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 2015  febbraio 27 Venerdì calendario

FERMO SUI BLOCCHI, SCATTAVA AVANTI COME UNA FRECCIA. COSÌ MENNEA HA RISOLLEVATO UN’ITALIA FERITA CHE CORRENDO CON LUI HA RITROVATO FIDUCIA NEL FUTURO

«Non ho mai smesso di correre». Pietro Mennea fila anche ora, lassù nel cielo dove voleva arrivare ed è arrivato: «La fatica non è mai sprecata: soffri ma sogni». Ma noi sì, noi abbiamo rallentato, fino a fermarci. Per un lungo periodo l’Italia è stata in pista con Pietro Paolo Mennea, Barletta 28 giugno 1952-Roma 21 marzo 2013, la Freccia del Sud, il ragazzo dell’Avis che sognava l’Olimpiade e se l’è presa. Ecco, magari non stavamo proprio al suo fianco, piuttosto dietro di lui, il velocissimo figlio di un sarto e di una casalinga che da ragazzo sfidava per scommessa (solo per vincere, sostiene nella fiction Rai, non per i soldi) le Alfa e le Lancia in gare di sprint per le strade di pietra della città pugliese. Secondo Giorgio Tosatti, per molti anni direttore del Corriere dello Sport e poi opinionista televisivo e del Corriere della Sera, «Mennea e la Simeoni erano gli unici casi in cui l’atletica faceva lievitare le copie». Per guardarlo alla tv ci si fermava, come se le sue gare fossero importanti partite di calcio. Nessuno, dopo di lui, ha più avuto questo privilegio. C’è chi ha vinto l’oro olimpico nell’atletica, anche in gare classiche (la maratona), ma l’effetto-Mennea non s’è più visto.
Mennea comincia a correre quando l’Italia, uscita a pezzi dalle macerie del fascismo e della Seconda guerra mondiale, si sta risollevando. Quel suo stare accucciato sui blocchi per poi alzarsi e scattare avanti, veloce, è una perfetta metafora di una nazione che tira su la testa dopo tanti lutti. Allora correre è nobile, allora il sacrificio è la strada per risalire la china. Lo è ancora, ma è una strada meno frequentata. Allora, come ha fatto lui, si è disposti a mollare famiglia, amici, piatti della mamma (la tiella) per andare a vivere come monaci in un moderno convento dello sport come il Centro Bruno Zauli di Formia, lavorando sette giorni su sette.

In allenamento era un martello pneumatico. Pietro Mennea è stato uno dei più grandi sprinter della storia. Uno sceneggiato tv in due puntate (in onda a marzo) come La freccia del Sud di Ricky Tognazzi, prodotto da Luca Barbareschi che si ritaglia il ruolo congeniale dello scontroso Carlo Vittori, mentre Pietro è Michele Riondino, deve concedere per forza qualcosa al romanzo, alla fiction, appunto. Prende scorciatoie, smussa gli angoli, caratterizza i personaggi (il ritratto della famiglia non ha convinto i parenti di Mennea). Ma ci sono immagini vere, come quelle dell’Italia inchiodata davanti alla tv, del fratello di quella che diventerà la compagna della vita, Manuela, che dice: «Mia sorella esce con Pietro Mennea, fantastico, lo devo dire a tutti». Pensare che un ventenne possa affermare qualcosa del genere ora, è un’immersione nella fantascienza. Noi correvamo dietro a Pietro. Il suo oro a Mosca nei 200 metri per quelli della nostra generazione è stampato nella memoria, come il luogo dove ci trovavamo, cosa facevamo in quel preciso istante: 28 luglio 1980. Pietro-bambino nel film tv corre dietro alla corriera che porta via la sua prima passione, Martina. La ragazzina va in Germania, a raggiungere il padre già emigrato lassù. Un classico viaggio della speranza, dal Sud al Nord d’Europa. La vita di Pietro Mennea è la storia di un’Italia “africana” («africano» lo apostrofano con disprezzo alcuni dei suoi primi avversari del Nord) in cerca di riscatto. Per questo, a 16 anni, dopo le sfide all’istituto per geometri Michele Cassandro di Barletta con Salvatore Pallamolla e Domenico Gambatesa, che supera al terzo sprint sui 50 metri, Pietro trova il suo punto di riferimento e il poster da appendere in camera: Tommie Smith. Texano, nero, settimo di undici figli, Smith vince l’oro nei 200 metri all’Olimpiade di Città del Messico, davanti all’australiano Peter Norman e al connazionale John Carlos. Smith stabilisce anche il record del mondo, 19”83, il primo a scendere sotto i 20 secondi. Ma tutto questo finisce sullo sfondo di una delle immagini simbolo del Novecento: sul podio, il 16 ottobre 1968, Smith e Carlos si presentano scalzi (segno di povertà), con una collanina di piccole pietre (ognuna ricorda un nero linciato mentre si batteva per i diritti civili) e, soprattutto, alzano il pugno guantato di nero (simbolo del Black Power).
«Io sono nero dentro» dice Mennea che corre con l’Italia della protesta giovanile, delle università occupate, del fermento, dell’anelito positivo (poi tradito) di chi vuole un mondo migliore. Gli anni 70 lo sorprendono a Formia, al centro tecnico d’eccellenza del Coni che diventerà la sua casa fino al termine della carriera. Il suo primo allenatore, Mascolo, lo ha portato lì. Sono due gli uomini che fanno da traguardo, ora. Oltre a Tommie Smith, a cui si sente legato per l’anelito alla libertà e per il record dei 200 metri, c’è Valerij Borzov, il russo che domina la velocità in quegli anni. E poi c’è l’uomo che lo aiuterà a tagliarlo, quel traguardo, il professor Carlo Vittori di Ascoli, classe 1931. Simile a lui, serio, preparato, scontroso, sarcastico, pignolo, sempre contro. Pietro Mennea è l’Italia che cerca l’eccellenza e trova la solitudine. Un’Italia perfezionista («il tedesco del Sud» lo definisce Gianni Brera), mai sciatta. Racconta Eddy Ottoz, il grande ostacolista azzurro: «Mennea è stato la dimostrazione vivente che solo il lavoro duro paga. La classe ti tocca senza merito, è un dono, ma senza il piacere della sofferenza e dell’allenamento non si arriva da nessuna parte». I coniugi Ottaviani, leggendari custodi della Scuola di Formia testimoniano: «Di qua abbiamo visto passare molti atleti, qualche campione e un solo fenomeno: Pietro».
Quando leggiamo di qualche viziato calciatore che arriva in ritardo agli allenamenti oppure non sopporta la doppia seduta, sorridiamo alle parole del professor Vittori: «Un martello pneumatico. Lo trovavo lì, con l’indice che picchiettava sull’orologio, quelle rare volte che arrivavo con qualche minuto di ritardo». Succedeva anche dopo dieci anni di attività. Nel 1972 all’Arena di Milano corre i 100 in 10” e i 200 in 20”2, eguagliando i record europei. All’Olimpiade di Monaco, ventenne, è medaglia di bronzo dietro Borzov e Black. Vive il dramma della strage degli atleti israeliani, il suo senso di responsabilità gli regala anche questa forma di pressione. Sorpassa Valerij Borzov, in Coppa Europa a Nizza nei 200. La sua è una storia di eterne risalite. Nel 1976 a Montreal potrebbe essere la sua consacrazione, ma non è convinto, vuole rinunciare, lo spingono, va male, è solo quarto. Per il suo mentore, Vittori, valeva l’oro. La settimana dopo, a Viareggio, segna un tempo inferiore a quello di Quarrie, il campione olimpico. Anche in questo caso il convitato di pietra viene superato: Milano, Arena Civica strapiena di gente, 2 luglio del 1977 (20”11), Mennea batte il giamaicano.

Un dito verso il cielo. Dopo quello con Borzov, risolve anche il rapporto con Tommie Smith. Il 12 settembre 1979, a Città del Messico, diventa l’uomo più veloce del mondo sui 200: 19”72. Il primato resisterà 17 anni, fino a Michael Johnson (1996). Gli manca solo l’oro olimpico che arriva nel 1980 a Mosca, rimontando nel rettilineo da ultimo a primo: lui non alza il pugno, ma il dito indice, uscendo dall’ottava corsia, davanti a Wells. Si ritira due volte. La prima otto mesi dopo Mosca. Tornerà per conquistare un bronzo (200) e un argento (4x100) nella prima edizione dei Mondiali di atletica, Helsinki 1983. Ai Giochi di Los Angeles (1984) partecipa alla sua quarta finale olimpica consecutiva, settimo. A Seul 1988, l’ennesimo ritorno dopo l’ennesimo addio, esce al secondo turno, potendo narrare, alla quinta Olimpiade, la storia di un ragazzo che «ha voluto portare il Sud sul podio» e sostenere che «ho dato più io all’atletica di quello che l’atletica ha dato a me».
Sempre antisistema, nel 1980 aveva spinto per la partecipazione dell’Italia all’Olimpiade, dopo il boicottaggio deciso dagli americani e che coinvolse i Paesi Nato. Contro, ma non per principio. Non sopportava l’arroganza del potere, né i pregiudizi. Storici i suoi duelli dialettici con Primo Nebiolo, padre padrone dell’atletica mondiale. Sempre di corsa, anche quando smette di consumare le piste di Formia. Si laurea quattro volte. A Scienze politiche aggiunge Scienze motorie, Giurisprudenza, Lettere. Scrive 23 libri, si impegna in politica, diventa eurodeputato, di quelli che non conoscono l’assenteismo, tenta ma non riesce a diventare sindaco della sua città, Barletta. Lavora sempre e comunque. Mai fermo. Ha sempre un avversario da battere, un traguardo da raggiungere. Nel 2010 insieme alla moglie Manuela, anche lei avvocato, si occupa di una class action negli Stati Uniti per tutelare alcuni risparmiatori italiani travolti dal crac della Lehman Brothers. L’ultimo avversario, però, è insuperabile e se lo porta via in pochi mesi. Anche questa volta, noi abbiamo visto solo la fine, non quello che c’è dietro, la lotta quotidiana, ostinata, giorno dopo giorno contro il male. Agli amici diceva: «Ho solo un po’ di febbre». Pietro Mennea muore il 21 marzo del 2013. La fiction, questo, non lo racconta. Si ferma all’oro di Mosca. Giusto. L’Italia che gli era andata dietro per due decenni, forse si è fermata anche prima.