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 2015  febbraio 27 Venerdì calendario

COSÌ IL POTENTE PREDATORE SCOPRE TUTTI I PIACERI DELLA CARNE

“Si immerse a testa in giù e prese a inabissarsi sempre di più nuotando con grande forza. Tenendo gli occhi aperti notò le forme spettrali e fosforescenti dei velocissimi squali...” (Jack London, Martin Eden)

Quando nacque, da genitori ventenni che sarebbero vissuti ancora una decina d’anni, era già di proporzioni considerevoli. La madre, durante la gestazione dei cuccioli, aveva trovato riparo in una baia dalle acque poco profonde, alla foce di un fiume dove c’era abbondanza di cibo, in un anfratto nascosto a eventuali predatori. La sua pelle, diventata più robusta per difendersi dai nemici, mostrava tuttavia segni ben netti di morsi: con questi il maschio aveva manifestato il suo interesse nelle fasi di corteggiamento, ma l’aveva morsa anche durante l’accoppiamento, per mantenere la posizione corretta, nuotando sopra di lei, in parallelo, senza smettere di muovere le pinne.
Lo squalo appena nato si era sdegnosamente allontanato subito dal resto della famiglia: non aveva alcuna intenzione di farsi ammaestrare. Nuoto e nutrimento sarebbero stati affar suo. E anche in seguito, almeno nei primi anni, il suo carattere solitario, schivo verso i suoi simili o, ancor più, i dissimili, lo avrebbe spinto a percorrere distanze immense pur di sfuggire al contatto con branchi o singoli squali che lo seguissero o mostrassero di volersi aggregare.

Fuori giri. Non che la padronanza del nuoto fosse una faccenda semplice, all’inizio: il cucciolo non riusciva a calibrare correttamente la velocità. La pinna della coda, la più importante, dava colpi troppo potenti e, con questo motore “fuori giri”, l’animale non era in grado di controllarne la forza. Quell’appendice posteriore pareva talmente carica di energia da sopravanzare gli impulsi, come non dipendesse dalla sua volontà. Ma con qualche esercizio di perfezionamento del nuoto arrivò a comprendere che, mentre quella pinna caudale, una volta domata, poteva equilibrarlo, dargli stabilità e movimento regolare di propulsione, le pinne pettorali, più piccole, gli permettevano di compensare la spinta verso il basso.
In Cina le pinne di squalo sono considerate prelibatezze: recise agli animali vivi, rendono gustosa una zuppa, mentre lo squalo mutilato viene ributtato in acqua, dove muore per asfissia non potendo più nuotare oppure viene divorato da altri pesci. Fortunatamente ignaro di tutto ciò, il giovane squalo prendeva gusto a tagliare la superficie dell’acqua, in emersione, con la pinna dorsale triangolare e appuntita, come un coltello che si infila diritto nelle carni, ma neppure questo poteva saperlo né ancora era stato fatto oggetto d’attenzione dai cacciatori. Nelle carni altrui avrebbe imparato a infilare i propri denti aguzzi, pronto, quando gli si sarebbero spuntati o danneggiati, a rimpiazzarli con file nuove di dentatura, una riserva che dalle retrovie poteva avanzare e schierarsi in prima linea, nella posizione di un esercito compatto in attesa di entrare in azione azzannando.
Tutto ciò che doveva sapere su se stesso e sulla propria natura lo squalo lo avrebbe appreso con l’esperienza. Così, nuotare e nutrirsi divennero presto le attività primarie alle quali dedicare la più parte del tempo, senza distinzione del giorno dalla notte: anche dormendo, lo squalo si teneva istintivamente in moto per non morire asfissiato. A riposo, infatti, pompava acqua attraverso le branchie, con una ventilazione “a ingoio” che gli assicurava una riserva costante di acqua ossigenata. Dormiva nuotando continuamente, metà del cervello in stato di coscienza e tenendo gli occhi ben aperti e vigili: nessuno poteva sorprenderlo nel sonno. Quel suo andare senza sosta negli oceani, percorrendo miglia e miglia, era dunque necessità cruciale per vivere, per respirare: e allora perché non farla diventare un’attività redditizia anche per mangiare?

Una macchina da guerra. Quando, per la prima volta, dopo essersi fino allora nutrito di plancton, capì che avrebbe dovuto imparare a cacciare prede più consistenti per i suoi denti, lo squalo ormai cresciuto il doppio o il triplo di quello che era alla nascita, vedendo sfilare gruppi di delfini che cercavano di schivarlo, cominciò a inseguirli. Dapprima era anche un gioco di abilità: chi avrebbe nuotato più velocemente? Ma, scegliendone uno che pareva maldestro e lento nelle evoluzioni in acqua, gli si mise alle costole, e, non mollandolo neanche un secondo, grazie ai colpi violenti della sua pinna gli fu subito addosso. Al primo morso, andò in estasi per la dolcezza morbida delle carni: decise che quei pesci sarebbero diventati i preferiti, dato che gli sembravano così soffici e di sapore squisito.
Col tempo, saggiata l’abilità della sua nuotata superiore a tutti e la sua natura di predatore, ci prese gusto. Mettendoci la ferocia, la durezza di chi non dà tregua o non perdona debolezze alle vittime predestinate, si fece la fama di spietato anche fra i suoi simili. Forse divorò uno dei fratelli di nidiata, un esemplare malconcio, uscito ferito da un duello furioso con un’orca marina che lo aveva fatto stramazzare con la sua enorme coda e se lo era rosicchiato soltanto un poco sul fianco, lasciandogli uno squarcio ancora sanguinante: un richiamo irresistibile.
Di cattiveria in cattiveria, lo squalo andò lontano, sempre più lontano dal luogo dov’era nato. Dotato di straordinaria resistenza e dinamicità (la sua pelle a dentelli riduceva l’attrito con l’acqua e insieme poteva diventare arma di difesa e di attacco, provocando abrasioni e ferite), si spingeva fin nelle profondità più oscure, dove adattava perfettamente la vista, e scopriva che, nuotando, poteva farsi anche silenzioso e persino luminescente. Illuminandosi di una luce bluastra, traeva in inganno i tonni, simulando la presenza di piccoli pesci d’altre specie.
Il suo olfatto, sempre più sviluppato, insieme all’udito era in grado di identificare prede a distanze considerevoli: quando la distanza si accorciava, lo squalo prendeva a girare intorno alla vittima designata studiandone i movimenti in acqua per essere poi un lampo a piombarle addosso. Sgombri, aringhe, calamari: la loro sorte era allora segnata. A volte li stordiva con un colpo di pinna, per renderli inermi prima di mangiarseli. Era capace di ruotare gli occhi all’indietro, per proteggerli quando temeva di poter essere a sua volta ferito.

Alla conquista della balena. Perennemente curioso e irrequieto, quando, avvicinandosi un giorno a riva, si imbatté in un gruppo di squali che si davano da fare intorno a quella che ormai era solo una carcassa di balena, si unì al lavoro di gruppo. La balena, intontita dal rumore dei radar, aveva perduto l’orientamento e si era smarrita, finendo spiaggiata: tre o quattro squali avevano allora collaborato a spostarla al largo, in acque aperte. Lo squalo solitario, che per una volta, socializzando, aveva fatto parte della compagnia, si guadagnò il diritto di divorarsi le membra martoriate della grande balena, in grado di sfamarli tutti. A pancia piena, soddisfatto, trascorso un tempo sufficiente a capire che preferiva tornare in solitudine, si rimise in cammino, con una nuotata velocissima che la sua mole affusolata e idrodinamica era in grado di percepire e dosare, traendo piacere da quelle corse sfrenate. Nuotava per il brivido di sentirsi scivolare tra le correnti, padrone dell’oceano; nuotava per ore, senza ostacoli, mai sazio di stordirsi, mai affamato se poteva abbandonarsi all’estasi del puro movimento, superando colonie di pesci d’ogni genere e specie senza degnarli dei suoi denti, preferendo distese di mare completamente libere e deserte, che fiutava con tutti i suoi acutissimi sensi.

Pericolo dal cielo. Non aveva previsto l’avventura più inaudita della sua non lunga esistenza, verso la quale procedeva a un ritmo tale da non rendersi conto di andare incontro a un pericolo che poteva essergli fatale.
Mentre filava come un siluro tenendosi a un livello medio di profondità, aspirando tutti gli odori che gli erano familiari, i profumi del suo mare, osservando i riverberi della luce, ascoltando suoni, vibrazioni che non lo allarmavano, pareva ignorare che una femmina lo stava seguendo da giorni. Essa era ormai entrata nella sua rotta e — tenendosi a discreta distanza — non smetteva di percorrere la medesima traiettoria. Lo squalo non l’aveva notata o fingeva di non notarla: allora lei si fece più audace. Lo raggiunse quando il maschio rallentò l’andatura, e iniziò una serie di evoluzioni, compiendo capriole intorno alla sua mole. Gli passava sopra e sotto, sfiorandolo col muso, emettendo richiami gioiosi. Il maschio, sorpreso, non aveva ancora deciso come comportarsi, ma pareva non del tutto indifferente. Lasciò che la femmina nuotasse appaiata per un lungo tratto. Non si toccavano, ma lui provò a forzare l’andatura, per metterla alla prova: lei era in grado di stargli a fianco, anzi, talvolta addirittura di superarlo.
Stavano quasi portandosi in superficie, fluttuando in armonia — lui aveva azzardato i primi timidi morsi — quando improvvisamente un boato li spaventò, uno squarcio di luce e fiamme li accecò: a poca distanza da loro precipitò in mare, sfrigolando e con un cupo boato, la carlinga di un aereo gigantesco ad ali spiegate, che aveva perso gran parte della coda. Ciò che si trovarono davanti agli occhi non lo avevano mai visto: le acque, improvvisamente agitate da una tempesta di bagliori, si tingevano di inchiostro nero. Solo per fatalità i due animali marini non si erano trovati esattamente nell’area dell’impatto, di quella catastrofe. Lo squalo era stordito dalla percezione di un forte campo elettromagnetico che sul muso gli provocava scosse. Dopo la violenta caduta, la pancia dell’aereo si inclinava sempre più verso il basso, iniziando una lenta, inesorabile discesa nelle profondità. Corpi umani ne fuoriuscivano, altri erano precipitati nel volo di caduta: gli squali giravano attorno ai cadaveri, spaventati ma incuriositi, per quanto l’acqua fosse talmente torbida e confusa da non permettere di vedere bene. L’istinto predatore trovò comunque la sua pista: lo squalo individuò un corpo vivo, forse l’unico superstite, che si agitava per riemergere in superficie. Batteva le gambe forsennatamente, e l’animale aveva ormai fiutato l’odore del sangue. In un secondo gli fu alle spalle: l’uomo, che era risalito in superficie quasi senza fiato, si girò, e con la forza della disperazione gli assestò un pugno fortissimo sul muso con il braccio ancora sano (l’altro penzolava come un’appendice semi staccata dal tronco). Lo squalo rimase per qualche secondo sorpreso ma soprattutto intontito, perché la cartilagine spugnosa e flessibile del muso, che gli serviva ad assorbire l’impatto con le prede, era la parte più delicata, ricca di sensori. Dopo un attimo d’immobilità, col rischio di soffocare, si riprese: vide la femmina dare piccoli colpi col muso all’uomo, spingendolo verso il maschio. Un invito eloquente: lo squalo sferrò il suo assalto, strinse le fauci con una morsa implacabile sulle gambe dell’uomo che scalciava, troncandole come una ghigliottina.
Mentre il grande animale d’acciaio, il gabbiano ferito, ad ali spiegate ma senza coda, sprofondava sempre più verso gli abissi, il moncone superstite dell’uomo pendeva tra le fauci della femmina quando i due squali si allontanarono, nuotando velocemente per andare a condividere altrove il macabro bottino.

(4 - fine. Gli altri racconti sono stati pubblicati sul n.13 del 28 marzo 2014, sul n.22 del 30 maggio 2014 e sul n.30 del 25 luglio 2014)