficienza. I socialisti gli avevano insegnato che la vita materiale è quella che conta, perché i cafoni morivano di fame. I collegi gli andavano stretti, non sopportava l’autorità religiosa, i soprusi, le umiliazioni fisiche. Ma Gesù lo sapeva come venivano trattati negli orfanotrofi i suoi figli?

Tornati in licenza, i soldati seppero delle prepotenze dei carabinieri verso le loro mogli e vollero fargliela pagare. Quelli della Lega, guidati da Secondino, salirono sul campanile e suonarono la campana a martello, radunando tutti i paesani davanti alla caserma per rompere i vetri delle finestre e appiccare il fuoco al portone, al grido: “Carabinieri, cacabicchieri!”. A quei giovani sembrava di vivere l’inizio della rivoluzione. Furono tutti arrestati.

Alla fine del 1919 Secondino rientrò a Roma e continuò la sua attività clandestina accanto a Gramsci. “Partii di notte... mi aveva accompagnato alla stazione Lazzaro, vecchio socialista, con la figlia Laurina e l’asino. ‘Parti e dimentica questa terra di dolore’ mi disse. ‘Ti giuro che non dimenticherò’ con le lagrime agli occhi. ‘Sono certa che penserai spesso a mio padre’ disse Laurina; ‘anche a te’ io aggiunsi. Lei mi raccomandò con un filo di voce: ‘Torna presto’”.

Cominciò per Secondino una vita di stenti. A mezzogiorno mangiava una zuppa di latte, la sera ingoiava una minestrina. Sentiva i crampi della fame e certe volte sul letto recitava il Dies irae in marsicano: “Diasilla diasilla! Senti i corp cumma strilla e strilla pe ragione perché non ha fatto collazione!”.

Su un tram vide alcuni studenti bastonare un operaio pacifista per non aver salutato la bandiera italiana. I poliziotti, invece di aiutare l’uomo, si congratularono per il gesto patriottico. “Che vigliaccata!” disse Secondino, e sentì il bigliettaio della circolare che annuiva dicendo “Sì, è una vera vergogna!”. Dandosi pacche sulle spalle, i due entrarono in un’osteria di San Lorenzo a bere un bicchiere. Quella sera stessa andò casa dell’uomo, dove incontrò cinque giovani militanti.

Quegli incontri domenicali avevano allontanato la solitudine. Il fatto che Secondino fosse uno studente proveniente da un borgo abruzzese, di origine contadina, gli procurò la simpatia di quegli operai e artigiani. Si dicevano le stesse cose nella Lega dei socialisti di Pescina, li accomunava lo stesso amore per la giustizia che gli aveva insegnato suo padre. Lì dimenticava le miserie e la fame.

Non sospettava che il suo nome fosse noto alla polizia romana, in primis al commissario Bellone. Fu schedato da lui in una retata al Fontanone. Il commissario, alto ed elegante, somigliava a quei signori che andavano con i ragazzi di vita. Bellone volle sapere se fosse uno di loro e Secondino negò. Lo invitò a bere un caffè e gli disse che sapeva che era orfano, che aveva sofferto per il terremoto, e sapeva che frequentava i circoli socialisti, “le teste calde che vogliono fare la rivoluzione come in Russia”.

Il commissario era nato nel 1871. Scapolo, viveva nel rione Monti con la madre e la sorella Emilia. Tra il 1904 e il 1920 Bellone si occupò della “tratta delle bianche” in un ufficio a Termini. A contatto con ragazzi riusciva a convincere i più violenti a calmarsi; sapeva che molti di loro avevano i genitori in galera o defunti ed erano bisognosi di più di una carezza che di torture.

Con l’ingresso in guerra, Bellone passò all’ufficio centrale investigativo sulle organizzazioni pacifiste, rivoluzionarie e internazionaliste. Fece arrestare i libertari e i neutralisti del Partito Socialista Italiano e li fece condannare per attività sovversive; altri ne liberò, facendoli diventare “fiduciari”. Alcuni colleghi sospettavano che la sua capacità di persuasione avesse anche motivi molto privati.

Dal 1919 Guido Bellone si occupò dell’Unione Socialista Romana, di cui Secondino Tranquilli era segretario. Quell’inverno Secondino fu arrestato e picchiato dalla polizia. In questura Bellone gli disse: “I tuoi caporioni al massimo ti offrono una cena, un bicchiere... ma quanto a stipendiarti, non sei ancora nessuno. Fatti furbo, hai studiato, sei ambizioso, sali i gradini dell’associazione, scrivi sui loro giornali, io ti aiuterò in cambio di qualche favore... Potresti vivere una vita diversa, senza la fame, con un piccolo compenso”.

Più tardi scrisse: “M’impegnai a rimanere in rapporto con lui, contro una gratificazione di centocinquanta lire al mese… Cercai di acquietare la mia coscienza scrivendo alla polizia rapporti innocui, falsi, reticenti... La paura di essere scoperto era più forte del rimorso”. Secondino Tranquilli non era mica un fesso. Lo avrebbe raggirato, mandandogli cose già note, senza farsi scoprire dai compagni.

Guido Bellone cercava di incontrarlo anche per portarlo, dopo averlo rivestito da Caraceni, in trattorie di lusso e a passeggiare. Secondino gli raccontava che lavorava per l’organizzazione, nel reparto stampa e propaganda, che non lanciava più sassi contro le vetrine, lo avevano messo a fare un lavoro intellettuale. Col tempo però il commissario non si accontentò più di volantini o letterine vaghe, chiedeva informazioni più rilevanti: “Se ti fai scrivere da altri l’indirizzo sulla busta e scrivi in terza persona di te stesso, la busta arriva senza che nessuno ci ficchi il naso”.

Gli sembrava che Bellone gli volesse bene, che non potesse denunciarlo ai suoi colleghi. “Prima ero figlio di un prete e adesso sono diventato il figlio di un ricchione!” pensava. “Ma che bella carriera stai facendo, Secondì!”.

Bellone lo istruì sui nuovi ritrovati dello spionaggio, sulle tecniche di depistaggio. Non si videro più a Roma, ma in altre città vicine alla frontiera, le lettere le scriveva alla sorella di Guido, Emilia, firmandosi “Silvestri”, in terza persona.

Bellone aveva parlato alla sorella Emilia di un bravo ragazzo paesano che avrebbe voluto farle la corte. La stessa cosa disse a Secondino, che quindi andò a conoscerla. Quando riferì a Guido che non era scoppiata la scintilla tra lui e la sorella, quello esclamò: “Non ti deve piacere, tu le devi solo fare la corte, così nessuno sospetta di quello che facciamo noi”.

Secondino fu costretto a viaggiare, spesso inseguito dalla polizia, ignara dei suoi rapporti con il loro capo, prima in Italia del nord e poi all’estero. Si tingeva i capelli, si faceva crescere i baffi, sapeva come travestirsi e apparire più vecchio. Tutto ciò lo animava, lo divertiva, come fosse un attore.

Con la modista Annina, iscritta alla federazione socialista anche lei, andavano a sedersi nei giardini pubblici, come due innamorati. Lei raccontò che Secondino era misterioso, e che c’era un poliziotto che la contattava spesso per sapere di lui.

Nel 1921 Secondino, su un treno per Livorno, rincontrò don Orione. Si abbracciarono. “Quanto avrei preferito vederti con l’abito talare” e Secondino rispose che aveva scelto un altro abito ma, in quanto a fede, quella nuova somigliava all’antica. Com’era stato possibile arrivare a quel gelo, dopo tante dimostrazioni di affetto? Imparava che tutto è caduco nella vita.

Il suo discorso al congresso fu applaudito dai comunisti, ma dinanzi a quella folla Secondino si era sentito un estraneo. Com’era possibile che, proprio quando nasceva il Partito Comunista, lui non fosse contento? I delegati della Terza Internazionale gli erano sembrati geometri dell’ideologia.

Secondino vide per la prima volta Gramsci e fu colpito dalla sua capacità di ascolto. Quello che impressionava erano i suoi occhi e la sua capigliatura arruffata. Tra sé e sé commentò: “Ma è un nano!”.

Come delegato al congresso dell’Internazionale, nel 1921 Tranquilli andò a Mosca e incontrò Lenin. Di lui, più tardi, scriverà: “Viveva tra il mito e la realtà. Erano i giorni del congresso della Terza Internazionale. Lenin partecipava soltanto ad alcune sedute, così come fa il papa al Concilio. Ma quando entrava nella sala nasceva un’atmosfera nuova, carica di elettricità”.

“Ciò che mi colpì nei comunisti russi… era l’assoluta incapacità di discutere lealmente le opinioni contrarie alle proprie. Il dissenziente, per il semplice fatto che osava contraddire, era senz’altro un opportunista se non addirittura un traditore e un venduto. Un avversario in buona fede sembrava inconcepibile”.

Lasciò l’Internazionale dei Giovani Comunisti. Aveva subodorato prima degli altri che la rivoluzione si avviava verso una dittatura feroce, non del proletariato sulla borghesia, ma dell’apparato burocratico comunista. Non era quella la rivoluzione che aveva sognato e non erano quelli gli uomini con cui avrebbe voluto farla.

Romolo, che studiava a Tortona, aveva improvvisato un comizio contro i preti che facevano patire la fame ai ragazzi marsicani del collegio. Per sottrarlo alla compagnia dei sovversivi, don Orione lo fece trasferire a Sanremo, ma anche lì partecipò a riunioni clandestine. Fuggì dal collegio e, tornato a Pescina, venne fermato dai carabinieri per un volantino anarchico. Il Patronato Regina Elena lo trasferì allora a Velletri. Come distoglierlo dall’ideologia? Come raccontargli la delusione e allontanarlo dalla politica?

A Fiume, al Congresso provinciale dei Giovani Comunisti, Secondino conobbe Gabriella Seidenfeld, che divenne la sua compagna rivoluzionaria. Aveva ventiquattro anni, capelli rossi e occhi profondi, ed era di famiglia ebraica. Secondino aveva bisogno di un traduttore dal tedesco e le offrì un posto a Berlino, dove doveva recarsi.

Le missive che Secondino spediva a Bellone, in terza persona, con calligrafia diversa e il nome clandestino di Silvestri, iniziano con frequenza nel 1923. Una viene da Parigi e riferisce dell’organizzazione della lotta in quella città. Ne emerge che non gli sono simpatici i comunisti italiani all’estero, “persone che rappresentano solo se stesse”, che approfittano della situazione illegale per fare illegali guadagni. Secondino visse, clandestino insieme a Gabrielle, nella Parigi degli anni Venti, all’epoca di Marcel Proust, Céline, Colette, Breton, Cocteau, Malraux e Camus.

Il nome gli era stato suggerito da Poppedio Silo, capo della resistenza dei Marsi nella guerra contro Roma, mentre il nome Ignazio l’aveva adottato in onore del santo di Loyola. Via Poppedio Silo era anche una strada in cui Secondino aveva abitato a Pescina, poi diventata via Fontamara.

La sorveglianza a Parigi era ferrea e Secondino si travestiva spesso con parrucche e baffi posticci. Scrisse a Gabriella: “vorrei scriverti delle belle cose. Ma tu sai che io non sono espansivo con le parole, nemmeno con Romoletto, nemmeno con la nonna”. Seppe sfruttare la capacità organizzativa della fenicottera ebrea, ma i suoi sentimenti non riuscivano a esprimersi, semplicemente perché non c’erano.

Secondino spedì a Bellone una foto in cui cinque membri della Commissione esecutiva dei gruppi comunisti discutevano. Nell’ombra, alle loro spalle, lui li guardava. La foto fu inviata alla Scuola di Polizia Scientifica: gli altri furono ingranditi, l’ingrandimento di Tranquilli non fu fatto con la scusa che il suo volto risultava annerito.

I rimorsi per il male fatto agli altri clandestini e la paura di essere scoperto. Quella doppiezza gli costava per la salute, quel male ai bronchi, e per l’altra salute, quella morale. Qualcuno nel gruppo dirigente si meravigliava del fatto che Secondino nelle retate era sempre il solo a farla franca.

L’ascesa politica di Secondino andava di pari passo con i colpi che la polizia fascista darà nel biennio 1926-27 al Partito. Pur essendo un informatore prezioso, nel 1926 fu arrestato a Roma, riconosciuto da un ex fenicottero diventato spia. Fu per distogliere i sospetti da parte dei dirigenti?

Nel 1926 molti comunisti furono arrestati. La repressione si scatenò dopo un attentato a Mussolini, avvenuto a Bologna: revisione di tutti i passaporti, sanzioni contro gli espatri clandestini, censura delle pubblicazioni ostili al regime, scioglimento dei partiti contrari al regime, confino di polizia. Fu introdotta la pena di morte per reati politici e istituito il Tribunale Speciale. Tranquilli e un piccolo gruppo di fenicotteri si salvarono, rintanandosi in un villino alla periferia di Milano, tenuto da un finto pittore belga.

Coltivava dentro di sé la necessità di testimoniare, e scrivere voleva dire essere un testimone del proprio tempo. Secondino sentiva che avrebbe ritrovare la sincerità solo nella scrittura. Entrando in un altro mondo, poteva liberarsi forse del mondo reale.

Avrebbe voluto parlare dei suoi segreti. Da ragazzino, quello della masturbazione fu il primo. Più tardi, ascoltando lamenti nella camera dei suoi, scoprì che il segreto apparteneva anche agli adulti. Il segreto sessuale fu dunque il primo. Più tardi il segreto si allargò alle cose cosiddette pubbliche. Scoprì che se uno si ammalava non bisognava dirlo, altrimenti gli altri ne avrebbero goduto. Non bisognava mai raccontare agli estranei un rapporto sentimentale se non giungeva al matrimonio e mai bisognava intrattenersi sui segreti di famiglia. E il segreto del denaro. Mai far vedere di non possederne abbastanza, pena la squalifica. Il segreto era legato alla parola. Bisognava parlare poco, dire l’essenziale, le parole tradiscono.

Il commissario era invisibile. Non appariva mai una sua foto sui giornali, nemmeno in occasione di una festa della polizia, di un encomio o di una testimonianza in un processo. Guido Bellone era un’ombra e il suo segreto era la passione per “i fanciulli” provati dal destino.

Non aveva confessato a Gabriella le sue incertezze riguardo alla vita clandestina, perché lei non ne mostrava e lo amava proprio nel suo abito rivoluzionario. “Se potessi addormentarmi dentro quelle baracche” le diceva “se potessi svegliarmi e stramare il mio asino, dare l’erba al gabbione dei conigli, preparare la minestra nel cotturo davanti a un bel focaraccio!”.

Nel 1928, a Lecco, Romolo Tranquilli fu catturato dai carabinieri. A differenza del fratello, amava parlare, anche con le padrone delle pensioni, che avevano il compito di riferire alla polizia se passavano tipi strani nei loro alloggi. Fu accusato di essere responsabile di un’esplosione avvenuta al passaggio del re alla Fiera Campionaria di Milano, che aveva provocato diciotto morti. L’accusa era priva di fondamento ma Romolo ammise di essere comunista e per questo si beccò dodici anni di carcere, dove i poliziotti fascisti gli curarono i polmoni a suon di bastonate. Chi lo consegnò? Bellone? E come mai Secondino, che avrebbe dovuto distogliere l’attenzione della polizia da suo fratello, restò in Francia per paura di essere acciuffato alla frontiera?

A sua moglie Darina Silone confessò che avrebbe voluto scrivere un libro sulla storia del fratello. “Fu a causa mia che morì innocente, a ventotto anni, colpevole solo di essere mio fratello... Nulla potevo contro le sevizie atroci che dovette subire durante l’istruttoria poliziesca... Aveva i polmoni minati dalla tubercolosi a causa delle bastonate, del freddo, della fame... ero a Parigi credendolo al sicuro in Svizzera quando seppi”.

“Quanti anni perduti! Ora mi sentirei di scriverli. Ma se non dovessi sopravvivere, me li scriveresti tu? Non si tratta di romanzi. Documenti. Ci tengo che certi fatti, certe esperienze non vadano perduti. Devi raccoglierli tu, se io non ce la faccio”. Questa confessione la fece a Darina prima di morire. Voleva che raccogliesse tutto il suo archivio.

Chiese a Bellone di dimettersi dal suo compito. Aveva sentito il richiamo della letteratura e doveva scrivere un romanzo che gli avrebbe permesso di accennare a verità che il saggio politico nascondeva. In quel periodo si consumò anche il rapporto con Gabriella Seidenfeld, che non lo seguirà nell’uscita dal partito.

Nel 1928 scriveva a Bellone: “Voglio avere assicurazioni su mio fratello… mi faccia inviare notizie da qualche fascista”. Secondino vuole che il commissario, promosso a commendatore, si adoperi ad aiutare Romolo e per questo diventa più dettagliato e feroce sui suoi compagni, che ritiene ormai allo sbando. Gli preme la sorte di suo fratello più di tutto.

Romolo era diventato un “fenicottero”. Ricevette un incarico pericoloso perché non si sapeva fosse il fratello di Secondino (e che, in quanto tale, aveva i poliziotti italiani alle costole) o perché di Secondino si conosceva l’attività di fiduciario e si voleva bruciarlo?

L’arresto del fratello tolse a Secondino l’equilibrio mentale, e la paura, con cui aveva convissuto, era diventata vero terrore. Qualcuno avrebbe potuto scoprire il suo rapporto con Guido Bellone, non poteva più continuare la vita che faceva. Se poi Bellone non era servito a salvare Romolo…

Nel 1928, da Berlino, scrisse a Romolo: “Ti prego di farmi avere soltanto un rigo, soltanto una parola purché scritta di tuo pugno e mi rassicuri del tuo stato di salute”. Scrisse anche al direttore del carcere, chiedendo che fosse curato adeguatamente. Roso dai rimorsi, scrisse di nuovo a Romolo: “Ti accludo lire cento (100) che spero riceverai per Natale. Come stai? Di che cosa ti nutrisci? Hai freddo?”

Romolo, a Regina Coeli in attesa del processo, scrive a Secondino: “Fammi sapere qualcosa di più del romanzo. Pare che sia su Fontamara… Quando sarò a Pescina ti manderò tutte le notizie possibili”. Era convinto che sarebbe stato liberato. Nella lettera spiccano le informazioni richieste da Secondino su Pescina e i suoi riti. Cercava storie per il suo romanzo.

Romolo si spense per soffocamento, dopo aver scritto alcune lettere ai familiari, in cui si lagnava del fratello che non gli scriveva più. Non ci fu funerale, le sue ossa vennero accatastate in una fossa comune.

Giunse in via Nomentana 191, in un bar vicino casa di Bellone, una lettera di Secondino da Locarno: “Io mi trovo in un punto molto penoso della mia esistenza. Il senso morale… non mi fa dormire. La mia crisi di esistenza non ammette che una sola via d’uscita: l’abbandono completo della politica militante… Vivere ancora nell’equivoco mi è impossibile. Io ero nato per essere un onesto proprietario di terre nel mio paese. La vita mi ha scaraventato lungo una china alla quale ora voglio sottrarmi. Ho la coscienza di non aver fatto un gran male né ai miei amici né al mio paese… Lei, data la sua funzione, si è sempre comportato da galantuomo. Perciò le scrivo questa ultima lettera perché lei non ostacoli il mio piano”. Si firma Silvestri.

Da “Nuova Antologia”: “Scrissi Fontamara nel 1930, durante la crisi che mi condusse fuori dal Partito Comunista… in Russia potei constatare che il regime comunista era esattamente l’opposto di quello che noi sognavamo … Per alcuni di noi divenne dunque intollerabile rimanere in quel movimento e con un vero strazio… avvenne la separazione. Mi rifugiai in Svizzera… a Davos, dato che anche il mio fisico era malridotto. Mi trovavo solo, senza denaro, senza passaporto. In quelle condizioni cominciai a scrivere Fontamara… Scrivere per me era un bisogno, un modo di ricordare. I ricordi… erano la mia forza, poiché in essi era la riserva morale e direi anche religiosa con la quale affrontare le avversità della vita”.

Senza denaro, solo e con un passaporto falso. Dopo Davos si trasferì a Zurigo, dove Aline Valangin lo aveva introdotto tra gli intellettuali tedeschi espatriati, come Robert Musil e Thomas Mann. Nel 1931, quando ormai il romanzo era finito, lo Stato Operaio lo espulse.

Aline era una donna moderna che accettava la libertà sessuale pur restando nel matrimonio, con il consenso del marito. Secondino non voleva ricadere in servitù e ne accettò il denaro pietoso.

Secondino, con l’identità frantumata, nella clinica di Zurigo incontrò Carl Gustav Jung. L’uomo, secondo Jung, è malato perché si è staccato, con la coscienza, dal suo inconscio e ha bisogno di ristabilire il dialogo tra le due parti divise.

Era passato dalla religione, la più grande ideologia mai inventata per consolarsi, al marxismo, l’ideologia laica che spiegava le mosse dell’individuo legandole al denaro, e adesso aveva aperto le porte del suo inconscio alla psicanalisi, che lo conduceva a interpretare la sua vita come una sequela di atti oscuri pronti a chiarirsi.

Dopo l’espulsione dal partito, scrisse a Gabriella: “la sola cosa che voglio è avere la salute fisica e mentale per scrivere e raccontare… Fontamara non è che un primo capitolo … Vorrei dire due o tre cose, prima di morire, che nessun altro può dire e che il destino mi ha incaricato di dire. Due o tre cose che ogni operaio, e ogni contadino, e ogni comunista e ogni fascista debba pensarci su… Due o tre cose su questa porca società”.

Aveva avviato nel 1930 la stesura di Fontamara nella clinica di Bellinzona dove curava i “gravi sintomi nervosi”. Lavorò ancora al testo a Davos. Tornò nel Ticino e si trasferì a Zurigo, dove diede lezioni private di italiano. Completò il manoscritto a Basilea nell’estate del 1931, prima di incontrarsi con la commissione che doveva espellerlo. I dirigenti comunisti, appreso del romanzo, lo definirono “intellettuale rammollito”.

Aline Valangin era nata nel 1889. Capelli neri, occhi carbone, a Secondino ricordò subito una donna del Sud, ma lei era una scrittrice, una pianista e una psicanalista, allieva e paziente di Carl Gustav Jung. Aline raccontò il primo incontro: “Era appena arrivato a Zurigo … Era un fervente antifascista, espatriato dall’Italia per agire dall’estero contro Mussolini… Accettò di insegnare italiano a nostro nipote… era fiero e per niente pronto a servire”.

“La nostra relazione era per me esclusiva… Ma tutto sommato non ha manifestato pienamente i suoi sentimenti per me... mi considerava comunque sempre una piccola borghese, una nemica di classe”. Aline lo trovò all’improvviso noioso e si invaghì di un altro scrittore.

Le donne che lo salvarono furono un’ebrea e una psicanalista svizzera. Da Gabriella si fece aiutare a uscire dalla solitudine. Non provava quasi nulla di sentimentale per lei, come per nessun’altra donna, pur stimando la rivoluzionaria. In fondo si servì anche di Aline Valangin, che lo introdusse nell’ambiente dei fuoriusciti.

Nel 1932 andò in Engadina per conoscere Alberto Moravia, che soggiornava in una pensione. Secondino si incuriosì di quel critico del fascismo di cui nel suo ambiente zurighese si parlava molto. Lo trovò a letto con la febbre. “L’ho conosciuto” raccontò Moravia “si fermò sulla porta, mi disse chi era e se ne andò. Non scambiammo una parola”.

C’è una foto di Secondino nel 1930 in Svizzera. Un ragazzo con folti capelli neri ha un maglione a losanghe sopra una camicia chiusa da una cravatta e le mani nelle tasche di un pantalone alla zuava. Non ha l’aspetto di un paziente, ma di un giovane intellettuale. Il maglione da montanaro ricorda quello che indossava nel 1915, nel suo primo viaggio a Roma.
(a cura di Paola Fusco)

http://www.amici-silone.net/cronologia/1930-1931.htm