Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  febbraio 27 Venerdì calendario

A MOSCA ORMAI TUTTI SONO CON PUTIN. ANCHE GLI OPPOSITORI


MOSCA. Attorno ai tavolini piccoli e scomodi «ma tanto parigini» del bistrot Jean Jacques sul viale Gogolevskij, ci si ripete ogni sera una domanda che evoca senza volere il Padre della Rivoluzione: «Che fare?». Tra una soupe a l’oignon e un assaggino di camembert, i giovani della Nuova Russia borghese, che fecero tremare Putin riempiendo le piazze di una coraggiosa protesta, si chiedono senza trovare risposte se sia arrivato il momento di lanciare l’affondo decisivo, la famosa «spallata» tanto agognata nei giorni in cui tutto appariva più semplice e lineare. Era facile, appena due anni fa, mettere tutti d’accordo su un regime spudoratamente corrotto, su una censura implacabile, sui diritti umani negati. Poi arrivò la Crimea. Seguirono le sanzioni occidentali, la guerra d’Ucraina, la crisi economica sempre più devastante soprattutto per la classe media.
«E tutto è diventato maledettamente più complicato» dice Olga, bionda, studentessa di sociologia, una decina di fermi di polizia per manifestazione non autorizzata. «Adesso hai come la sensazione di fare il gioco di qualcuno. Qualcuno che non ce l’ha solo con Putin, ma un po’ con tutta la Russia in generale». Alla grande maggioranza dei giovani contestatori è infatti successo quanto di peggio possa capitare a un oppositore: trovarsi spesso d’accordo con il proprio odiato avversario.
Intendiamoci, i «ragazzi del Jean-Jacques», come vengono spregiativamente definiti da molti media di Stato, non sono improvvisamente diventati «putiniani» né potranno mai diventarlo in futuro, ma il loro disagio è sempre più evidente e divisivo. Niente a che vedere con il patriottismo di massa ispirato dalla propaganda ufficiale, ma una specie di scatto d’orgoglio che finisce per essere paralizzante. Igor, ingegnere di trent’anni che ha già visto parecchie volte dall’interno le carceri di Mosca e dintorni, prova a spiegarlo con un certo imbarazzo: «Mai stato nazionalista né anti-occidentale, tutt’altro. Ma sentirci dire che stiamo conducendo una guerra imperialista, veder definire terroristi milioni di ucraini russofoni che lottano per i loro diritti, voler ridurre la Russia al rango di Stato canaglia senza considerare le nostre ragioni... È tutta roba che fa stare male, lascia una profonda amarezza».
Se non fosse abbastanza chiaro, sentite Aleksej, studente, vent’anni, figlio di imprenditori: «Siamo una generazione che legge l’inglese e altre lingue. Internet è la nostra forza. Sul web abbiamo imparato come vanno rispettate le minoranze, quali siano le regole democratiche. Abbiamo capito di vivere in uno Stato dittatoriale che controlla e reprime. Ma ora sul web vediamo anche strane interpretazioni, una propaganda senza vergogna che racconta i russi sempre e comunque come gli eterni cattivi. Se penso che sono quegli stessi media che ci considerano eroi solo perché contestiamo Putin, mi viene il dubbio atroce di essere solo un loro strumento».
Non tutti, tra quelli che riempivano le piazze nel 2013 al grido «Una Russia senza Putin», la pensano così. Il movimento non è ancora spaccato ma certamente profondamente diviso. La causa è sempre quella, la crisi di Ucraina. Per alcuni come l’oligarca ribelle Mikhail Khodorkovskij, adesso esule tra Germania e Svizzera, o il campione di scacchi Garry Kasparov, tutte le occasioni sono buone per mettere alle corde il regime. Ad altri risulta più difficile sposare in pieno quella che vede come una «crociata antirussa». Lo dimostra la cautela e il profilo volutamente basso tenuto dal più amato e più seguito dei leader della protesta. Aleksej Navalnyj, il celebre avvocato anticorruzione che ha acceso gli entusiasmi dei giovani russi con le sue inchieste contro Putin e i suoi, glissa tutte le volte che può sulla delicata questione. Ma quando è costretto, come è capitato in un’intervista in diretta su Radio Eco di Mosca, non si tira indietro: «L’annessione della Crimea? Comunque sia andata, la Crimea adesso fa parte della Federazione Russa e non ritornerà mai più a far parte dell’Ucraina». E ancora: «Gli ucraini dovrebbero essere felici di aver perduto, con la Crimea, una popolazione che è totalmente pro-russa, che non ha partecipato alla loro rivoluzione e che non vuole alcuna associazione con la Ue».
Forse perché è un abile politico, forse perché si è sempre autodefinito un patriota, Navalnyj rispecchia comunque il parere di oltre l’ottanta per cento dei suoi connazionali che hanno sempre considerato la Crimea un pezzo di Russia e che ritengono più o meno valido il plebiscitario referendum di un anno fa.
Ancora più delicato e pieno di insidie il discorso sulla guerra civile in corso nella regione mineraria del Donbass ucraino. I russi considerano l’Ucraina un Paese amico da sempre e il sentimento viene confermato nonostante la guerra. L’idea che l’Est ucraino debba avere ampia autonomia e che non debba dipendere dalle decisioni prese solo a Kiev o nell’Ovest del Paese, è ampiamente condivisa da tutti. Per convinzioni, cultura e anche per vincoli di parentela. Sono raddoppiati infatti in un anno i matrimoni tra russi e ucraini: cinquemila solo nell’ultima metà del 2014. Il popolo ribelle di Navalnyj la pensa allo stesso modo. Non a caso solo pochissimi di loro hanno partecipato in autunno alla manifestazione per la «Pace in Ucraina» organizzata a Mosca dai movimenti vicini all’attuale governo ucraino. E stesso imbarazzato distacco si è visto giorni fa in occasione di un’altra manifestazione di segno opposto organizzato dal «gruppo anti-Majdan», filoCremlino e sostenitore ufficiale delle milizie secessioniste del Donbass. I contestatori non si schierano, evitano di prendere parte. Irina, trent’anni, lunga treccia nera, insegnante di inglese, sintetizza: «Io voglio andare in piazza e rischiare il carcere per contestare il mio governo, la corruzione del mio Paese, l’infelicità della mia gente. Non perché me lo dice il New York Times».
Tasto dolente, quest’ultimo, che ha già creato parecchi malumori all’interno del movimento. Accadde in primavera quando a Navalnyj fu chiesto dal grande quotidiano americano di scrivere un articolo sulle personalità russe da colpire. Con l’entusiasmo di uno studioso della corruzione Navlanyj stilò un elenco di personaggi corrotti o sospetti di ruberie, tutti della corte ristretta di Vladimir Putin. Più o meno gli stessi nomi che, il giorno dopo, furono colpiti dalle prime sanzioni americane.
Malignità e voci incontrollate di un collegamento diretto tra l’opposizione russa e gli Stati Uniti furono quasi inevitabili. Creando perfino qualche malessere all’interno del movimento.
Del resto quella degli «agenti infiltrati al servizio delle potenze straniere» è sempre stata un’arma fondamentale in Russia per la repressione dell’opposizione. E qualcuno, per evitare equivoci, ha preferito defilarsi o ritornare alle sue piccole battaglie limitate. Evgenija Chirikova, per esempio, giovane e bella ecologista d’assalto, ritenuta una dei leader della protesta è praticamente scomparsa di scena. Ha incassato la sconfitta della devastazione della foresta di Khimki alle porte di Mosca, e continua a battersi ma solo su questioni locali: un palazzo abusivo, uno svincolo autostradale mal progettato. Lodevole ma niente a che vedere con i giorni delle grandi lotte contro il potere. Lo stesso Navalnyj, bersagliato da continui arresti e provocazioni della polizia, organizza una specie di protesta a bassa intensità sempre e solo concentrata sulla corruzione e sulla incapacità del governo di reagire alla crisi. Due anni fa aveva altre speranze: «Una crisi economica ci aiuterà a spazzare via Putin» diceva, «la gente esasperata scenderà in piazza a milioni». Ma adesso, più che nell’inettitudine dello Stato, la gente vede le cause della crisi nelle sanzioni americane ed europee, nella interpretazione «antirussa» dei fatti di Ucraina. Tanto da far toccare a Putin il record assoluto di popolarità (87 per cento). E Navalnyj procede a ritmo frenato. Anonimi fedelissimi traducono così: «Siamo contro Putin in tutto e per tutto. Ma non vogliamo certo passare per nemici della Russia».

Nicola Lombardozzi