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 2015  febbraio 27 Venerdì calendario

FINTASCIENZA . «CONFESSO CHE HO IMBROGLIATO»


A gennaio Bin Kang, ricercatore dell’Oklahoma Medical Research Foundation, ha ammesso di aver falsificato i dati di una ricerca sul cancro pubblicata su Molecular Cell. Solo un mese prima, la biologa Haruko Obokata si era dimessa dall’istituto di ricerca Riken di Tokyo per aver pubblicato su Nature due studi truffaldini: suggerivano che si potessero trasformare le cellule adulte in staminali pluripotenti mettendole per mezz’ora in una soluzione acida. Per la stessa vicenda ad agosto si era ucciso il suo mentore Yoshiki Sasai, che era stato supervisore, inaccurato, delle due ricerche. A metà del 2014 l’editore Sage ha dovuto invece ritirare sessanta articoli scientifici pubblicati dal Journal of Vibration and Control perché il loro autore, Peter Chen, della Pingtung University di Taiwan, era riuscito a farli accettare dopo aver creato 130 diverse identità fittizie, con tanto di email personale, e averle suggerite a Sage come possibili revisori dei suoi studi. Era stato così poi lo stesso Chen a farsi approvare dai suoi alter ego nella peer review (il sistema di revisione paritaria, per cui uno studio, prima di essere pubblicato, viene valutato da altri scienziati che possono contestarne metodi e risultati e suggerire modifiche). Lo stesso guaio di peer review falsificate è capitato anche al maggiore editore mondiale scientifico e medico, Elsevier, con sedici studi del ricercatore pakistano Khalid Zaman, in gran parte sulla situazione economico-sociale nel suo Paese.
Da tutti questi casi appare chiara l’esistenza di un genere letterario poco noto: la fintascienza. E viene da chiedersi: cosa porta alcuni scienziati a barare? Le ragioni sono diverse da caso a caso, ma uno spaccato dettagliato di come un uomo di scienza possa decidere di passare al lato oscuro della Forza è offerto da Ontsporing, il libro confessione (da poco disponibile gratuitamente in inglese su nick.brown.free.fr/stapel/FakingScience-20141214.pdf) scritto da un esperto del settore: Diederik Stapel.
Acclamato psicologo sociale e fondatore dell’Istituto di economia comportamentale dell’Università di Tilburg (Olanda), Stapel divenne molto noto nell’aprile del 2011 con la pubblicazione sulla rivista Science di uno studio in cui si suggeriva che il disordine urbano – per esempio, cassonetti strabordanti di rifiuti – rendeva le persone più desiderose di ordine e inclini a usare stereotipi discriminatori, per esempio razziali, verso gli altri. Pochi mesi dopo, dietro segnalazione di due colleghi, si apri un’indagine interna dell’università, che lo bollò come falsificatore seriale di studi. Nel 2012 una commissione investigativa appurò che ben 55 dei 130 studi pubblicati nel corso della sua carriera erano da considerarsi fraudolenti. Stapel aveva iniziato a barare omettendo risultati sperimentali ottenuti sul campo perché contraddicevano le sue ipotesi di ricerca. Poi, in un rapido scivolamento verso l’abisso, era passato a modificare, direttamente sul computer, numeri e dati degli esperimenti, così da confezionare teorie perfette per fare notizia. Perché?
«Quando i risultati degli esperimenti non sono quelli che speravi così tanto di ottenere; quando sai che quella speranza era basata su una solida analisi della letteratura scientifica. Quando quello è il terzo esperimento su quell’argomento, e i primi due hanno funzionato alla grande. Quando sai che altrove nel mondo altri ricercatori stanno facendo studi simili e ottengono risultati soddisfacenti, allora... non hai forse il diritto di aggiustare, solo un poco, i risultati?» si giustifica Stapel. Nella sua autobiografia racconta tutto con dovizia di particolari, ma preferisce non confrontarsi direttamente con la stampa (per esempio in un’intervista).
Se però taroccare qualche dato di pochi decimali può forse sembrare un peccato veniale, non lo è di sicuro inventarsi di sana pianta gli esperimenti. Cosa che Stapel ha fatto: ha raccontato infatti che andava nei luoghi, preferibilmente in altre città, che avrebbe citato negli studi come sede di sondaggi sottoposti a studenti e passanti, così da poter dare credibilità al suo racconto se qualcuno gli avesse chiesto qualche dettaglio in più. Poi però tornava a casa e generava in proprio tutti i dati che confermavano le sue tesi.
Nel libro confessione Stapel è anche duro con sé stesso, ma non rinuncia a darsi sempre qualche attenuante: «Non riuscivo a trovare per via sperimentale qualche risultato del tutto logico: per esempio del fatto che, dopo aver letto un testo in cui la parola “amichevole” compare più volte, siamo meglio disposti verso gli altri. Mi domandavo dove sbagliassi e chiesi a colleghi che avevano avuto successo nei loro esperimenti. Dalle loro risposte capii tutto. Qualcuno mi diceva: “Non fare i sondaggi via email, abbiamo visto che questa cosa funziona solo se il sondaggio è fatto con carta e penna”. Un altro esperto sostenne: “Questo esperimento riesce solo se usi “amichevole” o “simpatico”, ma non “piacevole”. Un altro: “Questi esperimenti funzionano soltanto se concedi ai soggetti tre minuti di pausa dopo aver letto il testo, né di più né di meno”». Insomma i risultati degli studi dipendevano da cento piccoli fattori in apparenza irrilevanti che gli scienziati ammettevano di calibrare a piacere in modo da ottenere il risultato voluto. Scoperto questo, Stapel si sentì solo un po’ più spregiudicato degli altri nel compiere i suoi misfatti.
Ironia della sorte, Stapel stesso è poi diventato oggetto di studi scientifici. David Markowitz e Jeffrey Hancock, ricercatori in comunicazione della Cornell University, analizzando il corpus delle sue ricerche hanno estrapolato alcune caratteristiche chiave delle frodi scientifiche. «Confrontando i suoi studi validi con quelli fraudolenti, abbiamo notato che in questi ultimi Stapel impiegava più termini correlati al metodo scientifico, come se sentisse il bisogno di rassicurare i lettori sulla sua correttezza» spiega Markowitz al Venerdì. «Negli studi fraudolenti Stapel impiega anche più termini che amplificano i suoi risultati, come “estremo”, “eccezionalmente”, “vasto” e meno termini che attenuano, come “parzialmente”, “leggermente”. Inoltre negli studi fasulli sono usati meno aggettivi, e questo collima con la letteratura scientifica secondo cui le frasi di chi mente tendono a essere meno descrittive rispetto a quelle di chi riporta la verità».
Ma non esistono solo cattivi scienziati: ci sono anche pessime riviste scientifiche. Come quelle svergognate l’anno scorso da Mark Shrime, ricercatore di medicina a Harvard. Come rivalsa contro testate di scarsa o nulla qualità che tempestavano il suo indirizzo email con offerte di pubblicazione a pagamento, Shrime inviò a tutte uno studio fittizio, intitolato Cuckoo for Cocoa Puffs? (frase che si potrebbe tradurre Tutti pazzi per i Cocoa Puffs?, presa da una pubblicità tv per cereali), sottotitolo «Il ruolo neoplastico del cacao nei cereali da colazione», coautore Orson Welles. Il testo di questo «studio», in realtà un minestrone di frasi senza senso, era stato prodotto con un generatore di testi casuali. Bene: 17 sedicenti riviste scientifiche su 37 lo hanno accettato, chiedendo 500 dollari per pubblicarlo. «In un caso si sono persino complimentati con me per i miei “metodi innovativi”!» racconta Shrime. «Vorrei precisare però che qui stiamo parlando di un sottomondo equivoco: uno degli indirizzi di queste riviste corrispondeva a uno strip club. Il mio piccolo esperimento non intacca affatto la credibilità delle maggiori riviste, che invece hanno un serio processo di peer review. Il fatto è che il numero di pubblicazioni è oggi l’unità di misura del successo accademico, quindi viene la tentazione di rimpinguare il proprio curriculum anche grazie a riviste di bassa qualità».
E a certi Pinocchi della scienza oggi, invece del naso, si allunga in modo sospetto la lista delle pubblicazioni.

Giuliano Aluffi