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 2015  febbraio 27 Venerdì calendario

Mario Avagliano, Marco Palmieri, Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte 1940-1943, Il Mulino 2014, pp. 376, 25 euro.

Notizie tratte da: Mario Avagliano, Marco Palmieri, Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte 1940-1943, Il Mulino 2014, pp. 376, 25 euro.

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«Inutile andare in giro raccontando che la guerra fu voluta dal solo Mussolini e non dall’Italia. Certo il popolo italiano non volle la guerra, se si intende tutto il popolo. Ma i generali, gli ammiragli, i grossi industriali, gli alti burocrati, i senatori, i deputati, i professori d’università, i vescovi, gli arcivescovi, i cardinali, tutto quel lerciume accettò la guerra, e parecchi altri la vollero finché credettero che l’avrebbero vinta dato lo sfacelo militare che era già avvenuto in Francia e che si prevedeva imminente in Inghilterra […] Bisogna, dunque, smetterla con questa balla che l’Italia non è responsabile» (Gaetano Salvemini, Lettera a E. Rossi e L. Valiani, 10 agosto 1946).

«Mamma, non potrai mai capire cosa voglia dire la parola “posta” per noi. Il momento della distribuzione è il più caro della giornata si aspetta come si aspetterebbe non so che cosa» (Lettera dalla Francia di Pietro Marchi, di Fiorenzuola d’Arda, Piacenza, 25 agosto 1943).

A partire dall’aprile del 1941, il controllo della corrispondenza dei militari fu demandato alle Sezioni militari di censura di guerra. Uomini impiegati dal regime in questo compito: 7.600 (6.200 militari e 1.400 civili) che, con differenze da provincia a provincia, controllavano mediamente il 50-60% della posta militare e il 30% di quella civile. In pratica ciascun addetto alla censura esaminava mediamente 150-200 lettere al giorno.

Lettere inviate o ricevute dal fronte nel solo primo anno di guerra: 9.285.000.

Dopo il controllo, le lettere venivano suddivise in quattro tipologie: ammesse in corso, ammesse in corso dopo censura parziale, da sequestrare, da incriminare. I primi due tipi di lettere venivano raccolti con la fascetta “Verificato per censura”, timbrati con il bollo convenzionale della Commissione e il numero personale del censore e inoltrati al destinatario dopo che l’addetto alla censura aveva cancellato con inchiostro indelebile eventuali frasi ritenute pericolose per la difesa del segreto militare o dannose per il morale delle truppe e del fronte interno.

Sul terzo tipo di lettere, ovvero da sequestrare, veniva apposto il timbro “Tolta di corso”. A questo provvedimento venivano sottoposte tutte quelle lettere – raccolte in sacchi e inoltrate all’Ufficio centrale oggetti inesitati – per le quali risultava ardua la verifica da parte del censore (come quelle stenografate o su carta a quadretti) o era più difficile individuare eventuali messaggi occulti (scritti ad esempio con inchiostro simpatico o succo di limone, oppure con frasi sotto il francobollo). Venivano ritirate dal corso anche le lettere contenenti fotografie panoramiche o di località d’interesse militare ecc.

Le lettere giudicate particolarmente pericolose o sospette di spionaggio e complotti venivano invece bollate col timbro “Incriminabile” e trasmesse al Sim per le verifiche e i provvedimenti del caso. Se si trattava di offese al duce o disfattismo, il servizio censura poteva denunciare l’autore al Tribunale speciale.

Scrive il capitano Luigi Guerrieri Gonzaga dell’artiglieria a cavallo il 21 febbraio 1942 : «Mi secca molto che un cretino di censore abbia sporcacciato tutta una mia lettera per te; deve essere un gran fesso quel tale e gli farebbe bene un po’ di Russia vorrei ritrovarlo quando rientreremo in Patria. Io sono sicuro di quanto scrivo; non metto mai nulla che possa anche lontanamente servire di indicazione o comunque essere “pericoloso”».

Nella corrispondenza dei soldati «coi propri congiunti – ha osservato lo storico Antonio Gibelli, rileggendo ad esempio gli scritti provenienti dal Don, in una delle fasi più cruente della guerra – un posto speciale occupa lo sforzo di non allarmarli, di rassicurarli, di distoglierli dai cattivi pensieri. Le retoriche di rassicurazione puntano sugli eufemismi, sulle annotazioni consolatorie, talvolta sulle ironie e fanno uso di formule ricorrenti», del tipo «Sto bene» oppure «Non pensate per me», spesso accompagnate da invocazioni di tipo religioso.

Scrive il fante calabrese Pantaleone Di Mundo, originario di Limbadi, dal fronte africano, il 16 luglio 1941: «Stiamo molto beni, meglio spero di trovare voi tutte in famiglia. Per me non penzati a niente speriamo Al Buon Dio che non ce abandona».

La lettera alla famiglia dell’artigliere Francesco Donato, in partenza per l’Albania, del 27 settembre 1940: «Mia Adorata Mamma, il giorno 24 ci siamo imbarcati a Bari. La mattina alle ore 3.30 abbiamo levato le ancore, diretti lontano. Nei nostri cuori non c’era la minima preoccupazione. Eravamo su due piroscafi, quello che portava noi era il Galileo, il mare era calmo il cielo sereno e limpido come i nostri cuori. Due caccia e un idrovolante ci facevano la strada, i delfini ci accompagnavano, e dopo 12 ore di traversata abbiamo avvistato la terra, dove il destino della nostra Amata Patria ci mandava, l’allegria cresceva, e cantavamo canzoni».

«Bisogna che guardi di farti coraggio – scrive alla moglie il caporalmaggiore Giuseppe Lolli, un contadino emiliano, cinque giorni dopo la dichiarazione di guerra – che sera roba da poco anche se siamo in guerra non pensare che tra pochi mesi sero acanto a te».

A guerra iniziata da alcune settimane, nei giorni della battaglia d’Inghilterra, l’ufficiale dell’aviazione Paolo Masera scrive alla fidanzata: «Io ho 38 anni e ricordo perfettamente la grande guerra e le ingiustizie sofferte dall’Italia dopo i 500 mila morti. Ricordo i miei tre fratelli che han fatto la guerra delle trincee, del fango, delle pulci, dei reumatismi, del freddo, della fame, della sete. E dopo tutto questo gran patire l’Inghilterra e la Francia ci hanno sputato in faccia; l’Italia è ancora oggi carica di debiti della guerra del ’18. Miliardi che deve pagare agli S[tati] U[niti] per aver ottenuto quelle sole redenzioni alle quali sarebbe arrivata anche standosene neutrale. Capisci tu il mio stato d’animo? Gli inglesi e i francesi si sono arraffati tutto. Noi dobbiamo odiarli».

La lettera sfuggita alla censura dell’alpino emiliano Igino Domenichini alla moglie, il 9 gennaio 1941: «Dina o sbaliato a dirti che siamo mobilitati ma sai che non sono capace di tenerti nulla e nemeno non sono tato capace di tratenermi».

Ricorrenti nelle lettere dal fronte le frasi polemiche contro gli imboscati, gli approfittatori, i disfattisti e i cosiddetti «strateghi da caffè» e frequente l’invito ai familiari a non badare alle chiacchiere di paese ed avere fiducia nella vittoria e nel regime.

«A chi in questo momento ti esprime dei dubbi, rispondigli che invece di parlare venga qui accanto a noi a combattere e a sentire lo spirito che ci anima e si vergognerà della sua mormorazione» (lettera dalla Libia del novembre 1942).

«Mussolini non lo sa» o «se lo sapesse Mussolini» si legge spesso dal 1941 in poi nelle lettere dei soldati.

«Per gli inglesi è finita la cuccagna, ora anche noi dobbiamo fare un po’ di bella vita, che anche noi abbiamo il diritto di star bene. Lo vogliamo vedere come debbono stare dopo la guerra questi sfruttatori inglesi. Noi potremo fare quello che vogliamo e far venire in Africa anche le nostre famiglie» (lettera di un alpino nel settembre 1940).

Il messaggio dell’alpino Giovanni Rossi, ligure di Santo Stefano d’Aveto che, il 7 maggio 1940, un mese prima della dichiarazione di guerra, spera solo la preoccupazione di scampare al conflitto: «Abiamo sentito dire che la Germania fa grandi furori a preso L’olanda e quasi il Belgio e a gia tacato nella Francia, lasciate un po che si picchiano speriamo che sia abasta la Germania per pichiarle tutte e L’Italia che la lasciano stare, e presto di potersene venire in congedo per sempre».

Qualcuno, dal fronte francese, da già per finito il conflitto. Scrive Lamberto Prete il 30 giugno 1940: «La sera è un incanto con questi tramonti d’oro, con le cime baciate dagli ultimi raggi di sole, con le valli invase dalla penombra, con le strade affollate di gente contenta. La guerra è finita con una facile vittoria e tutti cantano le canzonette del momento».

«Posso scrivere come voglio e vi dirò tutta la verità. Di salute sto benissimo ma il rancio va sempre peggio, il pane lo fa la sussistenza ed è fatto con tutte le porcherie, brodo! sette otto volte alla settimana e la minestra bisogna avere l’amo per pescare una pasta. Come marcie si fa tutti i giorni e non si a mai un giorno di libertà per lavarsi un fazzoletto o la camicia, e poi di giunta sono di quelli che anno i pidocchi» (biglietto clandestino, consegnato a un commilitone di rientro a casa per qualche giorno di licenza e quindi libero dai vincoli della censura, scritto da Elio Da Prà Colò, 16 settembre 1940).

Il barbiere genovese Fulvio Valentinelli («che fa ai greci barba e capelli» scrive in una lettera del 14 gennaio 1941) si autoinveste del titolo di «Terrore delle Acropoli» e si dice sicuro che verrà presto «il momento propizio di dare la suonata definitiva ai greci» (14 febbraio 1941).

I «maledetti» inglesi, gli americani «negroidi» e «dediti al vizio», i russi «senza Dio», gli arabi «sporchi e rozzi».

Gli inglesi, «i maledetti figli di Albione», «vigliacchi e farabutti», «soldati dai cinque pasti e dalla pancia troppo piena», «audaci fresconi che l’illusione ha voluto per un po’ vittoriosi».

Da una relazione del Comando generale dei Carabinieri del maggio 1941: «Negli ambienti militari la soddisfazione per i nostri successi viene sensibilmente temperata dalla considerazione che molto si deve all’apporto dato dalla potente azione delle forze tedesche».

I tedeschi, accolti con ammirazione e gioia dai nostri in Russia. Scrive Urbano Rattazzi: «Sono gli Dei della guerra. Sono simboli». I russi, invece, prosegue Rattazzi, «sono petulanti, antipatici e oltretutto poco cortesi, il nostro corpo di spedizione – un magnifico fascio di energie fisiche e morali – passa sopra le loro orde come un rullo compressore, facendo brillare dinnanzi agli occhi stupiti del mondo intero le virtù eroiche della razza, esaltate da vent’anni di Fascismo».

Da un rapporto dell’Ovra del febbraio 1941: «Un senso di ribellione serpeggia fra le masse al pensiero che il fiore della gioventù italiana sia stato e continui a sacrificarsi per la vanità o l’incapacità di alcuni capi e questo stato d’animo di sorda protesta si esaspera alle notizie frequenti e concordi sulla deficienza dell’equipaggiamento e dell’armamento dei nostri soldati, alcuni dei quali scrivono dal fronte greco-albanese alle loro famiglie chiedendo insistentemente indumenti di lana, mentre altri, ricoverati feriti o congelati negli ospedali, diffondono un pauroso senso di sgomento».

«A 17 anni siamo andati sotto le armi a meno di 18 ero in prima linea, a 21 e mezzo ero congedato con 45 mesi di soldato e una ferita, a 42 richiamato e mandato in questa maledetta zona, che delitti abbiamo fatto? E cosa vogliono da noi, non abiamo servito abbastanza la patria? Se tutti avessero fatto come noi non ci sarebbe da fare una parola, ma tanto l’anno scorso come questo anno chiamato una parte del 98 e 99 tanti sono rimasti fuori della rete e quando ci vedono ridono come quelli che si racconta la vita e i posti che si troviamo, dicono che sono rose, io vorrei che lo potessero vedere solo un giorno non lo dimenticheranno più» (lettera dalla Jugoslavia del 12 gennaio 1942).

Dalla lettera alla famiglia di un militare ternano di stanza in Africa, datata 24 febbraio 1942, scritta su carta intestata «P.N.F. Dopolavoro Forze Armate», che di fronte alla richiesta di redigere un rapporto sul morale delle truppe, dopo aver lamentato che il partito chiede il pagamento della tessera anche ai militari richiamati e inviati al fronte, così si sfoga: «Vengano un po’ a domandare ai nostri soldati ed avranno una risposta più che esauriente. È naturale che il rapporto non potrà che dire le solite cose; ma vengano pure tra i soldati e sentiranno. Posta che non arriva, pacchi che sono in giro da mesi e di cui non si ha notizia; se qualcuno ne arriva è ridotto al solo involucro; giornali che vengono distribuiti una volta al mese; un pasto al giorno, cotto al mattino alle 10 e mangiato alle 2 del pomeriggio. Tutto questo potrebbero rispondere i nostri soldati se venissero interrogati; ma siccome non lo saranno mai tutto questo rimane sconosciuto e si parlerà soltanto dello spirito di sacrificio e del morale altissimo del soldato italiano».

Annota nel suo diario uno degli stessi addetti alla censura, l’ufficiale alpino Mario Cereghini, il 26 novembre 1942: «Per i soldati poi la vittoria è qualche cosa di sostanziale: a decine e decine essi ne parlano come di una cosa reale, palpabile. Ti par di vederla questa bella donna con una stella in fronte che li guida verso la meta radiosa. Certamente la loro fantasia ricalca i luoghi comuni delle illustrazioni da copertina di quaderno scolastico o dei foglietti di propaganda: Finché Dio ci darà per noi questa cara Vittoria…; La Vittoria ci condurrà fino al cuore di queste steppe…; La Vittoria deve condurci più avanti…; La buona Vittoria…; Quando anche voi sentirete che la vittoria ci ha seguito…».

Scrive nel marzo 1942 Vito Mantia dal Montenegro: «Oggettivamente è giusto ammettere che i tedeschi non parlano male degli alpini. Bontà loro ci danno atto del nostro comportamento, salvo però dure critiche per la nostra… sensibilità dimostrata in tante occasioni, dopo le radicali e totali distruzioni inflitte alle popolazioni inermi. La loro determinazione e il loro comportamento razzista di superiorità sprezzante non li porterà lontano».

A un mese dalla caduta del fascismo, il 23 agosto 1943, scrive sul suo diario Lamberto Prete, di stanza in Grecia: «Fino a qualche settimana fa noi vedevamo soltanto da lontano i militari germanici ed avevamo occasione di avere contatto coi loro ufficiali esclusivamente quando partecipando alla nostra mensa si comportavano da veri porci… I tedeschi ci hanno ignorato fino ad oggi ma ora pretendono che ci poniamo ai loro ordini».

Dopo la destituzione di Mussolini un tenente colonnello scrive alla moglie: «Sono persuaso che se il Duce si affacciasse allo stesso balcone di Palazzo Venezia ad arringare la folla, tutta l’Italia cadrebbe ai suoi piedi».

Dal diario di Nuto Revelli, reduce dalla campagna di Russia e futuro protagonista della Resistenza: «Vedo i cortei, sento i discorsi, riconosco troppi fascisti di ieri, più fascisti erano ieri, più oggi sono antifascisti e si agitano, spaccano, urlano… Volevo scendere stanotte; forse mi sarei fatto picchiare».

«Caro Mario, con ogni probabilità domani mattina all’alba si va all’assalto; se la va bene sarà una magnifica esperienza di vita, se la va male farò la morte più bella che un italiano di vent’anni oggi possa fare» (lettera al fratello del lombardo Cesare Tosi, caduto a vent’anni in Albania, il 20 gennaio 1941).