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 2015  febbraio 27 Venerdì calendario

LE VITE VIOLATE DELLE DONNE TRAGICA REGOLA DEI CONFLITTI

Fine novembre 1917. Pioggia, fango, freddo. Il nemico alle spalle avanza veloce. È il dramma dello smacco di Caporetto. La colonna di mezzi è bloccata nel traffico tra Gorizia e Udine. Il Piave resta ancora lontano e intanto l’incertezza aumenta, uno a uno saltano i ponti della ritirata. Chi si attarda verrà catturato, se non ucciso. Su di uno dei camion italiani in fuga i soldati trasportano due ragazzine. Sono impaurite, tremano. Sono sorelle, la più grande ha sedici anni. L’altra un paio di meno. Ernest Hemingway nel suo Addio alle Armi, le chiama «uccellini terrorizzati». Italiane quasi bambine tra militari italiani. Il romanzo non ci dice affatto che sono state violentate. Ma la loro paura è palpabile, evidente, traspare dal modo cameratesco — eppure troppo intimo, intrusivo, leggendo il testo originale inglese si potrebbe dire alla fine persino minaccioso — con cui uno dei soldati batte la mano sulla gamba della più grande, il sussultare di questa quando si fa accenno alla loro verginità, lo sguardo basso della più giovane e quello lampeggiante di evidente difesa dell’altra. I soldati offrono loro del formaggio. Le vogliono rabbonire? Non si capisce. E in quell’ambiguità, fatta contemporaneamente di rapace simpatia e sorniona attesa, sta l’aspetto inquietante della situazione. Una lo rifiuta, quasi fosse un pagamento anticipato per la sua acquiescenza a ciò che potrebbe avvenire presto. L’altra lo prende con fare sommesso, lo sbocconcella, quindi ne passa discretamente una fettina alla sorella, che da lei lo accetta.
Alla fine, non avviene nulla. Le due ragazze si spostano su di un altro veicolo quando il loro si impantana definitivamente. Eppure Hemingway ci fa capire che tutto potrebbe ancora succedere e nel modo più violento possibile. Le due ragazzine quasi bambine sono alla mercé delle migliaia di uomini armati e disarmati che le circondano. Donne vittime del conflitto. Allora, prima di allora, dalla notte dei tempi, sino ad oggi. Sono riflessioni che mi vengono dettate dall’incontro diretto con decine di donne yazide rapite, violentate, schiavizzate in serie dai guerriglieri jihadisti dello Stato Islamico (Isis) in Siria e Iraq dall’agosto 2014 e in molti casi anche ben prima. Sempre, in aree di guerra o guerriglia, le donne sono state stuprate, violentate in mille modi, considerate parte del bottino, abusate dagli uomini in armi, prima di tutto dai nemici, ma talvolta anche da quegli stessi soldati che dovrebbero difenderle. La Bibbia ne accenna di continuo. Antichi Greci e Romani lo consideravano uno degli effetti inevitabili dei conflitti. Quello di Hemingway è un romanzo, e tuttavia, come ho già scritto in un altro capitolo di questa serie, si fonda sulle esperienze dirette di un volontario americano tra i ranghi dell’esercito italiano nella Grande guerra. Lo ascoltiamo anche per questo: sta con gli italiani, ma non appartiene alla loro cultura, non deve per forza difendere le tesi di una parte, ha gli strumenti intellettuali e psicologici per prendere le distanze dalla propaganda della macchina militare di cui è ingranaggio. Così, nel suo classico sulla guerra, Hemingway ci dice che a Caporetto, nello sfascio dell’esercito, nel caos della ritirata, le contadine italiane erano a rischio e non solo dell’esercito avversario.

Paura e vergogna. Una versione che ovviamente contraddice la storiografia ufficiale. Va tenuto conto che soltanto dopo la Seconda guerra mondiale e la Convenzione di Ginevra lo stupro e in genere le violenze contro donne e bambini vengono annoverati in modo netto e preciso nella lista dei crimini contro l’umanità, che vanno perseguiti dai tribunali nazionali e internazionali. Prima di allora l’approccio era molto più permissivo, meno attento. Non che nella Grande guerra un quarto di secolo prima non fossero avvenuti stupri, tutt’altro, ma il tema era molto meno sentito, non veniva quasi registrato, era dato per scontato che avvenissero violenze sistematiche contro le donne. Le perpetuarono in modo massiccio, sistematico, continuo, terrificante i soldati turchi contro le comunità armene, yazide e in generale le minoranze percepite come potenziali alleate dei nemici. Avvennero da parte dell’esercito austro-ungarico in Serbia. Da parte dei soldati russi contro le popolazioni tedesche sul fronte orientale. Ne accennarono nei loro diari i soldati trentini mandati a combattere in Galizia. Alla conferenza di pace a Versailles nel 1919 si creò una commissione per investigare i «crimini contro l’umanità», ma restò un fatto marginale, che condusse a pochi processi e ancora meno condanne. Mancarono la volontà e gli organismi internazionali per condurre le inchieste, istruire i procedimenti giudiziari e applicare le pene. I casi più seguiti e pubblicizzati furono quelli dei crimini commessi dai soldati tedeschi contro le donne in Belgio e nella Francia settentrionale. Fu uno dei tanti privilegi goduti dai vincitori. Gli alleati accusarono i tedeschi di avere consapevolmente perseguito una politica degli stupri sistematici per terrorizzare la popolazione e costringerla a cooperare. Ciò sarebbe avvenuto specialmente nei primi mesi del conflitto. Con l’imporsi dell’immobilismo della “guerra delle trincee”, già nel tardo autunno 1914, il fenomeno sarebbe quasi sparito. Alla fine (dopo la firma degli accordi di Versailles il 28 giugno 1919) verranno accusati 901 tedeschi, dei quali però 888 non saranno neppure processati e i 13 condannati non subiranno alcuna pena.
Anche il governo italiano istruì nel dopoguerra una “Reale Commissione di Inchiesta” accusatoria nei confronti delle truppe nemiche. Tra il 1920-21 vennero pubblicati sette volumi, concentrati specialmente sugli episodi seguiti alla rotta di Caporetto dal titolo indicativo: “Il martirio delle terre invase”. Il quarto volume dedicava un intero capitolo alla questione delicata dei “Delitti contro l’onore femminile”. I lavori si svolsero tra mille difficoltà, che ricordano da vicino quelle oggi in Iraq e Siria. Spesso le donne non volevano parlare, ne andava dell’onore famigliare, temevano di essere ripudiate dai mariti e fidanzati. Lo studio era complesso: si calcolava allora che le zone invase dopo Caporetto avessero visto circa 250.000 abitanti fuggire oltre la linea del Piave, ma almeno 900.000 sarebbero rimasti nelle loro case. E di questi ultimi non è affatto detto che tutti fossero filo-italiani. I casi di violenza carnale listati alla fine saranno ben oltre 700, di questi 53 donne sarebbero state uccise dai loro stupratori e 40 sarebbero morte più tardi in conseguenza delle violenze. La Commissione sottolineava che in generale sarebbero state violentate più comunemente le donne trovate sole, o con i bambini piccoli, in fattorie isolate. Tante avrebbero cercato rifugio negli edifici pubblici e nelle chiese. E la grande maggioranza degli episodi di stupro sarebbe avvenuta da parte di piccoli gruppi, composti da tre a sei soldati.

- continua