Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  marzo 04 Mercoledì calendario

LA MIA MANO SINISTRA


Sviluppata da Touch Bionics, la I-Limb Ultra ha un motore per ogni nocca che permette il movimento indipendente di ogni dito, in modo da adattarsi in base alla forma dell’oggetto che si desidera afferrare: le altre protesi, invece, hanno un solo motore e muovono e arrestano le dita contemporaneamente, in modo piuttosto innaturale. È anche l’unica mano robotica che ha la capacità di aumentare gradualmente la forza della presa in base alla situazione. La protesi è metallica, quindi piuttosto scivolosa: per migliorare la presa, si indossano guanti di gomma.

La batteria dura una giornata intera e in alcuni casi può arrivare a due. Ma può anche scaricarsi molto in fretta: «All’inizio non facevo altro che aprire e chiudere le dita, tanto che durava solo quattro ore», ricorda Patrick. Quali sono le prime cose che hai pensato di poter fare? «La prima è stata tagliare il cibo, la seconda allacciarmi le scarpe. Molte altre cose riuscivo a farle anche prima, magari in modo strano, come aprire le bottiglie d’acqua bloccandole tra le gambe e facendo ruotare il tappo con due mani. Ma col taglio del cibo e i lacci delle scarpe non riuscivo a venire a patti». A differenza della protesi alla gamba, con cui Patrick ha iniziato a camminare e correre fin dall’inizio, la mano robotica gli ha imposto di imparare da capo a fare le cose: «Ricominciare è stato strano e per molti aspetti innaturale: controllare i vari muscoli con precisione non è semplice e può essere davvero frustrante. Ma quando ci riesci è una grande soddisfazione». Il processo di sviluppo di un arto dura una settimana: si resta nel laboratorio a provare la protesi a tempo pieno mentre viene costruita su misura. Il più grande sforzo, all’inizio, è riuscire a tendere determinati muscoli. «Ci provavo per otto ore al giorno e sono migliorato in fretta: ero molto emozionato e anche spaventato, immaginavo cosa questa incredibile tecnologia poteva fare per me e allo stesso tempo ero abituato a non avere la mano. Non appena l’ho indossata però ho realizzato quanto fosse grandiosa. Volevo mostrarla a tutti, ero entusiasta». Al ritorno a scuola, quattro anni fa, Patrick è stato accolto come una celebrità dai compagni. Tutti volevano stringergli la mano, molti volevano vedere che trucchi si potessero fare. Uno in particolare ha sempre divertito molto Patrick: mi chiede di allungare il braccio, lo afferra e si stacca la mano, che resta saldamente stretta al mio polso mentre lui ride.

«Ci sono ancora cose che faccio meglio senza la mano bionica: scrivo al ritmo di 80 parole al minuto e gioco alla Playstation. Con l’arto sarei molto più lento. Mi piaceva comunque l’idea che se non avesse funzionato sarei potuto tornare indietro e fare le cose come le avevo sempre fatte». La I-Limb, infatti, non prevede alcun impianto: funziona trasmettendo il movimento dei muscoli alla mano. «Non vorrei qualcosa di impiantato sottopelle: un po’ come chi porta gli occhiali non vuole indossarli tutto il tempo, cosi è bello sapere di potersi togliere un arto bionico. Poter tornare completamente normale: questo è il limite che mi sono dato. Non vorrei una mano capace di afferrare automaticamente un oggetto che mi sta cadendo. Voglio avere io il controllo». La prima commercializzazione della I-Limb risale al 2007: da allora ci sono stati aggiornamenti hardware e software per controllare più accuratamente il movimento delle singole dita. Risultato: tre nuovi prodotti in appena cinque anni. E siccome c’è un’app per tutto, ce n’è una anche per comandare movimenti ben precisi, via bluetooth. Basta premere una delle icone sullo smartphone per pizzicare, alzare il pollice o altre dita – in quello che Patrick definisce “gesto personalizzato”. «All’inizio non ero abituato alla lunghezza delle dita e sbattevo ovunque. Ne ho rotte diverse anche cadendo». In un’epoca di big data, anche queste protesi producono una mole di dati utili per programmare aggiornamenti e sviluppare i modelli successivi. C’è un monitoraggio costante per capire cosa si può migliorare, esaminando la frequenza d’uso e di ricarica della batteria e il grado di usura dei componenti.

Il prezzo di una protesi di questo tipo varia tra 30 e 80mila sterline (40-105mila euro) e dipende da moltissimi fattori, tra cui l’altezza da cui si parte: si può avere la protesi dal polso, come nel caso di Patrick, ma anche dal gomito o dalla spalla. Crescendo, va periodicamente sostituito l’attacco: una manica da indossare sull’avambraccio, alla cui estremità si trova l’innesto della mano, che resta sempre la stessa. Per Patrick, però, essere bionici è un modo di pensare, è cambiare il proprio atteggiamento in modo da non vedere più la parola “svantaggio” nel dizionario. «Tutti abbiamo la possibilità di diventare bionici: penso che là fuori ci siano opportunità da prendere al volo per ciascuno di voi, specialmente quando meno ve lo aspettate».

Patrick frequenta l’ultima classe delle superiori e l’anno prossimo, se tutto va bene, andrà a Oxford a studiare Scienze naturali. «So che nelle scuole ci sono situazioni di bullismo, ma io ho trovato un buon ambiente: sicuramente frequentare lo stesso istituto da quando avevo quattro anni ha aiutato. Se avessi continuamente cambiato scuola forse sarebbe stato molto più difficile trovare la dimensione giusta». Ora che andrai all’università, come pensi sarà ricominciare? «In genere ho sempre fatto in fretta a legare con le persone, vediamo come andrà anche da quel punto di vista: dubito che diventerò improvvisamente timido, non vedo l’ora di cominciare, ma non ho idea di come andrà». E infatti anche durante la visita al campus, la voce della sua presenza si è sparsa in fretta e in molti sono andati a salutarlo. «Più perché sono stato un tedoforo che per la mano, in realtà».

In occasione delle Olimpiadi di Londra, nel 2012, ha corso con la torcia in uno dei punti più affollati del percorso: Trafalgar Square. «Una delle più belle esperienze della mia vita. Il ricordo è sfocato: ero circondato da un’infinità di persone, sembrava un concerto, e ho pensato: “Sono venuti tutti qui a vedere me”. Mio padre aveva gli incubi, temendo potessi cadere: ero uno dei pochi con una gamba sola e mi è toccato un percorso con le scale. Quando ero in cima, con gli agenti della sicurezza su entrambi i lati, una delle guardie mi ha detto: “Saluta”. Non sapevo come fare: “Non puoi far cadere la torcia”, mi sono detto. Alla fine però l’ho retta con una mano e salutato con quella bionica. Ero un po’ preoccupato, ma è andata alla grande». Essere un tedoforo è una delle occasioni che Patrick ritiene di avere avuto solo per via della sua condizione. «Sono successe molte cose positive nella mia vita e la mia condizione mi ha aiutato a distinguermi. Francamente non c’è qualcosa che volessi fare che non sia poi stato in grado di fare. Se non mi fossi ammalato non sarei stato ospite in tv, non starei nemmeno facendo questa intervista, e non avrei fatto un TED Talk».

Lo scorso ottobre, al primo TEDxTeen europeo, Patrick ha parlato davanti a una platea di centinaia di persone. Ha detto: «Cogliete le vostre opportunità con due mani... anche se una di queste è bionica. Sì, volevo che suonasse come una cosa seria, ma volevo anche far capire alla gente che non sono una di quelle persone noiose che parlano solo delle proprie disabilità perché è tutto ciò che hanno da dire. E se c’è un’opportunità di scherzare sulle mie condizioni la colgo al volo. Ancora oggi la battuta “Ti serve una mano?” è la mia preferita: è un modo per rompere il ghiaccio e non far diventare la questione il classico elefante in una stanza, qualcosa di difficile da aggirare ogni volta. Troppe persone hanno paura di parlare della propria disabilità, ma il progresso tecnologico a disposizione oggi può trasformare uno svantaggio serio quasi in un vantaggio. Guarda le Paralimpiadi: si dibatte se atleti con e senza protesi possono correre insieme e non si trova una soluzione, perché quelli con le protesi potrebbero essere considerati avvantaggiati». Servirebbe una nuova categoria, le “bionicpiadi”. «È un po’ come considerare una gara in cui si può fare uso di doping: qualcuno direbbe “mai”, qualcun altro direbbe “vediamo fino a che punto possiamo arrivare”. Bisogna trovare un equilibrio, ma io sarei curioso di vedere un uomo correre i 100 metri in 5 secondi anziché in 10. La bionica è un po’ come una gara automobilistica: è affascinante e potenzialmente è qualcosa che potrebbe davvero accadere in futuro».