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 2015  marzo 04 Mercoledì calendario

BRACCIO DI FERRO

Camere d’albergo come casa. Questa qui è a San Paolo del Brasile, finestre a vetri affacciate sul traffico caotico di una città perennemente intasata. Un torneo, una tappa breve, prima di un’altra città, di un altro hotel. Avversari in continua successione. La voce solo venata dalla stanchezza, i modi pacati.
Fabio Fognini ha 27 anni, tennista da primi posti delle classifiche mondiali. Un’avventura iniziata a Sanremo dove è nato (il 24 maggio 1987), proseguita ad Arma di Taggia dove è cresciuto, poi allungata da un tour infinito: «Essere tennis professionista comporta una sorta di solitudine, lo dico ben consapevole della fortuna che ho avuto e conservo, visto che ho trasformato la mia passione in un lavoro capace di offrire denaro e gratificazioni. Ma la nostra vita è dura e questa durezza non la si vede. Vai, voli, entri, esci, giochi. Ogni settimana hai un’occasione da cogliere e talvolta non ce la fai del tutto, sei disturbato da una quantità di complicazioni possibili. Fisiche e psicologiche. Del resto, sono regole del gioco anche queste. É così. Punto».
Nervi. Testa e cuore. Sono le parti sensibili che circondano il talento. Ciò che determina un buon risultato così come una caduta. L’argomento, in questo caso, è pertinente. Digiti “Fognini” e il web scarica filmati e notizie connesse al suo nervosismo. Liti, contestazioni plateali. L’uomo che parla e riflette in attesa di giocare a San Paolo, trasformato in un ragazzino capriccioso: «Sono comportamenti che nascono dentro di me. Insofferenze intime e profonde al cospetto di un errore. Quando non sono contento di come gioco, di ciò che combino, l’insoddisfazione si trasforma in malessere e alla fine salta un po’ tutto. Dovrei usare i verbi al passato perché sto cercando veramente di cambiare, a costo di perseguire uno sforzo doppio, costante. Però ho imparato che la fatica restituisce sempre qualcosa di utile e questo percorso verso un equilibrio più completo ha un prezzo».
Un bel prezzo. «Lo pago volentieri, a costo di affrontare qualche scomodità. Ma riguarda solo il campo di gioco. Lontano dal tennis sono una persona diversa, molto tranquilla, assolutamente normale. Quindi penso che l’aspirazione a comportarmi bene sia una cosa naturale. Non credo di essere perfetto ma di essere una persona distante da quella che talvolta è apparsa, irascibile e persino infantile. L’entusiasmo del ragazzo serve allo sport: va semplicemente protetto e gestito». É questa la sfida, ora. Per un uomo molto dotato. Fisico, aspetto, talento. Sembra che non manchi nulla: «Sono abbastanza soddisfatto. Credo di aver dimostrato qualcosa negli ultimi anni, ho raggiunto il 13° posto del ranking mondiale, a pochi minuti dai primi dieci, so qual è il mio valore. Mi pare di crescere e di conoscermi il che attenua la pressione».
Non a caso un anno, questo, cominciato bene. Vittoria nell’Australian Open 2015, torneo del Grande Slam, in doppio con Simone Bolelli. Un risultato che mancava, nel tennis italiano, dal 1959: Nicola Pietrangeli e Orlando Sirola, Internazionali di Francia. «Anche se questo sport è fatto di individualismi, giocare con un compagno è impegnativo e divertente. Serve un’intesa, una divisione della responsabilità, un adattamento reciproco. Il doppio non è la mia vera specialità, ma Bolelli è un amico da molti anni. Vive a Montecarlo, per cui ci vediamo spesso. Quindi, una bella soddisfazione davvero condivisa e grande».
Un compagno per giocare, una compagna nella vita. Nome: Flavia. Cognome: Pennetta. Il che significa identico mestiere, doppia popolarità, esposizione, curiosità buona per fare gossip, pettegolezzo. «Sono parti del gioco anche queste, bisogna trattarle e conviverci. Da una parte la popolarità è gradevole, genera una piccola ricompensa. Per il resto va tenuta a distanza. É quello che Flavia e io cerchiamo di fare: il nostro rapporto non patisce granché, infatti. Forse sono io quello più esposto e preso di mira, ma nulla di troppo invadente. Facciamo la nostra vita, come molte altre coppie, con il lavoro che in questo caso ci tiene spesso distanti».
E poi? «Si vedrà. Dipende, per esempio, sino a quando Flavia vorrà giocare. É possibile che decida di cambiare vita prima di me: significherà cambiare modo di stare insieme. Ma è un tema che affronteremo al momento dovuto».
Intanto, due itinerari che spesso divergono, allenamenti e partite per due calendari farciti di chilometri: «Mi sposto con allenatore e fisioterapista, raramente frequento i colleghi. A parte Bolelli e Novak Djokovic, con cui sono cresciuto, stessa vita, stessi tornei sin da ragazzi. Nadal e Federer, no. Ma sono i veri leader del movimento, stanno un gradino sopra e sono fondamentali per dare popolarità e lustro al tennis di oggi».
Il tennis di ieri, per Fabio, era rappresentato da tre icone, tutte made in Usa: John McEnroe, Pete Sampras e soprattutto Andre Agassi. «Ho letto il suo libro, Open. Una grande storia, ma anche una storia deludente. Perché è chiaro che il padre l’aveva costretto a usare sostanze non esattamente lecite; quindi è probabile che sui suoi ritorni al vertice ci sia qualche macchia».
Oggi è diverso. «Noi siamo controllati e sempre a disposizione. A tempo pieno. Io sono d’accordo. Il doping è un argomento che richiede attenzione assoluta e massima severità. Se un tennista venisse trovato positivo, per me andrebbe radiato definitivamente. Niente deroghe, nessuna flessibilità».
Deve andare, Fognini. La borsa pronta, l’ennesimo allenamento, una partita che l’aspetta. Così, da quando era un bambino piccolo: «Da sempre, direi. La svolta è avvenuta a 18 anni. Trasferimento a Barcellona. Tennis, ovviamente, ma anche una casa in cui stare per conto mio, imparare a cucinare, fare la spesa e il bucato. In una città molto accogliente, una città di mare vicina ai miei posti, in Liguria. Intanto mi ero reso indipendente, però, non solo rispetto alla famiglia. A quel tempo ero il classico ragazzo di talento, circondato di attenzioni. Troppe. Cambiare paese ha significato eliminare tutta una gamma di coccole e di vizi tipici».
Terra rossa, cemento, racchette, palline. Poi? Fabio Fognini sorride mentre prova a guardare avanti: «Oggi non so dire sino a quando continuerò a giocare, ma sono certo di conservare per sempre la passione per il tennis. Il che non significa restare nell’ambiente, dopo la fine della carriera agonistica. Non mi vedo in questo mondo tra dieci o vent’anni. Piuttosto mi vedo padre, ecco. Il desiderio più forte ha a che fare con la paternità. E presto, comunque. Ho ancora un po’ di tempo per tenere d’occhio un tabellone da torneo, prima di pensarci per davvero».