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 2015  marzo 04 Mercoledì calendario

ESSERE HACKER È UNA COSA SERIA: VUOL DIRE INCIDERE SULLA REALT


[Michael Mann]

Perché hai voluto fare un film sugli hacker?
«Mi sono interessato all’argomento dopo la vicenda Stuxnet (il virus informatico lanciato dal governo americano e da Israele contro l’Iran, ndr). Mi sono reso conto che il mondo è diventato simile a un esoscheletro invisibile di dati nel quale noi ci muoviamo e in cui tutto è interconnesso.
I tecnocrati pensano che qualsiasi cosa, anche un apriscatole, possa cambiare il modo in cui vive la nostra società ma è una cosa senza senso».
L’hacking è diventato una cosa molto seria.
«Cosa vuole dire essere un hacker? Voler fare delle cose. L’atteggiamento è: “Chi l’ha detto che non posso scalare quella montagna? Chi l’ha detto che non c’è un punto debole?”. Entri in un loop di ricerca di un feedback positivo. Prendi il mondo dei giochi Online: puoi passare sei ore a giocare e ti sembrano venti minuti, ma il risultato è tutto in un mondo di fantasia. Gli hacker hanno una motivazione che è esattamente opposta: il risultato delle loro azioni ha un impatto sul mondo reale».
I tuoi film sono sempre pieni di cattivi. Gli hacker sono i nuovi gangster?
«So come funziona il crimine informatico, l’unico obiettivo è fare un sacco di soldi, sia che venga dalla Russia, dalla Cina, dall’Ucraina o da Taiwan».
Ma non è ancora stato trattato in modo accurato a Hollywood...
«Io l’ho dovuto studiare. Ho passato molto tempo con Mike Rogers, capo dell’House Intelligence Committee. Quello che si vede nel film è tutto vero».
Hai preso ispirazione per lo stile da altri film sull’hacking?
«Vedere un tizio che digita su una tastiera è noioso. Allo stesso tempo non volevo mostrare l’interno di un chip in modo troppo spettacolare, come se fosse una moto che attraversa un ponte. Volevo rappresentare nel modo più realistico possibile l’idea di un pacchetto di dati che arriva dicendo: “Sono a posto, fammi superare il tuo firewall”, ma in realtà ha nascosto dentro un attrezzo che lo fa passare dal retro. Siamo entrati dentro a un computer e abbiamo usato l’immagine reale di un transistor: un pezzo di metallo conduttivo con un surplus di elettroni e uno senza. L’unica libertà che ci siamo presi è di farli di due colori diversi».
Hai sempre curato con molta attenzione la musica dei tuoi film. Come hai lavorato per Blackhat?
«Ho collaborato con molti compositori, volevo creare situazioni diverse e avere tanti spunti. È stato come fare un casting di attori: il film è un’avventura in cui la storia cambia in modo drastico almeno tre volte, quindi ci sono differenti stati d’animo e una musica diversa per ognuno di essi. Atticus Ross ha fatto una parte, Harry Gregson-Williams un’altra, e poi ci sono Ryan Amon e Mike Dean, il tastierista e produttore di Kanye West. Un ragazzo molto talentuoso».
Hai lavorato spesso con attori che erano alla ricerca di un ruolo importante. È successo lo stesso con Chris Hemsworth? Voleva essere qualcosa di più di Thor?
«Chris è un attore vero, l’ho capito quando Ron Howard mi ha fatto vedere 45 minuti di Rush durante il montaggio».
Sei stato uno dei primi a girare in digitale, ma quando è uscito Collateral la maggior parte dei cinema proiettavano ancora in pellicola, e tu hai detto che questa cosa avrebbe compromesso la qualità del film e la sua resa sullo schermo.
«Le cose sono migliorate con il tempo. Il digitale mi piace ma a volte è meglio usare un’immagine fotochimica e non elettronica. L’Hd è un effetto che provoca una reazione e ti fa sentire in un certo modo. In Nemico pubblico volevo trasportare lo spettatore all’interno di un mondo e renderlo reale, tagliente e freddo come la vita vera dei personaggi. Non volevo raccontarlo attraverso la lente della nostalgia usando il 35 millimetri. Ma se dovessi rifare L’ultimo dei Mohicani lo girerei ancora in pellicola».
È la stessa cosa che sta succedendo nelle città americane: dalle luci a incandescenza si passa ai led per l’illuminazione pubblica e le infrastrutture. Los Angeles ha già fatto il cambio, New York lo sta facendo. Il modo in cui riprendi il paesaggio urbano è uno dei tuoi marchi di fabbrica, credi che questo cambierà il tuo stile?
«I led sono duri e un po’ troppo blu, ma l’unica cosa che mi mancherà veramente è quel bagliore che si forma intorno alle luci quando di notte dal mare sale l’umidità e la nebbia carica di sodio rimbalza dietro alle nuvole».
I tuoi film sono come delle lettere d’amore a una città, da Los Angeles a Miami. Blackhat invece è un viaggio intorno al mondo: Kuala Lumpur, Giacarta...
«Volevo che i personaggi avessero addosso la tensione di sentirsi stranieri in un posto diverso. Giacarta è perfetta: di giorno ci sono venti milioni di persone, di notte ce ne sono dieci. Il paesaggio urbano cambia in modo radicale, ed è molto interessante. È incasinata, mi ricorda Chicago, la città in cui sono cresciuto».
Sembra che a tutti i registi di Chicago piaccia il paesaggio urbano.
«No, a tutti i registi che sono cresciuti in città. Quelli che sono cresciuti in periferia fanno le commedie».
Però tu sembri apprezzare una città in particolare.
«Chicago. C’è un che di romantico in quelle strade scure bagnate dalla pioggia di notte, con la sopraelevata che passa in mezzo. Oppure quelle giornate d’inverno pulite in cui fa molto freddo e non c’è nemmeno una nuvola in cielo».