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 2015  febbraio 27 Venerdì calendario

COLTAN, L’INFERNO INFINITO

Tortuosa e schizofrenica come la storia di questa nazione, la strada per Rubaya si inerpica sui monti del Masisi, lungo una pista di sassi e check point. Siamo nella provincia del nord Kivu, estremo est della Repubblica democratica del Congo, ex Zaire, fino alla metà del secolo scorso colonia belga. Tutta quest’area è sviluppata intorno all’attività di estrazione dei due minerali: la manganite e, soprattutto, il coltan. Rubaya è un cumulo di baracche cresciute ai lati di un’unica striscia di fango. Soldati armati di kalashnikov ci ricordano che siamo in zona di guerra.
Qui l’inferno è quotidiano. Sono centinaia le vittime dei gruppi armati che attaccano la popolazione civile o che si scontrano con l’esercito di Kinshasa: si tratta quasi sempre di mercenari, più o meno travestiti da milizie etniche o da gruppi rivoluzionari. Il loro obiettivo è terrorizzare la gente perché se ne vada: e lasci il campo libero allo sfruttamento delle immense ricchezze del sottosuolo. Il gruppo ribelle più famoso, quello dell’M23, ufficialmente ha posto fine alle sue attività da un anno e mezzo. Ma le stragi a colpi di machete non sono certo finite, da queste parti. Anzi: le truppe governative hanno appena lanciato un’offensiva contro uno dei gruppi militari più attivi e potenti, il Fdlr (Democratic Forces for the Liberation of Rwanda), nato nel 2000 e forte di sei-settemila miliziani. Secondo l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, al momento i profughi sono almeno 88 mila. Molti dei quali vivono in campi improvvisati, lontani dalla più elementare sussistenza. E con gli occhi ancora pieni degli orrori che hanno vissuto.
Alla base di questo conflitto a bassa intensità (ma ad altissima sofferenza umana) non c’è solo l’odio etnico. Anzi, questo è spesso poco più che un alibi per destabilizzare l’area, alimentando il lucroso traffico di minerali. È per il coltan che, da vent’anni, qui si combatte: la miscela di columbite e tantalite utilizzata nella realizzazione di cellulari, tablet e computer. Il 50 per cento si trova proprio nel Congo orientale, in una striscia che va da nord a sud. Le bande di guerriglieri hanno un metodo semplice per far soldi: mettono il pizzo sui minatori. Ogni chilo di minerale estratto, questi sono obbligati a pagare una quota agli uomini armati. Solo dopo aver versato la tangente, possono andare fino a Rubaya o fino a Goma, una decina di chilometri più a sud, proprio al confine con il Ruanda. Lo fanno quasi sempre camminando per giorni e giorni, portando sacchi di 30 o 40 chili. Una volta giunti in città, possono vendere la loro merce. E di qui inizierà il percorso che porterà questi minerali nei device tecnologici. Con i proventi che ne traggono, le bande acquisteranno altre armi che garantiranno ulteriore potere.
Per arginare il fenomeno dei "minerali insanguinati", nel 2010 il presidente Barack Obama ha firmato la riforma Dodd-Frank Act, che prevede l’obbligo di certificazione di provenienza: un tentativo per portare alla luce le aziende che si riforniscono nei giacimenti illegali del Congo. Fatta la legge è stato trovato subito l’inganno: le multinazionali, tranne quelle poche che hanno avuto i permessi del governo congolese, hanno iniziato ad acquistare il coltan a Kigali, in Ruanda; in questo modo il materiale risulta "pulito". In camion, da Goma a Kigali sono meno di tre ore. Peccato che in Ruanda non esistano miniere di questo minerale. È tutta roba che proviene comunque dal Congo.
A Rubaya sono i Nyatura a dettare legge: hutu congolesi usciti dal movimento ribelle Cndp, che poi ha cambiato nome in M23, quindi si sono alleati con l’esercito governativo. Kinshasa non si è opposta al loro controllo sulla zona mineraria, anche per evitare di integrarli completamente tra le proprie fila. Attraverso pattugliamenti, perquisizioni e violenze, i Nyatura tengono per la gola la cittadina e i dintorni. Nessuno entra o esce senza il loro permesso.
Il decano, capo della milizia e fondatore del gruppo secessionista, è il colonnello Marcel Habarugira. «Eravamo con il Cndp sotto il comando del generale Bosco Ntaganda», spiega con sguardo torvo e voce bassa, impastata dall’alcol. «Ma i suoi metodi brutali e la discriminazione nei confronti degli hutu ci hanno spinto ad andarcene nel 2010 creando una formazione alleata con il governo». Chi non ha accettato questo passaggio è un "non integrato", un nemico da eliminare. Il reggimento di 1.500 uomini controlla questi territori insieme a membri delle Fardc e alla polizia locale, proteggendo i civili dai ribelli. «Da quando siamo qui non ci sono stati episodi di violenza», dice Habarugira. Ma che la situazione sia un po’ diversa si percepisce osservando gli sguardi della gente quando i soldati girano per Rubaya. Dice Germain Bazimaziki, proprietario dell’hotel Eden che di paradisiaco ha solo il nome: «Gli scontri nella zona del Masisi continuano e hanno spinto migliaia di persone ad abbandonare i villaggi sulle montagne cercando riparo in una gigantesca tendopoli alle porte di Rubaya».
In paese, nei locali di lamiera adibiti a bar e illuminati a gasolio, i minatori si ubriacano con la birra "Rambo" o con il "Simba Waragi", una specie di grappa a 42 per cento di alcol. Baracche fungono da bordelli e le prostitute, giovanissime, accolgono un cliente dopo l’altro dietro a semplici tende. Una prestazione costa 1.500 franchi congolesi: un euro. I 10 mila abitanti vivono tutti grazie alla miniera: un girone infernale sulla sommità di un monte, bruciato dal sole e sfigurato dai colpi di piccone. Sui fianchi ripidi centinaia di uomini, scavano gallerie profonde decine di metri, estraendo materiale contenente manganite, cassiterite e coltan. I tunnel sono stretti e neri, puntellati malamente: tanti i crolli, soprattutto durante le piogge. In superficie, il materiale grezzo viene raccolto in sacchi, fatto scivolare a valle ed infine portato al fiume, vicino al villaggio di Coet, dove viene lavato, separato con un magnete e lasciato asciugare. Raccolto nuovamente arriva, a spalla, a Rubaya. Poi i sacchi vengono caricati sui fuoristrada, che non partono mai dopo le quattro del pomeriggio: non di rado, con il buio, vengono assaltati da predoni. Il coltan viaggia veloce: i pick up non pagano dazi lungo il percorso e i convogli illegali arrivano in Ruanda.
A vent’anni dal genocidio tra Hutu e Tutsi, che nel 1994 ha provocato la morte di un milione di persone in cento giorni di follia, la regione dei Grandi Laghi è di nuovo esplosiva. La guerra del coltan sembra non finire mai.