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 2015  marzo 04 Mercoledì calendario

UNA PISTA DA SBALLO


A più di 37 anni dalle sue favolose notti, lo Studio 54 rimane, nei ricordi di molti, un ritrovo per nottambuli incrociato con un culto dionisiaco. Aperto nella primavera del 1977 da un paio di intraprendenti amici, Steve Rubell e Ian Schrager, il night club sulla 54esima Strada di Manhattan è una di quelle leggende urbane di cui chi ha avuto modo di conoscerla parla ancora con un sorriso incredulo. Per 33 mesi l’ex studio 52 della Cbs Television, riconvertito in una fabbrica di suoni martellanti, si guadagnò le prime pagine dei giornali.
Quale star era fuggita insieme a un aiuto cameriere vestito solo di pantaloncini striminziti per un divertissement privato nella sua limousine? Chi aveva lasciato una borsa Halston piena di sonniferi sul divano della toilette delle signore? Ogni sera era una nuova puntata in un reality show ante litteram, con protagonisti come Mick Jagger, Cher, Andy Warhol, Jackie O, Valentino, Farrah Fawcett, Calvin Klein, Ryan O’Neal, Liza Minnelli e Michael Jackson, l’unico adolescente cui era concesso giocare con i suoni e le luci del dj.
Bastava l’idea della compagnia di queste star ad attirare l’attenzione dei giovani benestanti del New Jersey, accuratamente selezionati tra una folla di aspiranti da Steve Rubell, appollaiato sul suo sgabello fuori dall’ingresso. Dai due enormi amplificatori tuonavano le voci di Gloria Gaynor, Stevie Wonder e Grace Jones, facendo vibrare il pavimento. Luci laser frenetiche illuminavano la pista e gli angoli più bui, trasformati in alcove per flirtare (nel migliore dei casi). L’idea, come spiega oggi Ian Schrager, era quella di bombardare tutti i sensi, in modo permanente. Era come un parco dei divertimenti per adulti. A seconda della serata, il locale poteva essere invaso da un’orda di Hell’s Angels in sella a rombanti Harley, addobbato come Pechino, con gli ospiti portati qua e là in lettiga (il compleanno del ristoratore Mr Chow nel 1977), trasformato in un gigantesco roseto (San Valentino del 1978), sepolto sotto dieci centimetri di paillettes (Capodanno del 1977) o una valanga di popcorn (gli Oscar del 1978).
La festa era esplosiva, fenomenale e... destinata a finire presto. Cosa fu a decretarne il crollo? La gigantesca luna sulla parete che sniffa una cucchiaiata di polvere bianca? O la dichiarazione pubblica di Steve Rubell, secondo cui «soltanto la mafia guadagna più soldi di noi»?
Era il 14 dicembre del 1978 quando trenta agenti federali fecero un’irruzione a sorpresa, confiscando sacchi della spazzatura pieni di banconote, e libri contabili nascosti, a quanto si dice, in un controsoffitto. Due anni dopo, Rubell e Schrager si beccarono una condanna a tre anni e mezzo di carcere per evasione fiscale, poi ridotta a 13 mesi. Il 14 febbraio del 1980 Liza Minnelli cantò la sua New York, New York alla festa d’addio dei due fondatori, emuli di Icaro. Steve Rubell morì nel 1989, mentre Schrager entrò nel settore degli alberghi di lusso. Lo abbiamo incontrato.
È vero che stai lavorando a un libro sullo Studio 54?
«Vero. E dire che non sono affatto un tipo nostalgico! Una volta Berry Gordy, il fondatore della Motown, disse: “Se la storia non la racconta il cacciatore, la racconterà il leone”».
Sarà il libro definitivo sull’era della disco mania?
«In realtà lo Studio 54 non era fatto tanto per la disco. Erano gli Anni 70: è stato il contesto sociale a creare lo Studio 54. Erano in atto dei cambiamenti radicali. La pillola anticoncezionale era diventata di uso quotidiano. L’Europa e il resto degli Stati Uniti guardavano a New York, tutti si precipitavano lì. Prendeva piede la scena gay e iniziava a fare cultura, raccogliendo il testimone dalla comunità nera che aveva fatto cultura fino a quel momento. Lo Studio 54 si trovava in mezzo a tutto questo. Le cose non accadono nel vuoto».
Questo chiarisce perché gli osservatori, per spiegare il suo successo, parlino sempre di una miscela perfetta di frequentatori. La vostra selezione all’ingresso, che era quasi come un casting, fa parte della leggenda.
«Sì, però non era un locale elitario».
Trovi? Quantomeno era un locale che badava al look.
«Steve usava la stessa discrezione che useresti tu per una cena a casa sua. Quello espansivo lo fai sedere vicino a quello timido, così da avere una cena piacevole con delle belle conversazioni. Ma non era questione di look. Era questione di vibrazioni, dello spirito che emanava dalle persone. Volevamo creare uno spazio in cui le donne non fossero infastidite dagli uomini, un ambiente perfetto per festeggiare, fatto di leggerezza e di entusiasmo. Qualcosa di alchemico fra gente di vario tipo. Fare belle serate e intanto fare ottimi affari. Oggi chiaramente farei entrare anche tutti i banchieri [ride]. Ma oggi ci vorrebbe tutt’altro tipo di posto. Che lo faccia qualcun altro».
Però stai ricominciando ad avviare dei club nei tuoi hotel, no?
«Diciamo che devo trovare il modo migliore per convincere a ballare questa gente così seria! Per me andare in un club significa lasciarsi andare. Ballare e sudare a più non posso. Allo Studio 54 volevamo proprio questo. Io e Steve puntavamo tutto sulla pista da ballo, non sul bar, non sulla zona lounge. La pista. Tutto si sprigionava da lì, in un certo senso. Il mio ricordo più vivo dello Studio 54 è di gente in frac che balla con gente in jeans, la signora col vestito da ballo favoloso insieme al ragazzo a petto nudo. È questo a dare energia a un posto. Il casino! E la sensibilità a unire la gente. Non l’età».
E chi inventava quelle pazzesche feste di compleanno a tema: Bianca Jagger che fa Lady Godiva in groppa a un cavallo bianco, la scena di Dolly Parton nella fattoria con maiali, pecore e mucche veri?
«Io. Toccava a me ideare e produrre tutti quegli eventi. Una delle serate più importanti che dovetti allestire in tre giorni fu il compleanno di Valentino. Giancarlo Giammetti ebbe l’idea di un tema circense. Io creai una pista con la sabbia e delle sirene su un trapezio. Giammetti si fece prestare da Fellini i costumi del suo film I clowns. Valentino interpretava il presentatore con la giacchetta rossa, e la modella Marina Schiano faceva la chiromante con pappagallo sulla spalla. Per noi quelle serate erano uno strumento di marketing per promuovere il locale».
E per fare colpo a tutti i costi non vi facevate scrupoli, nemmeno a usare dei nani come pezzi d’arredo?
«Le nostre feste di Halloween erano sempre le più folli. Per quella con i nani, in particolare, mi ispirai a Hieronymus Bosch. Per le scene lavoravo con Mark Ravitz, lo scenografo storico di David Bowie. Karin Bacon, la famosa curatrice di eventi, ci aiutava a trovare gli artisti. Mark aveva progettato vari tipi di porte, e dietro a ognuna c’erano diversi tableaux vivants ispirati ai quadri di Bosch. Ricordo la scena di una famiglia di nani che mangiava galletti anziché tacchini per rispettare le proporzioni. C’era un doppio pavimento di plexiglas con delle luci viola e dei topolini bianchi che ci correvano dentro».
La carta vincente dello Studio 54 era quell’incredibile schiera di celebrità. Come avete fatto a radunare tutta quella gente?
«Molti erano amici di Steve, io ne conoscevo qualcuno. Avevamo un fotografo a tempo pieno e, siccome volevamo che le foto circolassero anche in Europa, ogni mattina spedivamo le foto alle riviste di tutto il mondo. Prima di noi c’erano solo pettegolezzi sui ricchi, l’ambiente mondano. Noi abbiamo inventato la cultura delle celebrità proprio mentre si affermavano le riviste di gossip. Per me, fra l’altro, quella cultura è finita con Paris Hilton. Queste Kardashian... Che senso ha? Almeno le nostre celebrità avevano prodotto qualcosa. Oggi invece prima diventi una celebrità, e poi t’inventi qualcosa da fare».
E che mi dici della moda?
«A quei tempi eravamo nell’epoca d’oro della moda. Calvin Klein, Halston, Yves Saint Laurent, Lagerfeld, Versace, Armani erano tutti grandi sostenitori dello Studio 54. Il mondo della moda era uno dei nostri pilastri. Oggi è tutto molto più usa e getta, no? Zara, le grandi multinazionali...
Non fa per me quella roba. Mi piacerebbe tornare alla semplicità. Alla qualità intramontabile. Ora vado pazzo per Hermès».
Una volta hai partecipato a un’asta contro lo stesso editore di GQ Usa per comprare la rivista Details. Rimpiangi di non essere entrato nell’industria dell’entertainment?
«I rimpianti non sono una cosa che coltivo. L’unico che ho è quello che è successo con lo Studio 54. Sarà sempre una fonte di ricordi. Dolci ma anche amari».