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 2015  febbraio 27 Venerdì calendario

RONCONI, IRONICO E GRANDIOSO

C’è un quadro molto bello e affettuoso, quasi impressionista, nella sua casa in Umbria. Ritrae e racconta Luca Ronconi seduto, attento: sta leggendo un libro o un copione chissà, nella tranquillità della sua campagna dove grazie a un pollice verde da botanico intuitivo, selvaggio e attivissimo, in poco tempo aveva trasformato una scoscesa protuberanza di terra terremotata in un verdeggiare di cespugli giganti di rosmarino, roseti, pergole. All’interno dell’ex casa colonica uno scalone di pietra imponente e austero - opera di Gae Aulenti - separa la parte notte dal soggiorno. Neanche Wanda Osiris ha mai avuto una scala così. Risate. Nei rari intervalli che dedicava alla vita fuori dal teatro Luca era ironico, divertente, curioso, poteva anche prodursi in imitazioni assai credibili (specialità in acclamati direttori d’orchestra), leggere e rileggere di tutto - ed è stato comunque uno dei più grandi e analitici conoscitori di testi teatrali di sempre. Le critiche sapeva interpretarle anche tra le righe. «Sono stato fuori moda per anni», diceva, «anche troppo di moda troppo "l’Orlando", molto fuori moda durante il laboratorio di Prato, del genere "queste cose non si fanno" ma chi ha fatto teatro per più di 60 non può più tenere conto di alti e bassi».
Come spettatore aveva cominciato da bambino, portato dalla madre, come attore, giovanissimo, all’Accademia. Grandi applausi come rivelazione in "Tre quarti di luna" di Squarzina, ma lui si sentiva fuori posto. «Fare l’attore mi rendeva infelice perché ho bisogno di stare nascosto, avrei preferito fare il macchinista o lo scenografo, piuttosto. Da attore sarei rimasto un poveretto», confidava. Sette anni di infelicità, neanche i panni di Arlecchino nella "Buona moglie" lo rinfrancarono. Finché un gruppo di attori capeggiati da Sergio Fantoni gli chiede di fare lui la regia dei "Lunatici" (1963), di novità sconvolgente che non viene capita, testimoniano gli attori d’allora, come Francesca Benedetti, grande apertura di prospettive sceniche che solo Roberto De Monticelli svela nella sua critica.
Tornerà a recitare molto più tardi, nelle sue regie, se un attore si fa male e bisogna sostituirlo in fretta o solo per compiacere qualche giovane filmaker, umilmente e generosamente, offrendo una recitazione classica, ben diversa dal "ronconese" a cui allenerà i suoi attori. Dal 1969 in poi, col successo dell’ "Orlando furioso" in tutto il mondo, da Parigi a New York, una nuova generazione di "Theatregoers" scopre i carrelli che trasportano attori e pezzi di testo frantumato, ognuno può scegliersi il suo spettacolo. E poi tutta una lunga sequenza di teatro utopico, bello e a volte impossibile per impedimenti burocratici e spaziali: la "Kätchen von Heilbronn" su zattere sul lago di Zurigo, l’"Orestea" in bilico sulle magnifiche pedane di Enrico Job, le undici ore di "Ignorabimus", i "Giganti della montagna" nelle ex saline di Salisburgo, gli "Ultimi giorni dell’umanità" tra le locomotive del Lingotto, "Il Pasticciaccio" di Gadda con pareti che si abbattono a terra, "Infinities" di John Barrow, "Lolita", la strada davanti al Palazzo dei Diamanti di Ferrara lastricata di specchi per "Amore allo specchio", i falò veri per "Fahrenheit 451", l’acqua che invadeva la platea e il paesaggio che si capovolgeva quando Orfeo scendeva negli inferi al Goldoni di Firenze.
Quanti ricordi. Grandiosità barocca (e non) delle macchine sceniche. Ronconi è stato anche un grande scenografo, senza nulla togliere a chi ha firmato le scene, nel senso di scardinare lo spazio scenico convenzionale per creare un teatro totale, nella prosa come nella lirica. E poi ci ha cresciuti abituandoci a credere nell’onnipotenza del teatro, nella sua forza onnivora, qualunque testo non nato per le scene, saggio sull’universo o sull’economia, romanzo o sceneggiatura, nelle sue mani geniali è diventato teatro. Per toglierci le rassicurazioni tradizionali, come personaggi, vicende, verosimiglianza e restituirci solo incandescente materia prima teatrale. Certo, un teatro che ha reclamato spettatori non spalmati sulle poltrone nel post prandiale, ma allenati fin da piccoli a dribblare carrelli, persino alla militanza fisica e all’apertura della mente. Tanto, si sa, che quando il teatro è grandioso è anche analgesico, il mal di schiena può aspettare. Militanza e disciplina non poi tanto diverse dalla sua, anche se di minor durata, lui che ha provato e diretto fino all’ultimo il bellissimo "Lehman trilogy" al Piccolo, ore e ore di prove anche nei giorni (tre alla settimana) in cui era costretto alla dialisi.
«Ho imparato a conoscere il mondo attraverso il teatro», raccontava. «Da adolescente ero chiuso in me stesso, poi, da regista, ho imparato a conoscere gli altri e me stesso. Il teatro per me è stato terapeutico». Gli "altri" sono stati anche tutti gli attori che ha formato nell’ amato centro di Santa Cristina, quasi ai piedi della sua casa umbra, e quelli della scuola del Piccolo di Milano che porterà il suo nome. Voleva che imparassero a conoscersi oltre che a recitare, per preservarli da eventuali infelicità, come era stata la sua da giovane. Artisti, professionisti o mestieranti? Declinava così le diverse opzioni del mestiere di attore, si possono fare le tre cose benissimo, ma bisogna esserne coscienti e sapere perché si fa teatro. «Può anche succedere che a un attore che vuol fare solo il mestiere resti attaccata l’etichetta di artista, ma il contrario può essere molto, molto frustrante».
Se si parlava di sogni, mi raccontava i suoi, banalissimi diceva, terra terra, il contrario di quelli che offriva lui a teatro. Da drammaturgia minimalista, proprio quella da tinello che non sopportava, una sorta di pena del contrappasso scontata in sogno. Ma dopo la malattia erano cambiati: «Si sogna quello di cui si ha paura». E raccontava di fare viaggi senza meta, di non riuscire più a trovare la via di casa, non della casa in Umbria, ma di quella a Roma dove aveva vissuto con sua madre. «E se è vero che la casa rappresenta l’identità… vedi un po’ tu».
Il teatro è stato il grande amore della sua vita, totalizzante, per il quale e nel quale ha vissuto, letteralmente. Ma si sa, i grandi amori fanno anche soffrire. «Non mi ha mai fatto soffrire, mai. È stato davvero gran parte della mia vita, ma sono abbastanza lucido per riconoscere che non è la cosa più importante del mondo. Davvero, non ho mai pensato che il teatro potesse cambiare il mondo». Il suo poi era un teatro orgogliosamente aristocratico. «È un’esperienza minoritaria, un lampo di conoscenza che ha la durata di un lampo di magnesio». Per noi è stato tanti lampi di magnesio che ci hanno fatto spalancare gli occhi, credere nella capacità di rappresentare senza limiti e che, finché avremo memoria, non potremo dimenticare.