Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  febbraio 27 Venerdì calendario

GASPARE PISCIOTTA


QUANDO: 9 febbraio 1954.
DOVE: A Palermo, nel carcere dell’Ucciardone.
VITTIMA: Gaspare Pisciotta, 30 anni, di Montelepre (Palermo) muore in cella, avvelenato dalla stricnina. È cugino e luogotenente del bandito siciliano Salvatore Giuliano; è ritenuto anche il suo assassino. Assieme organizzano la strage del 1947 a Portella delle Ginestre. Per quell’eccidio, in cui perdono la vita 11 persone, Pisciotta viene processato con il padre, i due fratelli e altri sei componenti della banda. Il 3 maggio 1952 è condannato all’ergastolo dalla corte di assise di Viterbo.
MOVENTE: prima della sentenza, Pisciotta dichiara: «Noialtri siamo un corpo solo: polizia, banditi e mafia. Come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo». E minaccia di rivelare i nomi dei mandanti di Portella. Gli viene subito impedito di farlo.
IL CASO È: aperto, perché non è stata raggiunta alcuna certezza processuale sulla morte di Pisciotta. Le inchieste realizzate nel corso degli anni non sono riuscite ad appurare neanche se la dose di veleno che lo ha ucciso gli sia stata versata nel caffè o nel Vidalin, lo sciroppo per la tubercolosi che riceveva ogni giorno dall’infermeria.


IL TRADITORE TRADITO–
Marco Travaglio – L’Europeo 2006 n. 4

Cominciamo dal fondo, perché il finale è l’unica cosa certa di tutto il giallo. Carcere dell’Ucciardone, Palermo, 9 febbraio 1954, ore 7 del mattino. Gaspare Pisciotta detto “Aspanu”, 50 anni da compiere, condannato all’ergastolo e detenuto da un anno insieme al padre Salvatore per la strage di Portella della Ginestra e l’omicidio del bandito Salvatore “Turiddu” Giuliano suo cugino, si prepara – come ogni giorno – il caffè con il fornelletto ad alcol e la macchinetta “nepoletana”. Ne versa un po’ nella sua tazzina e un po’ in quella del padre, dopo aver messo un cucchiaino di zucchero in ciascuna. Beve d’un fiato. Pochi istanti dopo impallidisce e comincia a urlare: «Patri, m’ammazzaru!». Corre al fiasco dell’olio, tentando di vomitare il liquido appena ingurgitato. Ma non ci riesce. Lo trasportano d’urgenza in infermeria, dove muore alle 8,10. L’autopsia dirà che aveva capito tutto: nel suo corpo vengono rinvenuti 20 grammi di stricnina, un veleno letale molto diffuso nelle campagne della zona, dove i contadini lo usano per preparare i bocconi per uccidere le volpi.
Gaspare Pisciotta si porta nella tomba i segreti sulla strage di Portella e sui mandanti politico-istituzionali dell’eccidio, più volte evocati nell’aula del processo che lo vedeva imputato insieme a una cinquantina di presunti complici della banda Giuliano. Chi abbia portato materialmente il veleno nella cella, forse mescolato allo zucchero, non si saprà mai. Si sa però che Pisciotta temeva di finire avvelenato. Per questo aveva ottenuto di cucinarsi da solo i pasti. Per questo annusava tutto prima di mangiare. Per questo non metteva in bocca nulla senza prima averlo fatto assaggiare da un passerotto che stazionava sulla finestra della cella. Viene sospettato un vicino di cella, ma senza prove. Viene arrestato il secondino che l’aveva in custodia, Ignazio Selvaggio, ma poi sarà scagionato. Il direttore del carcere, dottor Restivo, viene trasferito. Tutto il resto, a 52 anni di distanza, è un mistero.
Non si sa nemmeno se Salvatore Pisciotta fosse davvero il suo padre naturale (qualcuno arriverà a sospettare una sua complicità nel delitto). Né se Salvatore Giuliano fosse davvero suo cugino. Né se ad ammazzare il bandito fosse stato effettivamente lui. Quel che è certo è che la sua morte è collegata ai segreti inconfessabili di Portella, la prima strage di Stato della storia della Repubblica italiana, che costerà la vita a molti altri testimoni. È di lì dunque che bisogna partire. Da Portella della Ginestra. Il 1° maggio 1947 la piana di Portella è tutta uno sventolio di bandiere rosse. È la seconda festa del Lavoro dopo la proclamazione della Repubblica, la prima dopo le elezioni regionali siciliane che appena da qualche giorno hanno visto il Blocco del popolo (Pci e Psi) trionfare sulla Dc. La festa è insanguinata dalle raffiche di mitra dei banditi al seguito di Giuliano e di un commando di killer mafiosi, appostati su due alture lì intorno. Muoiono ammazzate 11 persone: nove contadini e due bambini: 27 i feriti.

UNA STRAGE “DISSUASIVA”
Il procuratore aggiunto di Palermo Roberto Scarpinato, che è anche un finissimo studioso, descriverà così nel 2003, sulla rivista MicroMega, il contesto politico del dopoguerra siciliano (e non solo) che fa da sfondo alla strage: “Il nuovo ordine geopolitico e l’esigenza prioritaria di scongiurare il pericolo rosso accelerano il ristabilimento degli equilibri di forza già preesistenti nel Paese prima della caduta del fascismo, riportando a galla, spesso in posizione di vertice, tanti dei protagonisti del passato regime. In Sicilia riprendono vigore gli specialisti della violenza che durante il periodo fascista si erano eclissati secondo la vecchia massima ‘calati iuncu ca passa la china’ (la canna deve flettersi sino a quando passa la piena del fiume). Della loro opera c’è, infatti, nuovamente bisogno. Per reprimere le rivendicazioni sociali, non è sufficiente l’uso militare e repressivo delle forze di polizia. Ogni incidente di piazza alza pericolosamente la temperatura dello scontro, esponendo i vertici politici a pericolosi contraccolpi. D’altra parte, gli agrari e i ceti conservatori dell’isola restano un asse portante degli equilibri politici nazionali. Non a caso il ministro degli Interni Mario Scelba è siciliano e in quel periodo cruciale rimarrà saldamente in carica per molte legislature, pur nel cambio delle compagini governative. Si ritorna così ai vecchi sistemi del periodo prefascista. A un uso oculato della violenza statale, riprende ad affiancarsi l’uso occulto della violenza militare mafiosa. La prova generale di questo ritorno all’antico è Portella della Ginestra. Il 20-21 aprile 1947 si erano svolte in Sicilia le prime elezioni per la costituzione dell’assemblea regionale. Il Blocco del popolo (comunisti e socialisti insieme) aveva ottenuto un eclatante successo con 567mila voti, corrispondenti al 29,13%. Al secondo posto si era piazzata la Dc con 399 mila voti e la percentuale del 20,52. Si creò così l’allarme rosso di una possibile replica del successo delle sinistre nelle imminenti elezioni politiche nazionali che si sarebbero svolte nell’aprile del 1948. In questo clima di tensione viene consumata il 1° maggio 1947 la strage ‘dissuasiva’ di Portella della Ginestra... Prima e dopo la strage Giuliano interloquisce con i suoi mandanti tramite alcuni capi della mafia, agenti governativi ed esponenti dei servizi segreti italiani e statunitensi...” Una “strage dissuasiva”, dunque. Una strage, diremmo oggi, “preventiva” per arginare la deriva “progressista” della Sicilia in vista delle elezioni politiche nazionali del 18 aprile 1948 (quando, nelle zone controllate dalla banda Giuliano, gli unici politici “autorizzati” a fare campagna elettorale saranno i democristiani e i monarchici, che infatti alla fine stravinceranno e daranno vita al governo regionale di centrodestra Dc-Pli-Partito monarchico con l’appoggio occulto del Msi; a guidarlo Franco Restivo, futuro ministro de dell’Interno). Una strage ordinata a Turiddu e alla mafia da mandanti politici, sicuramente siciliani, forse anche romani, con i quali il bandito ha avuto rapporti prima e dopo l’eccidio tramite alcuni capimafia, agenti governativi ed esponenti dei servizi segreti italiani e americani.
Giuliano, che politicamente è piuttosto ondivago, passando da simpatie di sinistra a legami strettissimi con esponenti monarchici, missini e separatisti, si presta alla strage su commissione in cambio della promessa dell’impunità per tutte le sue “imprese” passate. Poi però intuisce che i suoi referenti lo stanno scaricando, anzi mirano a “bruciarlo” dopo averlo usato. Intanto polizia e carabinieri pensano bene di servirsi di Cosa nostra per fargli terra bruciata intorno, anche perché la sua latitanza, che dura ormai da sei anni, copre di ridicolo le forze dell’ordine non solo agli occhi dell’Italia, ma anche del mondo. Giuliano sa molte cose, a cominciare dai suoi affettuosi incontri alla macchia con l’ispettore generale della polizia Ciro Verdiani e il procuratore generale di Palermo Emanuele Pili. E tenta di ricattare lo Stato, inviando dalla macchia una serie di lettere e documenti ai giornali.
Il 24 novembre 1948, per esempio, lancia un messaggio ai parlamentari siciliani della Dc: “Nelle nostre zone non si è votato che per voi e così noi abbiamo mantenuto le nostre promesse, adesso mantenete le vostre”. Il 16 aprile 1949, fra un assalto a una caserma e una strage di carabinieri, spedisce un’altra lettera aperta ai giornali, in cui sfida una decina di ministri e minaccia addirittura di insediarsi a Palazzo Chigi al posto loro.
Girolamo Li Causi, senatore comunista, lo invita a fare i nomi dei suoi mandanti. Il bandito gli risponde con una lettera autografa all’Unità, pubblicata il 30 aprile 1950, che chiama in causa direttamente Mario Scelba, il politico democristiano e siciliano che è il ministro dell’Interno del governo De Gasperi: “Scelba”, scrive Giuliano, “vuol farmi uccidere perché io lo tengo nell’incubo per fargli gravare grandi responsabilità che possono distruggere tutta la sua carriera politica e financo la vita”. Il 29 gennaio 1949 il pastore Giovanni Genovese raccontò al giudice istruttore di Palermo un fatto di cui era stato testimone oculare: tre giorni prima della strage, il 28 aprile 1947, vide Giuliano incontrarsi in contrada Saraceni con il cognato Pasquale Sciortino, il quale gli portò una lettera.
Turiddu si appartò, la lesse, la bruciò, poi tornò dai suoi uomini e annunciò: «È arrivata l’ora della nostra liberazione: il Primo Maggio andremo alla Portella delle Ginestre a sparare sui comunisti!». Non è una millanteria, ma un fatto accertato dalla sentenza della corte d’assise di Viterbo sulla strage, in cui si legge: “Che la lettera abbia una qualche relazione con il delitto che, a distanza di qualche giorno, fu consumato da Giuliano e dalla banda da lui guidata, pare alla Corte non possa essere posto in dubbio”.

GIULIANO, MORTO CHE CAMMINA
Le indagini appureranno anche una trattativa segreta dopo la strage: Giuliano chiede la scarcerazione di alcuni parenti arrestati e l’impunità per sé, con la garanzia dell’espatrio e di una congrua somma di denaro. Ottenute queste garanzie, il 20 giugno 1950, firma un memoriale per il Pg Pili, in cui si dichiara unico responsabile dell’eccidio di Portella. È l’errore fatale, che lo priva dell’ultima arma di ricatto e fa di lui un morto che cammina. Inizia cosi una gara fra la polizia e i carabinieri, a chi riesce a farsi fotografare accanto al suo cadavere. Ormai sono in molti a prevedere che Giuliano farà presto una brutta fine. Il grande giornalista dell’Unità Alberto Iacoviello, in un memorabile reportage da Montelepre intitolato “Giuliano sa tutto e per questo sarà ucciso”, scrive: “Giuliano conosce esecutori e mandanti. E qui il gioco diventa grosso. Giuliano comincia a sapere troppe cose. Se lo prendono, parla. Ettore Messana, l’ispettore di polizia, non lo prenderà. Oppure lo prenderà in certe condizioni. Morto e con i suoi documenti distrutti, se ne ha”. Previsione azzeccata. Poco tempo dopo, nella notte tra il 4 e il 5 luglio 1950, Giuliano viene assassinato. Dai carabinieri in un conflitto a fuoco, dice la prima versione ufficiale. Da Gaspare Pisciotta che quella notte dormiva con lui, scoprono quasi subito due giornalisti coraggiosi de L’Europeo, Tommaso Besozzi e Nicola Adelfi. O forse dal giovane killer di Cosa nostra Luciano Liggio al quale, secondo altre fonti sempre sussurrate e mai confermate, Aspanu si limitò ad aprire la porta della stanza.
Chiunque l’abbia commesso, anche questo è un delitto su commissione. Anche questo commesso dietro la promessa dell’impunità. Anche questa volta lo Stato si serve di criminali per compiere un crimine in nome della “ragion di Stato”.
Da mesi Giuliano si sente solo e braccato. E soprattutto abbandonato: dai politici, dai mafiosi e dalle forze dell’ordine. Si aggira per le sue montagne come un lupo ferito e rabbioso. Scrive ai giornali lettere sempre più sgrammaticate e piene di messaggi. Ha perso i contatti con la realtà. Diffida di tutto e di tutti, fuorché dell’uomo che sta per tradirlo: il fedelissimo e forse cugino Gaspare Pisciotta.
Nato anche lui a Montelepre (Palermo) il 5 settembre 1924 da una famiglia di modestissime condizioni, Aspanu ha fatto parte nella seconda guerra mondiale di un reggimento di bersaglieri. Catturato nel 1943 in Croazia e internato in un campo di concentramento, è tornato in Sicilia un anno dopo, malato di tubercolosi. E s’è intruppato nella banda Giuliano, che all’epoca affiancava il movimento separatista armato siciliano (Evis) a colpi di rapine, assalti alle caserme, agguati alle forze dell’ordine, sequestri di persona. A Portella, il 1° maggio 1947, c’è anche lui.
Tre anni dopo, quando Turiddu è ormai un uomo farneticante e disperato, fa due calcoli e accetta di tradirlo con i carabinieri. Si accorda con il colonnello Ugo Luca, l’esperto di antiguerriglia che ha ben meritato in guerra nei Balcani ed è stato spedito a Palermo alla guida del Cfrb (Corpo forze repressione banditismo). I contatti fra i due li tiene, sulle prime, un emissario di Luca: il maresciallo Giovanni Lo Bianco, che nel gennaio 1950, prima di parlare con Pisciotta, ha tentato di mettersi d’accordo con Cosa nostra. S’è incontrato col mafioso Giovanni “Nitto” Minasola (del clan dei Miceli di Monreale) alle pendici del monte Pellegrino che sovrasta Palermo, e gli ha chiesto la testa di Giuliano. Minasola pero è riuscito a eliminare solo tre gregari del bandito, il quale alla fine l’ha fatto prigioniero e l’ha affidato a Pisciotta perché lo fucilasse nella piazza di Monreale. Pisciotta però, nel tragitto, ha cambiato cavallo. Ha chiesto a Minasola di presentargli Giovanni Lo Bianco. Poi l’ha liberato e, al ritorno, ha raccontato a Turiddu che l’ostaggio gli era sfuggito. Il bandito, ormai fuori di sé, ha preso per buona quella fandonia e ha seguitato a fidarsi dell’infido cugino.
Aspanu incontra Lo Bianco a metà giugno. Anche a lui il maresciallo chiede la testa di Giuliano. Lui risponde che va bene, ma in cambio vuole un attestato di benemerenza firmato da Scelba per aver liberato la Sicilia da “questo pazzo sanguinario”.
Lo Bianco rilancia con la promessa dell’espatrio e della taglia da 50 milioni di lire (almeno 2,5 milioni di euro di oggi) che grava sulla testa del cugino. Ma Pisciotta non vuole soldi, né muoversi dalla Sicilia. E chiede di parlare direttamente con Luca. I due, il colonnello e il bandito, s’incontrano in una casa alla periferia di Monreale, mentre Lo Bianco e Minasola, il carabiniere e il mafioso, vigilano sulla porta armati fino ai denti. In mezz’ora l’accordo è fatto. Luca e Pisciotta si rivedono dieci giorni dopo. Il primo consegna al secondo il sospirato attestato, un foglio scritto a macchina pieno di intestazioni e di timbri ufficiali: “Il nominato Gaspare Pisciotta si sta attivamente adoperando, come da notizie forniteci in data 30 giugno dal colonnello Luca, per restituire a Montelepre e alle zone vicine la tranquillità e la concordia, cooperando per il ripristino della legge. Assicuro e garantisco fin d’ora che la sua preziosa opera sarà tenuta nella massima considerazione: nell’avvenire sarà data segnalazione all’autorità giudiziaria perché, anche sulla base delle giustificazioni e dei chiarimenti che egli fornirà, voglia riesaminare quanto gli è stato addebitato, vagliando attentamente e minuziosamente tutte le circostanze dei suddetti episodi, al fine che nulla sia trascurato per mettere in chiara luce ogni elemento a lui favorevole.
Il colonnello Luca, mio fiduciario, raccoglierà ogni dato utile al riesame della sua posizione’’. Firmato: “Mario Scelba, ministro dell’Interno”.

DUE COLPI DI CALIBRO 9
È un falso costruito ad arte dal colonnello, ma il bandito abbocca. E s’impegna a eliminare Giuliano al più presto. Luca ordina ai comandi territoriali dell’Arma di allentare la morsa su Turiddu, perché possa circolare indisturbato, senza sospettare nulla. La sera del 4 luglio 1950, verso mezzanotte, una Fiat 1100 nera guidata dal capitano Antonio Perenze si ferma davanti al monumento ai Caduti in piazza Matteotti, a Castelvetrano, e fa scendere Pisciotta. Il bandito si guarda intorno: nessuno.
Due passi per via Mannone ed è nell’abitazione di Gregorio De Maria, detto l’avvocaticchio”: l’uomo che da sei mesi ospita Giuliano. Turiddu, nella cucina al pianterreno, ha appena finito di cenare: olive nere, formaggio, pane, vino bianco. Poco prima l’ispettore Verdiani gli ha mandato a dire: “Guardati da tuo cugino”, alludendo alle tresche in corso con Luca. Ma Giuliano non riesce più a distinguere fra amici e nemici.
Dopo la cena, il caffè e le chiacchiere di rito, i due cugini salutano il padrone di casa, “l’avvocaticchio”, e salgono al primo piano. Dormono insieme, stessa stanza, stesso letto, come si conviene al bandito e al suo guardaspalle. Turiddu si addormenta, Aspanu finge. Poi, alle tre, gli spari. Due colpi di calibro 9 alla schiena uccidono il Re di Montelepre all’istante. Arriva il capitano Perenze con i suoi uomini che, insieme a Pisciotta, trascinano il cadavere giù dalle scale fino al cortile. Nella fretta, però, i carabinieri non s’accorgono di aver sistemato il corpo a valle del rivolo di sangue che gli cola dalle ferite. Un errore fatale, quello del sangue che va all’insù, che insospettirà subito il giornalista Tommaso Besozzi e l’aiuterà a smascherare la messinscena dell’Arma: Giuliano è morto in camera ed è stato trasportato lì già morto. Altro che conflitto a fuoco mentre tentava di fuggire. Altro che brillante operazione dei carabinieri.
Il salvacondotto con la firma falsa di Scelba protegge Pisciotta per tre o quattro giorni. Poi, dopo lo scoop de L’Europeo, l’uomo che ha tradito Turiddu è di nuovo costretto alla clandestinità. Perenze lo ospita per un po’ in casa sua, lo fa scortare per lo shopping, gli paga addirittura un esame dal radiologo. Ora Pisciotta chiede un passaporto e i 50 milioni della taglia: vuole espatriare, ma l’Arma è nell’occhio del ciclone, e Luca non riesce a soddisfarlo. Ma mentre i carabinieri tentano altre strade per farlo sparire, possibilmente in tempo per evitare che si presenti al processo, la polizia si mette di traverso. E il 5 dicembre 1950 arresta Pisciotta, che da qualche giorno vive asserragliato in un vano ricavato dentro il soffitto di casa sua.
«A mmmia!», esclama Aspanu mentre lo portano all’Ucciardone. Si sente tradito, scaricato. Al processo di Viterbo, iniziato il 12 giugno 1950 quando lui era ancora latitante e Giuliano era ancora vivo, ammette di aver sparato a Turiddu. Lo fa in un documento affidato al suo avvocato perché lo legga in aula. Fra l’altro, c’è scritto: “Avendo io personalmente concordato con il ministro degli Interni Scelba, Giuliano è stato ucciso da me”. L’avvocato aggiunge che Giuliano aveva scritto un “vero” memoriale (diverso da quello “minore” spedito ai giudici, in cui sosteneva che a Portella c’era stato un tragico errore di mira) con i nomi dei mandanti della strage.
Intanto il colonnello Luca, appena promosso generale, ammette in un’intervista di essersi servito di Pisciotta per catturare Giuliano, ma non specifica che fu proprio lui a uccidere il cugino. Pisciotta, furibondo, prende la parola dalla gabbia dell’Assise di Viterbo, per smentirlo. È il 16 aprile 1951 quando, davanti a una folla di giornalisti, fa i nomi dei mandanti politici della strage e racconta per filo e per segno tutti gli incontri e le trattative fra banditi e uomini delle istituzioni, con tanto di promesse di impunità: «Banditi, mafia e carabinieri eravamo tutti una cosa sola, come la Santissima Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo!», urla. E ancora: «Io ho liquidato Giuliano senza alcun vantaggio materiale. Chiedo che Luca venga a deporre: voglio proprio vedere se riuscirà a dimostrare di avermi dato una sola lira dei 50 milioni della taglia. Sono un bandito, sissignori, ma un bandito onesto!».

L’INTRIGO POLITICO
Il 14 maggio Pisciotta viene interrogato. Racconta di essersi dato al banditismo solo per servire l’ideale dell’indipendenza della Sicilia e di essere stato tradito, insieme a tutta la banda di Montelepre, dai capi del Movimento. Quando Giuliano lasciò l’indipendentismo per imbarcarsi con monarchici e democristiani – sostiene – lui lo mise in guardia: «Non ti mettere con quelli, ci tradiranno come gli altri». MaTuriddu gli rispose: «In caso di vittoria della Dc, avremo tutti l’impunità. Se invece le cose andassero male, potremo emigrare in Brasile nelle terre del principe Alliata». «A quel punto», spiega Pisciotta, «essendo gravemente malato, mi staccai da Giuliano». Domanda il presidente dell’Assise: «Chi erano le persone con cui Giuliano entrò in contatto?». Il bandito snocciola quattro nomi eccellentissimi: l’onorevole Bernardo Mattarella, il ras più potente della Dc siciliana; il principe Giovanni Francesco Alliata e Giacomo Geloso Cusumano, deputati monarchici; e l’onorevole Leone Tommaso Marchesano, dell’Uomo qualunque.
Il presidente domanda perché, dopo la vittoria della Dc nel ’48, la promessa dell’impunità non fu mantenuta. E lui: «Ci fu in proposito un convegno in contrada Parrini fra Giuliano, Mattarella, Cusumano e me. Successivamente Mattarella e Cusumano andarono a Roma, perché ci fosse concessa l’amnistia per tutti i reati. Fu il ministro Scelba a opporsi. Mi riferirono che rispose: “Coi banditi non tratto”...». È aggiunge che il principe Alliata regalò a Giuliano e al tenente colonnello dei carabinieri Giacinto Paolantonio due orologi d’oro della stessa marca. Una circostanza che Alliata non può negare. A questo punto il presidente della Corte ricorda a Pisciotta la testimonianza del pastore Genovese, che vide Giuliano ricevere, tre giorni prima di Portella, una lettera che gli commissionava la strage, e bruciarla dopo averla letta. Pisciotta conferma, ma sostiene che la missiva fu gelosamente conservata da Turiddu, come arma di ricatto allo Stato: «Quella lettera non fu bruciata, certi documenti non si distruggono... Io stesso la lessi parecchi mesi dopo. Fu Geloso Cusumano a consegnarla a Pasquale Sciortino (il cognato del bandito); questi la diede a Giuliano. Cusumano affermò che era una lettera di Scelba. Giuliano me la fece leggere. Diceva pressappoco: caro Giuliano, sai bene che siamo sull’orlo della disfatta del comunismo; con l’aiuto vostro e nostro possiamo distruggerlo; qualora la vittoria sia nostra, avrete l’impunità per tutto. Vidi in fondo la firma di Scelba...».
Pisciotta esibisce in aula varie lettere di ufficiali dei carabinieri e di ispettori di polizia con i quali collaborava, per finire in bellezza con l’“attestato di benemerenza” firmato “Scelba” che gli aveva permesso di circolare indisturbato per un po’. Ma al processo si riparla anche del “vero” memoriale Giuliano, quello con i nomi dei mandanti, ovviamente scomparso. Il presidente chiede al pluridecorato neogenerale Luca, sentito come testimone, se ne sappia qualcosa. Lui – dopo aver ammesso di aver falsificato di suo pugno la firma di Scelba sull’attestato di benemerenza – risponde che a suo tempo Gaspare gliene parlò, confidandogli che era custodito presso una persona a Mazara del Vallo: lui ci mandò il capitano Perenze, ma l’uomo gli disse di aver bruciato il documento. Chi era costui? Pisciotta lo chiamava “l’avvocaticchio” (ma pare che non abbia nulla a che vedere con l’altro “avvocaticchio”, De Maria, l’ultimo a ospitare Giuliano).

LO SCONCERTANTE PROCESSO
Nell’autunno 1951, dopo ben 110 udienze, la Corte d’Assise di Viterbo dichiara conclusa la fase istruttoria. Le clamorose rivelazioni di Pisciotta sui mandanti istituzionali della strage di Portella e del delitto Giuliano cadono nel vuoto. Dinanzi a quella mole di notizie di reato, il procuratore generale Tito Parlatore finge di non sentire e non avanza nessuna richiesta ai giudici di procedere contro i possibili mandanti politici. Spiega che “non spetta a questo processo accertare gli eventuali mandanti e le loro responsabilità”. E si limita a chiedere l’ergastolo per Pisciotta e altri 13 imputati. Invano l’avvocato di parte civile, che rappresenta le vittime della strage di Portella, tenta di opporsi.
Nulla da fare. Il 3 maggio 1952, la sentenza: i giudici condannano Pisciotta e altri 11 imputati, assolvono per insufficienza di prove i cinque rimanenti e con formula piena tutti i “picciotti” (cioè i favoreggiatori della banda); per il resto, cioè per i mandanti, si adeguano all’impostazione minimalista del Pg. Ma poi, nella motivazione della sentenza, ne prendono apertamente le distanze: “Non è la Corte”, scrivono, “investita del potere di esercitare l’azione penale. Essa è un organo giurisdizionale il quale conosce di un reato in base a sentenza di rinvio, ovvero in base a richiesta di citazioni, e non può trasformarsi in organo propulsore di quelle attività che sono proprie di altro organo, il Pubblico Ministero”.
Pisciotta, intanto, scandalizzato tuona ancora: «Troppa gente ha interesse che quei nomi non vengano fuori. Ma ci sono qui io a dire la verità. Debbo ancora sbalordire il mondo: se non fossi stato sicuro dei fatti miei, se non avessi altre lettere da presentare nei futuri processi, state sicuri che sarei altrove». Parole che cadono nel vuoto, anche se c’è chi – sapendo che sono tutto fuorché farneticazioni – non le dimenticherà. Intanto il senatore comunista Girolamo Li Causi – secondo molti il vero bersaglio della strage di Portella, dov’era prevista la sua presenza, poi revocata all’ultimo momento – tenta di rilanciare lo scandalo almeno a livello politico, con un appassionato discorso al Senato in cui punta il dito contro il ministro Scelba. È il 26 ottobre 1951: «Perché», scandisce Li Causi, «avete fatto uccidere Giuliano? Perché avete turato questa bocca? La risposta è unica: l’avete turata perché Giuliano avrebbe potuto ripetere le ragioni per le quali Scelba lo ha fatto uccidere. Ora aspettiamo che le raccontino gli uomini politici, e verrà il tempo che le racconteranno». Ma anche le sue parole cadono nel vuoto. E così pure gli ultimi appelli di Pisciotta, che dal carcere chiede una commissione parlamentare d’inchiesta. Il 10 ottobre 1952 scrive l’ennesima, disperata lettera al presidente della Corte d’assise. Un’altra lettera morta.
L’8 febbraio 1954 l’ergastolano chiede di parlare con un magistrato. Il sostituto procuratore di turno, Pietro Scaglione, va a trovarlo all’Ucciardone. Pisciotta gli annuncia che ha deciso di smascherare una volta per tutte i mandanti della strage di Portella. Fa di nuovo quei nomi, e per la prima volta aggiunge elementi e particolari inediti che potrebbero incastrarli per sempre. Scaglione lo ringrazia e gli dà appuntamento per l’indomani, quando tornerà da lui con un cancelliere per verbalizzare il tutto. Non farà in tempo. L’indomani è il 9 febbraio: il giorno del caffè corretto alla stricnina. Il veleno – rivelerà al processo Andreotti il boss della ’ndrangheta Antonio Mammoliti – lo portò un mafioso calabrese, visto che per i siciliani era molto più difficile avvicinarsi alla cella di Gaspare. Insomma ci ha pensato la ’ndrangheta, per fare un favore alla mafia, che a sua volta ha fatto un favore allo Stato. Uno Stato che prima era ricattato da Giuliano e poi da Pisciotta, e per liberarsi da quell’ipoteca li ha fatti assassinare entrambi. Col risultato che ora è (e sarà a lungo) ricattato dalla mafia, con la quale condivide nuovi segreti indicibili.

HA VINTO COSA NOSTRA
Ecco: è proprio Cosa nostra il vero vincitore della lunga guerra che alla fine ha sterminato, un po’ con gli arresti e le condanne, un po’ con le revolverate alla schiena, un po’ col veleno, la banda Giuliano. “Dalla vicenda”, scriverà lo storico Salvatore Lupo, “la mafia esce rafforzata, legittimata nella sua funzione d’ordine dai funzionari di polizia... I banditi caduti rappresentano le vittime della lotta per la ridefinizione delle gerarchie criminali nel caos del dopoguerra che rappresenta “l’umiliazione” dell’idea di mafia d’ordine... Sono gli apparati dello Stato che, a furia di evocare la funzione mediatrice e regolatrice di Cosa nostra, finiscono per materializzarla veramente”. “Per chi crede alle coincidenze”, fa notare Alfio Caruso nel suo splendido Da Cosa nasce Cosa (Longanesi, Milano, 2000), “nelle stesse ore in cui Pisciotta muore, Scelba giura da presidente del Consiglio”. E non è, quella, la sola coincidenza. Dopo Pisciotta muoiono assassinati o suicidati tutti i depositari dei segreti di Portella: i banditi intermediari tra Giuliano e le forze dell’ordine, i testimoni di incontri compromettenti, l’ispettore di polizia che aveva tenuto i contatti. Un mese dopo Pisciotta, viene avvelenato in cella anche Angelo Russo, altro membro della banda Giuliano: stavolta niente stricnina nel caffè, ma cicuta nel vino. E muore avvelenato anche Geloso Cusumano, l’ex deputato regionale monarchico sospettato di aver scritto la lettera che commissionava la strage. L’avvocato Rodolfo Giglio, indicato da alcuni come “l’avvocaticchio” depositario del vero memoriale di Turiddu, viene ritrovato cadavere in un pozzo. Il mafioso Nitto Minasola che aveva “venduto” Giuliano alla polizia viene abbattuto a pallettoni nel corso principale di San Giuseppe Jato, nel 1960. Filippo Riolo, l’uomo a suo tempo arrestato con l’accusa di aver portato la stricnina dentro l’Ucciardone per Pisciotta, viene giustiziato a Palermo nel 1961. Persino l’ispettore Verdiani muore in circostanze misteriose. Pietro Scaglione, il magistrato che ha raccolto fuori verbale le ultime rivelazioni di Aspanu, diventerà presto procuratore capo di Palermo: verrà assassinato da Totò Riina e Luciano Liggio nel 1971.
“La lezione di Giuliano e Pisciotta”, scrive ancora Roberto Scarpinato, “resterà impressa nella memoria storica degli uomini della mafia militare negli anni a venire. Mai illudersi di sfidare e ricattare il potere vero; il potere che celandosi dietro le maschere mutevoli degli apparati formali, si riproduce sempre uguale a se stesso, risorgendo come l’araba fenice dalle ceneri delle varie forme dello Stato che si succedono nel tempo (monarchia, fascismo, repubblica). È una sfida prima o poi perdente. Bisogna saper stare al proprio posto, senza alzare mai la testa.
Questa era la lezione fatta propria da un boss di provata esperienza come Gaetano Badalamenti, che di trame di Stato, nazionali e atlantiche, se ne intendeva. La stessa lezione era stata assimilata da Tommaso Buscetta, da Francesco Marino Mannoia e da tanti altri mafiosi che, divenuti in seguito collaboratori di giustizia, ripetevano al giudice istruttore Giovanni Falcone che di mafia e politica non si poteva parlare perché altrimenti finiva male per tutti; loro sottoterra e lui al manicomio, o viceversa... La strage di Portella costituisce un prototipo con tutti gli ingredienti che negli anni successivi caratterizzeranno l’evoluzione della criminalità dell’alta mafia. Si tratta infatti di un copione che verrà replicato innumerevoli volte... E che dimostra in corpore vivo come la violenza di settori deviati dello Stato si intrecci e si coniughi con quella occulta mafiosa all’unico fine di mantenere lo status quo contro il pericolo di suoi sovvertimenti”.
Il memoriale Giuliano e le rivelazioni soffocate nella gola avvelenata di Pisciotta, come in seguito la”lista dei 500” in mano a Michele Sindona con i nomi degli esportatori di valuta all’estero, e ancora l’elenco completo degli iscritti alla P2 custodito da Licio Gelli in Uruguay, e il memoriale di Aldo Moro prigioniero delle Br, giù giù fino alle presunte carte di Totò Riina sparite dal covo non perquisito dal Ros dei carabinieri nel gennaio 1993: una lunga scia di ombre, e di sangue, sull’eterno ricatto fra Stato e l’Antistato che rende impossibile la verità. È quel che scrive Leonardo Sciascia nel suo Nero su Nero (Einaudi, Torino, 1979) : “Chi non ricorda la strage di Portella della Ginestra, la morte del bandito Giuliano, l’avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta? Cose tutte, fino ad oggi, avvolte nella menzogna. Ed è da allora che l’Italia è un Paese senza verità. Ne è venuta fuori, anzi, una regola: nessuna verità si saprà mai riguardo ai fatti delittuosi che abbiano, anche minimamente, attinenza con la gestione del potere”. Perché, dirà ancora Sciascia, “lo Stato non può processare se stesso”.