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 2015  marzo 04 Mercoledì calendario

STREAMING: LA FORTUNA DELLA MUSICA


La sede centrale di Spotify, a Norrmalm, la City della capitale svedese, è uno spazio luminoso all’ultimo piano di un palazzo. C’è un’atmosfera rilassata ma sobriamente scandinava, senza quella giocosità un po’ forzata di certi uffici della Silicon Valley. In un ufficio tappezzato di icone del rock è pronto il computer che metterà in contatto via Skype Daniel Ek, il trentaduenne inventore di Spotify, con Lorenzo Jovanotti. Daniel ha l’aria timida, in mano ha quello che sembra uno smoothie alla fragola e porta una felpa nera con il logo di Spotify. Lorenzo, da New York, si collega puntuale come un orologio svizzero. Il suo inglese squillante, ottimo ma con un pesante accento toscano (sembra Benigni agli Oscar!), scalda subito la stanza.
Ciao Daniel, qui New York, come va da voi a Stoccolma?
Ciao Lorenzo, tutto bene. E tu? Sei sopravvissuto alla tempesta di neve?
La cosa bellissima è che la città era deserta. Ho chiamato un mio amico, siamo usciti alle sei di mattina e abbiamo girato il video per il mio nuovo singolo. Will Smith ha speso 10 milioni di dollari per avere Manhattan deserta e io l’ho avuta gratis!
È una gran cosa poter sfruttare queste situazioni a fini produttivi.
Ho una videocamera 5D e la qualità è pazzesca, come il cinema.
Oggi gli strumenti che hanno a disposizione gli artisti sono davvero a buon mercato e permettono di fare un sacco di cose che un tempo erano impensabili. La cosa assolidamente nuova è che oggi un artista è libero di sperimentare senza sentire addosso troppe pressioni.
Alla fine quella che rimane è l’idea, non il preoccuparsi di come realizzarla. Certo, se vuoi puoi chiamare anche la Philharmonic Orchestra: la tecnologia non ti impedisce di fare scelte tradizionali. È un po’ come dire che se ti va puoi uscire a cavallo anche se esistono le macchine.
Questo è superinteressante: un tempo, se volevi usare una grande orchestra nel tuo disco dovevi fare in modo che tutto fosse perfetto da subito. Ora per esempio puoi sperimentare prima, simulare, così da essere più sicuro di quello che vuoi.
Ti ricordi Glenn Gould, il pianista? Lui è stato il primo a sperimentare con nastri ed editing. Pensa se lavorasse ora, con pro tools: forse non suonerebbe più neanche il piano.
Vivi a New York fisso in questo periodo?
Vivo tra l’Italia e New York, dove ho un piccolo appartamento. Mia figlia quest’anno studierà qui. Anche tu hai un figlio, vero?
Ho un figlio e anche una figlia di un anno e mezzo.
Tua figlia è una vera millennial.
La cosa buffa è che tutti credono che sia questo grande appassionato di tecnologia: in realtà sono molto più analogico di quanto si possa pensare.
Io ho l’impressione che la forza di Spotify venga proprio da questa tua natura. La prima volta che l’ho usato ho avuto la sensazione che fosse una piattaforma fatta da veri appassionati di musica.
Be’, ne sono molto contento. Hai mai scoperto dei nuovi artisti su Spotify?
Certo! L’altro giorno guardavo True Detective e mi piaceva la musica, allora mi sono messo a cercare non tanto la colonna sonora, quanto le playlist a tema True Detective e ho scoperto anche un sacco di altra musica.
Quando finiamo qui ti mando delle playlist: hai presente lo scrittore Paulo Coelho? Lui scriveva anche parole per musicisti: ha delle playlist fantastiche di musica brasiliana su Spotify.
Tu fai bene il tuo lavoro, ma cosa dovremmo fare noi artisti e cosa dovrebbero fare i discografici per essere pronti a questo nuovo scenario?
Per spiegartelo dobbiamo tornare alle origini: io non potevo materialmente comprare tutto quello che avrei voluto sentire. Quando è uscito Napster è stato fantastico. E quello che mi è successo è che mi sono innamorato ancora di più della musica. La cosa che sta succedendo oggi è che la gente ascolta molta più roba e il modo in cui si scoprono cose nuove è cambiato. Ora si scoprono artisti nuovi tramite gli amici. Per venire alla tua domanda io penso che noi rimaniamo dalla parte dell’industria discografica: i processi creativi rimangono gli stessi di sempre. L’unica differenza è la dissoluzione del format. Un Lp conteneva 12 canzoni circa. Ora puoi fare un album con 300 canzoni o con una sola.
Il mio nuovo disco ha 30 canzoni. La mia è una dichiarazione di intenti: è un nuovo format. Non è più un semplice album: è una “music cloud” da cui poi partiranno remix, versioni live eccetera. Questo lavoro è due anni della mia vita. Sarebbe bello che una piattaforma come Spotify mi permettesse di spiegare questo concetto.
Far entrare l’ascoltatore nel tuo processo creativo. È esattamente la direzione in cui ci stiamo muovendo. Prima era tutto basato sulla scarsità: sul trattenere le cose e farle uscire diluendole nel tempo. L’artista diceva: “Ho finito il mio album ma lo faccio uscire tra otto mesi perché la mia casa discografica ha i suoi tempi”. Se fai così oggi, il tuo album viene piratato nel giro di una settimana. La cosa più importante adesso è fare l’opposto: essere più aperti possibile.
E a un giovane artista tu cosa consiglieresti? Deve cercarsi un contratto come ho fatto io a suo tempo?
La gente dà per scontato che io dica: “Ehi, siamo nell’era del digitale, non hai bisogno di una casa discografica o di un contratto... puoi fare tutto da solo”. La verità invece è che si ha sempre bisogno di avere gente capace intorno. Per darti un’idea: su Spotify carichiamo circa 10mila canzoni nuove ogni giorno. Prima usciva il tuo disco e doveva competere contro le ultime hit della settimana, ora se la deve vedere con l’intera storia della musica. Il mio consiglio è quello di trovarsi un’etichetta che creda in lui e lo aiuti a far sentire la sua voce. E chi non ha etichette forti alle spalle, ha ottimi manager. Certo, se sei superbravo puoi fare tutto da solo ma le tue possibilità di farcela diminuiscono.
Cosa c’è nel futuro di Spotify?
Ogni attimo della giornata può diventare un momento musicale e noi stiamo spingendo in quella direzione. Se stai lavorando e hai bisogno di concentrarti vogliamo essere lì con i suoni giusti per te. Se sei in palestra a sollevare pesi devi trovare subito la colonna sonora per dare il massimo. E poi c’è un secondo aspetto a cui ci stiamo dedicando: dare un contesto alla musica. Il fan sa quali sono stati gli anni più importanti di Billy Joel, per esempio, o cosa gli succedeva quando faceva questo album o questo tour. Ora si tratta di veicolare queste informazioni anche al non fan che magari vorrebbe saperne di più.
Un tempo i festival erano tematici, oggi vai a Lollapalooza e trovi di tutto. Due anni fa suonavo al Bonnaroo e sullo stesso palco sono passati Eminem e Neil Young. E questa secondo me è la cultura di Spotify.
Sono d’accordo. Anni fa è scoppiata la mania di Gangnam Style e improvvisamente la gente si è interessata alla Corea del Sud e alla sua cultura. La musica rende davvero più piccolo il mondo.
E il fatto che Spotify sia un’azienda svedese è parte di questa storia. Tu hai avuto da subito la sensazione che sarebbe stata mondiale?
Il bello della Svezia è che è così piccola che tu devi per forza pensare in grande. La Svezia poi ha una marcia in più: non tutti lo sanno ma qui c’è una sensibilità particolare per la musica pop e abbiamo dei grandissimi autori e produttori. Se prendi la Top 100 di Billboard, almeno 20 pezzi, in qualunque momento dell’anno, sono scritti da autori svedesi. Per essere così pochi il nostro impatto culturale sul mondo è fortissimo. Quando sono arrivato nel mercato americano avevo paura di non essere accettato. Negli ultimi 10 anni ho passato metà del mio tempo negli Stati Uniti. A incontrare gente, a conoscere la cultura...
Spotify è più Silicon Valley o New York? È sicuramente più New York. Non ho mai voluto che la mia fosse un’azienda solo tech. New York ti offre un misto di culture e di sensibilità che è unico al mondo. In Silicon Valley c’è gente molto intelligente ma a fuoco su una cosa: tech, tech e ancora tech. Sono un appassionato di computer e sono affascinato dalle cose che ci si possono fare ma non sono un fan della tecnologia come fine in se stesso. Volevo uscire da quella trappola tecnologica e New York me ne ha dato l’opportunità.
Ma ora dimmi qualcosa di tecnologico: state investendo nel miglioramento della qualità del suono su Spotify?
Assolutamente: ne parlavo già anni fa con Neil Young, amo molto il suo Pono (il sistema di file audio per audiofili, ndr). Però dobbiamo essere realistici: non tutto il mondo ha la stessa disponibilità di traffico dati. Quando tutti avranno accesso a grandi quantità di musica per forza di cose ci occuperemo di migliorare la qualità del suono: sarà un passaggio obbligato. Per ora ci stiamo diffondendo e dobbiamo dare a tutti, in qualunque parte del mondo, l’accesso alla musica. Il problema poi è che devono migliorare anche i dispositivi con cui la gente oggi sente la musica.
Se cerchi la qualità devi saperla trovare sia nella gamma alta che in quella bassa. Noi artisti affrontiamo questa sfida oggi. Ma se ci pensi è sempre stato così: prima i grammofoni, poi le cassette, poi i cd. Si è sempre investito nel migliorare l’ascolto e poi le tecnologie buone prendevano piede naturalmente.
E poi c’è bellezza anche nella bassa fedeltà. Ero in un club in Africa e il suono faceva così schifo che era quasi bello. Era tutto distorto ma era pazzesco.
Era il suono giusto nel luogo giusto. Non credo che a casa lo accetteresti.
Purtroppo è arrivato il momento di salutarci, restiamo in contatto: ehi la voglio anch’io la tua felpa!
Te ne mandiamo una, scrivimi.